17 novembre 2013

L’assenza del danno biologico non esclude il danno morale soggettivo.

Lamenta il ricorrente che la Corte palermitana, diversamente da quanto opinato dal giudice di prime cure, avrebbe illegittimamente omesso di riconoscere e liquidare autonomamente il danno morale subiettivo patito dall' An..

Lamenta poi lo stesso ricorrente che il giudice d'appello avrebbe omesso di valutare correttamente le conseguenze, sul piano del danno non patrimoniale, della definitiva compromissione delle normali potenzialità di esplicazione e realizzazione della personalità del danneggiato, tanto in ambito familiare (ivi compreso il diritto all'esplicazione della sessualità irrimediabilmente compromesso) quanto in ambito professionale e di relazione con soggetti terzi.

Osserva, nel richiamare la più giurisprudenza di questa corte, che l'autonomia del danno morale risulta sancita per via normativa, in epoca successiva alle sentenza 11.11.2008 delle sezioni unite di questa corte, dai D.P.R. n. 37 del 2009, e D.P.R. n. 181 del 2009.

Rileva, sotto altro profilo, la illegittimità dell'esclusione di ogni riconoscimento alla lesione del diritto dell' An. alla realizzazione ed esplicazione della persona in ambito tanto familiare quanto lavorativo e sociale.

Le censure devono essere accolte entro i limiti di cui si dirà. Va premesso come questa stessa Corte regolatrice, in più di un'occasione (Cass. 28407/2008; 29191/2008; 5770/010; 18641/011) abbia avuto modo di predicare, in tema di danno morale e di danno "relazionale", i principi di diritto alla cui riaffermazione legittimamente anela il ricorrente.

In particolare, con la recente pronuncia n. 20292 del 2012, si è affermato, in motivazione, quanto segue:

Un più ampio panorama dello stato della giurisprudenza, di legittimità e costituzionale, sino a tutto il 2006 - secondo una ricognizione oggi imposta dall'assai parziale richiamo ad un singolo e non significativo passaggio della sentenza 8827/2003 - consente al collegio una prima considerazione (peraltro non indispensabile, alla luce dei successivi interventi compiuti dal legislatore, a livello di normativa primaria e secondaria, all'indomani delle sentenze dell'11 novembre 2008): un indiscusso e indiscutibile formante giurisprudenziale di un altrettanto indiscutibile "diritto vivente", così come predicato ai suoi massimi livelli, era, sino a tutto l'anno 2006, univocamente indirizzato nel senso della netta separazione, concettuale e funzionale, del danno biologico, del danno morale, del danno derivante dalla lesione di altri interessi costituzionalmente protetti.

In tale ottica, le stesse "tabelle" in uso presso il tribunale di Milano - che questa stessa Corte eleverà, con la sentenza 12408/2011, a dignità di generale parametro risarcitorio per il danno non patrimoniale - ne prevedevano una separata liquidazione, indicando, in particolare, nella misura di un terzo la percentuale di danno biologico utilizzabile come parametro per la liquidazione del (diverso) danno morale subbiettivo.

Le norme di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005), calate in tale realtà interpretativa, non consentivano (nè tuttora consentono), pertanto, una lettura diversa da quella che predicava la separazione tra i criteri di liquidazione del danno biologico in esse codificati e quelli funzionali al riconoscimento del danno morale: in altri termini, la "non continenza", non soltanto ontologica, nel sintagma "danno biologico" anche del danno morale.

Nella liquidazione del danno biologico, invece, il legislatore del 2005 ebbe a ricomprendere quella categoria di pregiudizio non patrimoniale - oggi circoscritta alla dimensione di mera voce descrittiva - che, per voce della stessa Corte costituzionale, era stata riconosciuta e definita come danno esistenziale: è lo stesso Codice delle assicurazioni private a discorrere, di fatti, di quegli aspetti "dinamico relazionali" dell'esistenza che costituiscono danno ulteriore (rectius, conseguenza dannosa ulteriormente risarcibile) rispetto al danno biologico strettamente inteso come compromissione psicofisica da lesione medicalmente accertabile. L'aumento percentuale del risarcimento riconosciuto in funzione del punto invalidità, difatti, non è altro che il riconoscimento di tale voce descrittiva del danno, e cioè della descrizione degli ulteriori patimenti che, sul piano delle dinamiche relazionali, il soggetto vittima di una lesione medicalmente accertabile subisce e di cui (se provati) legittimamente avanza pretese risarcitorie.

Ma quid iuris qualora (come nella specie) un danno biologico manchi del tutto, e il diritto costituzionalmente protetto (quello che le sentenze del 2003 definirono, con terminologia di più ampio respiro, in termini di "valore" e/o "interesse" costituzionalmente protetto) risulti diverso da quello di cui all'art. 32 Cost., sia cioè, altro dal diritto alla salute (che il costituente, non a caso, ebbe cura di non definire inviolabile - al pari della libertà, della corrispondenza e del domicilio - bensì fondamentale)? Quanto al danno morale, ed alla sua autonomia rispetto alle altre voci descrittive di danno (e cioè in presenza o meno di un danno biologico o di un danno "relazionale"), questa Corte, con la sentenza 18641/2011, ha già avuto modo di affermare quanto segue:

"La modifica del 2009 delle tabelle del tribunale di Milano - che questa Corte, con la sentenza 12408/011 (nella sostanza confermata dalla successiva pronuncia n. 14402/011) ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il territorio nazionale - in realtà, non ha mai cancellato la fattispecie del danno morale intesa come voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale: nè avrebbe potuto farlo senza violare un preciso indirizzo legislativo, manifestatosi in epoca successiva alle sentenze del 2008 di queste sezioni unite, dal quale il giudice, di legittimità e non, non può in alcun modo prescindere, in una disciplina (e in una armonia) di sistema che, nella gerarchia delle fonti del diritto, privilegia ancora la disposizione normativa rispetto alla produzione giurisprudenziale. L'indirizzo di cui si discorre si è espressamente manifestato attraverso la emanazione di due successivi D.P.R. n. 31 del 2009, e il D.P.R. n. 191 del 2009, in seno ai quali una specifica disposizione normativa (l'art. 5) ha inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere, morfologicamente prima ancora che funzionalmente, all'indomani delle pronunce delle sezioni unite di questa corte (che, in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un principio di diritto volto alla soppressione per assorbimento, ipso facto, del danno morale nel danno biologico, avendo esse viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi dell'evidenza probatoria, duplicazioni risarcitorie) tra la voce di danno c.d. biologico da un canto, e la voce di danno morale dall'altro: si legge difatti alle lettere a) e b) del citato art. 5, nel primo dei due provvedimenti normativi citati: - che la percentuale di danno biologico è determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni; - che la determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto dell'entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in misura fino a un massimo di due terzi del,valore percentuale del danno biologico".

Quanto, in particolare, al c.d. "danno parentale" la sentenza specifica ancora come "Vadano senz'altro ristorati anche gli aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale inteso come danno esistenziale... al cui proposito approfondita si appalesa la disamina della corte territoriale che, dopo aver ricostruito la vicenda in termini di eccezionalità sotto il profilo dinamico- relazionale della vita dei genitori del piccolo tetraplegico, ha poi altrettanto correttamente ritenuto di conservare un ancoraggio alla liquidazione del danno biologico quale parametro di riferimento equitativo non del tutto arbitrario del danno parentale, quantificando - con apprezzamento di fatto scevro da errori logico giuridici e pertanto incensurabile in questa sede - il danno stesso in una percentuale (l'80%) del pregiudizio biologico risentito dal minore".

Non sembrò revocabile in dubbio alla Corte, e non sembra revocabile in dubbio oggi al collegio, che, nella più ampia dimensione del risarcimento del danno alla persona, la necessità di una integrale riparazione del danno parentale (secondo i principi indicati dalla citata Cass. ss.uu. 26972/08) comporti che la relativa quantificazione debba essere tanto più elevata quanto più grave risulti il vulnus alla situazione soggettiva tutelata dalla Costituzione inferto al danneggiato, e tanto più articolata quanto più esso abbia comportato un grave o gravissimo, lungo o irredimibile sconvolgimento della qualità e della quotidianità della vita stessa.

Sulla base di tali premesse, e sgombrato il campo da ogni possibile equivoco quanto alla autonomia del danno morale rispetto non soltanto a quello biologico (escluso nel caso di specie), ma anche a quello "dinamico relazionale" (predicabile pur in assenza di un danno alla salute), va affrontata e risolta la questione, specificamente sottoposta oggi dal ricorrente incidentale al vaglio di questa Corte, della legittimità di un risarcimento di danni "esistenziali" così come riconosciuti dalla corte di appello di Potenza.

Questione da valutarsi, non diversamente da quella afferente al danno morale, alla luce del dictum dalle sezioni unite di questa corte nel 2008, che lo ricondussero, in via di principio, a species descrittiva di danno inidonea di per sè a costituirne autonoma categoria risarcitoria.

Un principio affermato, peraltro, nell'evidente e condivisibile intento di porre un ormai improcrastinabile limite alla dilagante pan- risarcibilità di ogni possibile species di pregiudizio, benchè priva del necessario referente costituzionale, e sancito con specifico riferimento ad una fattispecie di danno biologico.

Un principio che, al tempo stesso, affronta e risolve positivamente la questione della risarcibilità di tutte quelle situazioni soggettive costituzionalmente tutelate (diritti inviolabili o anche "solo" fondamentali, come l'art. 32 Cost., definisce la salute) diversi dalla salute, e pur tuttavia incise dalla condotta del danneggiante oltre quella soglia di tollerabilità indotta da elementari principi di civile convivenza (come pure insegnato dalle stesse sezioni unite).

Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione che discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo - così dettando un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale alla persona per il terzo millennio.

La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta risposte al quesito circa la "sopravvivenza" - predicata dalla corte di appello lucana - del c.d. danno esistenziale, se è vero come è vero che "esistenziale" è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza, si, ma autonoma, della lesione medicalmente accertabile.

Prova ne sia che un danno biologico propriamente considerato - un danno, cioè, considerato non sotto il profilo eventista, ma consequenzialista - non sarebbe legittimamente configurabile (sul piano risarcitorio, non ontologico) tutte le volte che la lesione (danno evento) non abbia procurato conseguenze dannose risarcibili al soggetto: la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco ad essere estirpato dal (costoso) dentista è certamente una "lesione medicalmente accertabile", ma, sussunta nella sfera del rilevante giuridico (id est, del rilevante risarcitorio), non è (non dovrebbe) essere anche lesione risarcibile, poichè nessuna conseguenza dannosa (anzi..), sul piano della salute, appare nella specie legittimamente predicabile (la medesima considerazione potrebbe svolgersi nel caso di frattura di un arto destinato ad essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico nell'ambito di una specifica terapia ossea che attende di lì a poco il danneggiato).

La mancanza di "danno" (conseguenza dannosa) biologico, in tali casi, non esclude, peraltro, in astratto, la configurabilità di un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) e di un possibile danno "dinamico-relazionale", sia pur circoscritto nel tempo.

Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura delle sentenze delle sezioni unite del 2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (il rapporto familiare e parentale, l'onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all'ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale).

Una indiretta quanto significativa indicazione in tal senso potrebbe essere rinvenuta nel disposto dell'art. 612-bis del codice penale, che, sotto la rubrica "Atti persecutori", dispone che sia "punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita".

Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale - i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore, e la significativa alterazione della vita quotidiana.

Danni diversi e, perciò solo, entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni (che anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita "esterna" per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa).

E' lecito ipotizzare, come sostiene il ricorrente incidentale, che la categoria del danno esistenziale risulti "indefinita e atipica".

Ma ciò è la probabile conseguenza dell'essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, "indefinita e atipica".

Il Collegio ritiene di dover dare ulteriore continuità a tali principi, con conseguente accoglimento dei motivi in esame.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 3 ottobre 2013 n. 22585

Notifica di avvisi di accertamento tributari effettuata a mezzo del messo di conciliazione: è legittima

Procedendo, quindi, all'esame del ricorso principale con l'unico motivo - rubricato "violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, in relazione all'art.360 n.3 c.p.c." - la ricorrente deduce l'errore in cui sarebbe incorsa la Commissione Regionale lombarda per avere ritenuto necessaria la delega del messo comunale senza considerare che il messo di conciliazione rientra, comunque, nell'apparato del Comune sicchè l'Amministrazione finanziaria legittimamente può richiedere che la notificazione di un atto tributario venga eseguita da un messo di conciliazione, quale appartenente alla più ampia categoria dei messi comunali, senza la necessità di alcuna delega specifica.

Il motivo è fondato alla luce dei principi già fissati da questa Corte (Cass. n.5654 del 17/04/2001) secondo cui il messo di conciliazione, pur facendo parte di un ufficio statale (ora soppresso - L. 16 dicembre 1999, n. 479, art. 3) e, pur essendo sottoposto alla sorveglianza del relativo titolare (giudice conciliatore) ex art. 256 del R.D. n. 2271 del 1924, rientra, tuttavia, nell'apparato organizzativo del Comune, ed il rapporto di detto messo, che non sia già dipendente del Comune, ed il Comune medesimo, astrattamente configurabile sia in regime di autonomia che in regime di subordinazione, assume, nella seconda ipotesi, la natura di rapporto di pubblico impiego, sicchè l'amministrazione finanziaria dello Stato, avvalendosi della facoltà concessale dall'ordinamento positivo - sulla base del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 1, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. a, - può richiedere che la notificazione di un atto tributario sia eseguita da un messo di conciliazione, quale appartenente alla più ampia categoria dei messi comunali. Ed ancora (Cass.n.11062 del 12/05/2006) che "le modalità di notifica previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, non comportano alcuna distinzione fra i messi di conciliazione e i messi comunali, appartenendo il Messo di conciliazione all'apparato organizzativo del Comune (qualora non ne sia già un dipendente), collegato al Comune stesso da un rapporto di pubblico impiego, sicchè l'Amministrazione dello Stato, avvalendosi della facoltà concessale dall'ordinamento positivo (D.P.R. n. 633 del 1973, art. 56, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60) può richiedere che la notificazione di un atto tributario sia eseguita da un messo di conciliazione, quale appartenente alla più ampia categoria dei messi comunali (conf. Cass. n. 3594/94; id. n. 5654/01).

Corte di cassazione – Sezione tributarie – Sentenza 2 ottobre n. 22517


Se manca l’avviso, il custode del parcheggio risponde del furto

Le Sezioni Unite di questa Corte - n. 14319 del 2011 - dopo un' attenta disamina del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 7, comma 1, lett. f) ricognitivo e confermativo delle disposizioni già contenute nel D.P.R. 393 del 1959 (art. 4, come modificato dalla L. n. 122 del 1989, art. 15),

[...]

ha affermato il seguente principio di diritto:" L'istituzione da parte dei Comuni, previa deliberazione della Giunta, di aree di sosta a pagamento ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 7, comma 1, lett. f), (C.d.S.), non comporta l'assunzione dell'obbligo del gestore di custodire i veicoli su di esse parcheggiati se l'avviso "parcheggio incustodito" è esposto in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto (art. 1326 c.c., comma 1, e art. 1327 cod. civ.), perchè l'esclusione attiene all'oggetto dell'offerta al pubblico ex art. 1336 cod. civ. (senza che sia necessaria l'approvazione per iscritto della relativa clausola, ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2, non potendo presumersene la vessatorietà)" - che l'utente può non accettare non essendo privo di alternative (Corte Costituzionale n. 66 del 2005).

[...]

Pertanto, onde applicare il surrichiamato principio della sentenza a Sezioni Unite, l'unica peculiarità rilevante del contratto concluso tra le parti che nella fattispecie è equivoca è se il contenuto del regolamento, contenente l'esclusione dell'obbligo della custodia del veicolo, era apposto all'esterno o all'interno della struttura, avendo al riguardo la sentenza impugnata affermato, a pag. 7, che il regolamento contenente l'offerta di parcheggio incustodito era esposto all'entrata dell'area, posta in prossimità della stazione metropolitana di (OMISSIS) e contraddittoriamente, a pagg. 8 e 9 della stessa sentenza - in linea con pag. 8 del ricorso, che richiama all'uopo le fotografie comprovanti che il regolamento era posto all'entrata del parcheggio, in punti strategici, esaminate in altre sentenze che hanno escluso la responsabilità per furti di altre auto verificatisi nella medesima area - che "il contenuto del regolamento era affisso all'interno della struttura", e perciò l'intenzione dell'amministrazione di escludere l'obbligo di custodia del veicolo era irrilevante giuridicamente, non essendo consentito "all'utente di acquisirne la preventiva conoscenza", sì da equiparare l'intenzione dell'amministrazione ai motivi che inducono le parti alla stipula di un contratto, giuridicamente irrilevanti.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 24 settembre 2013 n. 21831


Il figlio che sposta senza autorizzazione la residenza della madre in amministrazione di sostegno non commette reato.

All'esito di indagini preliminari F.S. era tratto a giudizio per rispondere del reato previsto dall'art. 388 c.p., comma 2, per aver eluso l'esecuzione del provvedimento adottato il 4.10.2006 dal giudice tutelare del Tribunale di Viterbo sezione di Civita Castellana che, ai sensi dell'art. 404 c.p.c. e ss., aveva nominato la sorella dell'imputato F.C. amministratore di sostegno della convivente madre L.G., incapace di provvedere a se stessa, che il giudicabile prendeva con sè, riportandola in (OMISSIS).

Con sentenza emessa il 14.12.2011 a conclusione di giudizio ordinario il Tribunale di Viterbo sezione di Civita Castellana ha riconosciuto l'imputato colpevole del reato contravvenzionale di inosservanza di un provvedimento dell'autorità ex art. 650 c.p., così diversamente qualificato il fatto in origine contestato al F., che ha condannato alla pena di Euro cinquanta di ammenda e al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile F.C..

La sentenza, con motivazione contestuale, così testualmente giustifica la decisione: "...il reato di cui all'art. 574 c.p., riguarda l'incapace, mentre il reato di cui all'art. 650 c.p., riguarda il provvedimento della pubblica autorità dato per ragioni di giustizia; nella specie il prevenuto era a conoscenza del provvedimento di nomina dell'amministratore da parte del giudice tutelare, onde non doveva provvedere al trasporto in altro luogo dell'amministranda prima della revoca di detto atto".

[...]

La sentenza è totalmente priva di una accettabile motivazione, essendo vergata su un prestampato con la dicitura che "le risultanze dell'istruttoria hanno confermato la responsabilità dell'imputato per quanto in rubrica ascritto" (sebbene il Tribunale abbia riqualificato l'accusa ex art. 388 c.p., e non - come affermato nella apparente motivazione - ex art. 574 c.p., ai sensi dell'art. 650 c.p.), senza chiarire quali siano le emergenze istruttorie valorizzate per la decisione. Emergenze che, se correttamente apprezzate, avrebbero dovuto condurre al pieno proscioglimento del F.. La madre dell'imputato, in vero, non era nè una minore nè una persona incapace, perchè l'amministrazione di sostegno disciplinata dall'art. 404 c.c. e ss., non presuppone che l'amministrato sia infermo di mente al pari dell'interdicendo, conservando la titolarità dei propri diritti personali e patrimoniali. Il Tribunale ha ignorato le testimonianze dibattimentali delle altre due sorelle dell'imputato, F. A. e L., che hanno riferito come la madre più volte, prima del 18.4.2007 e quello stesso giorno, avesse manifestato la sua ferma volontà di tornare in Sicilia nella sua abitazione di (OMISSIS). D'altro canto l'ordinanza del giudice tutelare che ha nominato alla signora L.G. un amministratore di sostegno (in persona della figlia C.) non ha disposto alcun specifico e incoercibile "affidamento" residenziale dell'anziana.

[...]

Al di là della mancanza di concreta motivazione della sentenza impugnata, che prescinde completamente dall'analisi delle risultanze processuali ed enuncia giudizi apodittici, il reato di cui all'art. 650 c.p., in cui il Tribunale ha creduto di dover derubricare l'originaria accusa ex art. 380 c.p., non sussiste, non ricorrendone gli elementi integrativi nell'indagata condotta dell'imputato.

Come ha puntualizzato la giurisprudenza di questa Corte regolatrice (Cass. Sez. 1, 13.6.2001 n. 29436, Bordi, rv. 219582; Cass. Sez. 1, 24.9.2003 n. 41045, Cosentino, rv. 225784), il reato contravvenzionale di cui all'art. 650 c.p., concernente l'inosservanza di provvedimenti dell'autorità "dati per ragioni di giustizia" può avere a presupposto solo provvedimenti oggettivamente amministrativi che, sebbene emanati per ragioni inerenti a finalità di giustizia in senso lato, hanno come contenuto un esercizio della potestà amministrativa destinata a produrre effetti nei rapporti esterni all'attività specifica e propria del giudice. Di tal che tra i provvedimenti considerati dalla fattispecie regolata dall'art. 650 c.p., avente peculiare natura residuale ("se il fatto non costituisce un più grave reato"), non ricadono quelli tipici della funzione giurisdizionale (sentenza, ordinanza, decreto) e certamente non quelli emessi dal giudice in sede civile. Per provvedimento dell'autorità, ai fini dell'art. 650 c.p., deve intendersi, infatti, ogni atto con cui l'autorità imponga ad una o più persone determinate un particolare condotta, commissiva od omissiva, dettata da contingenti ragioni a tutela di interessi collettivi (id est pubblici) afferenti a scopi di giustizia, sicurezza, ordine pubblico, igiene. In tale quadro normativo, in cui l'esercizio del potere dell'autorità (amministrativa) è destinato ad operare direttamente nei rapporti esterni all'attività propria del giudice, non possono venire in rilievo i provvedimenti giurisdizionali in senso stretto, cioè gli atti tipici del giudice (peri l'appunto sentenza, ordinanza, decreto), che non riguardano in via immediata un interesse di carattere generale ovvero, se anche lo riguardano, non attengono a quel substrato di ordine pubblico, inteso in senso lato e diffuso, che rappresenta l'oggetto, sia pure residuale, della tutela apprestata dall'art. 650 c.p..

Ma, se la condotta dell'imputato non è sanzionabile ai sensi dell'art. 650 c.p., come ritenuto con carente motivazione (ex art. 521 c.p., comma 1) dalla sentenza impugnata, ragioni di completezza di analisi impongono di osservare che la condotta in esame non costituirebbe reato neppure alla stregua della originaria contestazione mossa al F. ai sensi dell'art. 388 c.p., comma 2. Il comportamento dell'imputato che, nella certezza di esaudire la volontà dell'anziana madre (poi deceduta nel 2010) espressa in ambito familiare, l'ha riportata con sè in Sicilia, nella sua terra di origine, non si traduce - infatti - in alcuna inosservanza penalmente apprezzabile del provvedimento con cui il giudice tutelare ha nominato alla donna un amministratore di sostegno ai sensi dell'art. 404 c.c..

L'ordinanza in questione, versata in atti e comunque trascritta per intero nel ricorso odierno, non reca alcuna prescrizione imperativa, limitandosi a conferire ad una figlia della signora L. per mere ragioni di "opportunità" l'incarico di amministratore di sostegno della donna, attribuendole il potere di compiere in nome e per conto della beneficiaria alcuni atti di ordinaria amministrazione, ferma restando per la beneficiaria "la facoltà di compiere personalmente tutti gli atti necessari a soddisfare le proprie esigenze quotidiane". Non solo. L'ordinanza del giudice tutelare indica espressamente gli atti esperibili dall'amministratrice di sostegno, con obbligo di relazione periodica, individuandoli: nella riscossione di pensioni e indennità, nella proposizione di istanze per ottenere prestazioni assistenziali o sussidi, nella presentazione della dichiarazione dei redditi. Nulla l'ordinanza precisa, in termini obbligatori o cogenti, sul luogo di residenza dell'amministranda ovvero sulla sua eventuale incapacità di determinarlo in piena autonomia e consapevolezza. Nè, del resto, il provvedimento del giudice tutelare ex art. 404 c.c., avrebbe potuto disporre in termini diversi.

Corte di cassazione – Sezione VI penale – Sentenza 23 settembre 2013 n. 39217



Legittima la critica non solo politica, ma anche per un avvenimento sportivo e una trasmissione televisiva o radiofonica.

Giova premettere come la libertà di manifestazione del proprio pensiero, garantita dall'art. 21 Cost., così come dall'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, includa la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d'interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d'esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche.

La natura di diritto individuale di libertà ne consente, in campo penale, l'evocazione per il tramite dell'art. 51 c.p., e non v'è dubbio che esso costituisca diritto fondamentale in quanto presupposto fondante la democrazia e condizione dell'esercizio di altre libertà.

Inoltre, secondo principi che possono ormai ritenersi definitivamente acquisiti in giurisprudenza, l'esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione delle idee, sancito dall'art. 21 Cost., rende pienamente legittime anche forme di disputa polemica, nel corso di dibattiti politici, storici e scientifici nonchè nelle campagne giornalistiche, che pure risultino caratterizzate dall'uso di espressioni di dura disapprovazione o riprovazione e dall'asprezza dei toni usati, purchè l'esercizio della critica non trasmodi in attacchi personali, con i quali s'intenda esclusivamente colpire la sfera privata dell'offeso e non sconfini nell'ingiuria, nella contumelia e nella lesione della reputazione dell'avversario.

La prospettiva recepita al riguardo dalla giurisprudenza si articola essenzialmente nella differenziazione tra il diritto di cronaca, che si concreta nella narrazione di fatti che come tali non possono che essere obbiettivamente riferiti e riportati, ed il diritto di critica, che si esplica nell'espressione di un giudizio o di un'opinione personale dell'autore, che non può che essere, invece, inevitabilmente soggettiva.

La conseguenza è che, in tema di diffamazione i limiti sostanziali del diritto di critica e di quello di cronaca non sono coincidenti ma risultano invece differenziati, essendo i primi meno elevati dei secondi; con la precisazione che, quanto più è eminente la posizione o la figura pubblica del soggetto, quanto più è socialmente, storicamente o scientificamente rilevante la materia del contendere, tanto più ampia deve essere la latitudine della critica.

In particolare, la giurisprudenza più avvertita ha da tempo sottolineato l'esigenza della ricerca di un opportuno bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione personale, con l'interesse generale a che non siano introdotte limitazioni alla manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita (v.a partire da Cass. Sez. 5, 8 aprile 1998 n. 761 e poi 16 novembre 2004 n. 6416, 6 luglio 2006 n. 29436, 13 giugno 2007 n. 27339, 18 dicembre 2007 n. 13880 e di recente 17 novembre 2010 n. 1914).

Bilanciamento da individuarsi nel fatto che la critica, diversamente dalla cronaca, soggiace al limite dell'interesse pubblico o sociale ad essa attribuibile, quando si rivolge a soggetti che tengono comportamenti o svolgano attività che richiamano su di essi l'attenzione dell'opinione pubblica.

In sostanza, come rilevato anche in dottrina, dal concetto di critica esula il requisito dell'obbiettività e della serenità, perchè essa consiste sempre in un'attività essenzialmente valutativa, destinata sovente a tradursi nella manifestazione di un dissenso.

Necessariamente, la critica si risolve nell'interpretazione soggettiva dei fatti ed è, pertanto, manifestazione di una lettura individuale degli accadimenti da cui trae origine.

D'altronde, non può prescindersi dal rilievo che nell'esercizio del diritto di critica è logicamente inserita un'intrinseca valenza aggressiva nei confronti del destinatario, che può eventualmente dar luogo ad una compressione del diritto alla reputazione della persona e che può articolarsi nell'espressione di valutazioni d'ordine eminentemente soggettivo.

E' proprio nell'ambito della scriminante del diritto di critica, che non può essere limitata a quella politica ma che può riguardare, altresì, l'esercizio della giurisdizione ovvero un'attività scientifica o, ancora, un avvenimento sportivo o, infine, la diffusione di trasmissioni televisive o radiofoniche, che deve essere inquadrata la fattispecie di cui al presente procedimento.

Tale esimente è indubbio che debba soggiacere, in senso qualitativo, agli stessi limiti del diritto di cronaca nel senso che, anche con riferimento all'esercizio di tale espressione di diritti costituzionalmente garantiti, debbano osservarsi i limiti del pubblico interesse, della verità dei fatti e della continenza delle espressioni adoperate; ma, del pari, non può negarsi che, questa volta in senso quantitativo, tali limiti debbano essere valutati con maggiore elasticità proprio per le considerazioni esposte in apertura di motivazione.

Si è, ancora, rilevato come sia configurabile la scriminante putativa dell'esercizio del diritto di cronaca e di quello di critica quando, pur non essendo obbiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l'onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l'affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte (v. da ultimo, in tema di cronaca giudiziaria ma con principio valido anche per la cronaca normale, Cass. Sez. 5, 5 marzo 2010, n. 23695, Sez. 5, 9 aprile 2010 n. 27106 e Sez. 5, 27 ottobre 2010 n. 3674).

In tema di diffamazione a mezzo stampa, l'erronea convinzione circa la rispondenza al vero del fatto riferito non può, dipoi, mai comportare l'applicazione della esimente del diritto di cronaca e di quello di critica (sotto il profilo putativo) quando l'autore dello scritto diffamante o il direttore della pubblicazione non abbiano proceduto a verifica, compulsando la fonte originaria; ne consegue che nell'ipotesi in cui una simile verifica sia impossibile (anche nel caso in cui la notizia possa essere ritenuta verosimile in relazione alle qualità personali dell'informatore) il giornalista che intenda comunque pubblicarla e il direttore che consenta tale pubblicazione accettano il rischio che essa non corrisponda a verità (v. Cass. Sez. 5, 18 febbraio 2010 n. 19046, Sez. 5, 17 dicembre 2010 n. 13708 e Sez. 5, 4 dicembre 2012 n. 5760).

[...]

Il riconoscimento del diritto di critica tollera, in altre parole, giudizi anche aspri sull'operato del destinatario delle espressioni, purchè gli stessi colpiscano quest'ultimo con riguardo a modalità di condotta manifestate nelle circostanze a cui la critica si riferisce; ma non consente che, prendendo spunto da dette circostanze, si trascenda in attacchi a qualità o modi di essere della persona che finiscano per prescindere dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni di una valutazione di discredito in termini generali della persona criticata.

Corte di cassazione – Sezione V penale – Sentenza 20 settembre 2013 n. 38971


Onere del notificante verificare l’esattezza del domicilio

Pertanto, secondo la condivisibile giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte (recepita anche dalle Sezioni unite con le sentenze n. 3818 del 2009 e n. 14494 del 2010), costituisce onere del notificante, quale adempimento preliminare agli incombenti relativi al procedimento notificatorio, accertarsi dell'assenza di mutamenti riguardanti il domicilio del procuratore costituito nel giudizio al fine di identificare correttamente il luogo della notificazione, con la conseguenza che ricade sullo stesso il rischio dell'eventuale esito negativo della notificazione (ed, eventualmente, della successiva intempestività della notificazione medesima), fatti salvi il caso fortuito o la forza maggiore ed escluse le ipotesi in cui il richiedente non sia incorso in negligenza e il mancato perfezionamento sia dipeso esclusivamente da causa allo stesso non imputabile.

Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 19 settembre 2013 n. 21437


Il sequestro del P.C. all’avvocato indagato è legittimo

Con ordinanza 16.10.12, il tribunale di Siena ha rigettato la richiesta di riesame e ha confermato il decreto di sequestro, emesso il 25.9.2012 dal P.M., a norma dell'art. 252 c.p.p., di due computer, posti nello studio degli avvocati D.B.G. e D.B. S.. In tali computer erano contenuti i files, ritenuti rilevanti, ai fini dell'accertamento dell'attendibilità delle certificazioni mediche, utilizzate dai legali, per ottenere il differimento di udienze penali, per impedimento, sebbene fosse poi risultato che in quello stesso giorno i predetti avevano svolto regolarmente altra attività professionale.

[...]

Il ricorso non è fondato.

L'ordinanza ricostruisce e valuta le emergenze delle indagini in corso, nei confronti di due avvocati che hanno ottenuto il rinvio di udienze penali, producendo un certificato del medesimo medico curante, attestante impedimento dovuto a ragioni salute, impedimento che è invece risultato inesistente.

Il sequestro dei due computer contenenti documenti afferenti alla loro attività è stato effettuato con lo scopo - esplicitato nel decreto di coercizione reale - di individuare i files rilevanti per accertare se i due legali, nei giorni in cui hanno prodotto i certificati attestanti l'impossibilità di svolgere attività lavorativa nelle udienze di cui hanno ottenuto il differimento per assoluto impedimento di presenziare, abbiano altrove svolto regolarmente attività lavorativa.

Di qui l'evidente pertinenzialità tra beni in sequestro e i reati che sono oggetto delle indagini in corso.

Da questo non contestato esame del provvedimento di sequestro, emerge:

a) l'impossibilità di riconoscere agli avvocati D.B. le invocate garanzie di cui all'art. 103 c.p.p., commi 3 e 4, essendo essi interessati nelle indagini non nella qualità di difensori di altri cittadini indagati, ma nella qualità di cittadini essi stessi indagati e, come tali, non meritevoli di privilegiata posizione difensionale: le guarentigie previste dall'art. 103 c.p.p., non introducendo un principio immunitario di chiunque eserciti la professione legale, sono applicabili unicamente se devono essere tutelate la funzione difensiva o l'oggetto della difesa (sez. 2^ n. 32909 del 16.5.2012, rv 253263).

Ugualmente non è opponibile il segreto professionale, in quanto:

a) oggetto e finalità del sequestro sono limitati ai files concernenti non il merito dell'attività professionale svolta dagli indagati, ma il se e il dove tale attività sia stata svolta, nei giorni in cui risultava uno stato patologico incompatibile con l'esercizio delle professione nelle udienze differite per questa causa;

b) il provvedimento coercitivo reale non riguarda comunicazioni o messaggi di posta elettronica tra i legali e i loro assistiti, che potrebbero trovarsi nei computer. Comunque non può porsi il problema del divieto di sequestro della corrispondenza fra difensore e assistito, poichè tale divieto riguarda solamente quei mezzi di comunicazione che siano riconoscibili, grazie ai contrassegni specificati dall'art. 35 disp. att. c.p.p..

Il ricorso va quindi rigettato con condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Cass. Pen. Sez. V, sentenza 24 aprile – 21 agosto 2013, n. 35269


Prelievo del DNA del figlio senza autorizzazione fatto dal padre per valutare se disconoscerlo

Con sentenza del Tribunale di Roma del 18 febbraio 2011 veniva respinta l'impugnazione proposta da P.F., D.G. e dall'Agenzia investigativa ARI avverso il provvedimento del Garante della Privacy n. (OMISSIS) del 22/12/2008, con il quale la predetta Autorità, per quel che ancora interessa, vietava ai ricorrenti ogni ulteriore attività di trattamento dei dati genetici di P.S.M., ottenuti mediante prelievo di due mozziconi di sigaretta appartenenti a quest'ultimo, da parte dell'agenzia investigativa ARI e sottoposti senza il consenso del titolare al prelievo di campioni biologici ed accertamento del DNA, seguito da comparazione con quello dei due figli del secondo matrimonio di P.F.. La medesima Autorità vietava altresì a P. F. ogni ulteriore operazione volta al trattamento dei medesimi dati nell'ambito del procedimento civile in corso di disconoscimento di paternità. Il provvedimento del Garante era stato sollecitato dal reclamo proposto da P.S.M. ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 141.

[...]

E' necessario, peraltro, prima d'individuare il corretto quadro normativo di riferimento, fornire una nozione esatta dei "dati genetici". Al riguardo, come osservato nel controricorso del Garante per la protezione dei dati personali, tali dati sono distinti dai dati sensibili. Questi ultimi sono "i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonchè i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale" (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4). La definizione normativa evidenzia come i dati genetici possono essere anche dati sensibili se, a titolo esemplificativo, diretti a rivelare lo stato di salute o l'origine etnica. Certamente non lo sono se finalizzati ad individuare la consanguineità tra due soggetti, come nel caso di specie. La sovrapponibilità tra le due categorie di dati è, pertanto, relativa e non integrale in quanto la peculiarità dei dati genetici consiste nella rivelazione di un corredo identificativo unico ed esclusivo di ciascuna persona umana, dall'interrogazione del quale possono essere estrapolate un'ampia varietà d'informazioni non tutte da includersi in quelle di natura sanitaria. Da questa originalità e a causa delle potenzialità informative dei dati genetici è sorta l'esigenza normativa di una disciplina specifica del loro trattamento che deve essere sinteticamente illustrata.

Il punto di partenza non può che essere il D.Lgs, n. 196 del 2003, art. 90. Tale norma, inserita nel Capo 5 intitolato "Dati genetici", dispone nei primi due commi: Il trattamento dei dati genetici da chiunque effettuato è consentito nei soli casi previsti da apposita autorizzazione rilasciata dal Garante sentito il Ministro della salute, che acquisisce, a tal fine, il parere del Consiglio superiore di sanità.

L'autorizzazione di cui al comma 1 individua anche gli ulteriori elementi da includere nell'informativa ai sensi dell'art. 13, con particolare riguardo alla specificazione delle finalità perseguite e dei risultati conseguibili anche in relazione alle notizie inattese che possono essere conosciute per effetto del trattamento dei dati e al diritto di opporsi al medesimo trattamento per motivi legittimi.

Dall'esame della norma emerge la necessità, ai fini del trattamento dei dati genetici "da chiunque" effettuato, di un'apposita autorizzazione del Garante, e, come espressamente previsto dal comma 2, del consenso informato del titolare dei dati, corredato delle specifiche finalità e dei risultati perseguibili, oltre che, a conferma della capacità moltiplicativa d'informazioni propria dei dati genetici, della indicazione delle "notizie inattese" che dal trattamento di tale tipologia di dati possano emergere.

La norma contiene, pertanto, una disciplina precisa delle condizioni e modalità di trattamento di tale tipologia di dati, rimettendone l'integrazione soltanto alla "apposita" autorizzazione emanata soltanto nel 2007 (Autorizzazione del garante per la protezione dei dati personali del 22/2/2007).

[...]

Rimane da osservare che il trattamento dei dati genetici, destinato nella specie a orientare la successiva scelta verso un'azione di disconoscimento di paternità, mediante l'accertamento preventivo della consanguineità tra P.S.M. e P.F., oltre a non avere alcuna finalità sanitaria non è neanche astrattamente riconducibile all'esercizio in sede giudiziale di un diritto della personalità di rango quanto meno pari a quello del controinteressato art. 26, comma 4, lett. c) e punto 1.3. dell'Autorizzazione generale n. 2 del 2002 in quanto non può essere equiparata una valutazione di opportunità ante causam diretta a verificare le probabilità di successo in una futura azione di disconoscimento di paternità con la necessaria utilizzazione di alcuni dati come strumenti indispensabili per ottenere tutela giurisdizionale. Nell'azione di disconoscimento di paternità rivolta verso P.S.M. l'indagine sul DNA poteva essere espletata nel corso del giudizio. L'eventuale rifiuto ingiustificato dell'interessato a sottoporvisi avrebbe costituito un comportamento processuale d'indubbio rilievo probatorio, valutabile ex art. 116 cod. proc. civ., che, tuttavia, non avrebbe escluso, così come il positivo svolgimento dell'indagine peritale, anche l'accertamento relativo agli altri fatti costitutivi stabiliti nell'art. 235 cod. civ..

Nessun deficit del diritto di difesa dell'attore poteva collegarsi alla mancata conoscenza preventiva del possibile esito del test predittivo.

Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 13 settembre 2013 n. 21014


Commette illecito penale la madre che minaccia il figlio di separarlo dalla nonna paterna.

Il ricorso è infondato. E' ben vero che la potestà genitoriale comprende la facoltà di stabilire in quale ambito - spaziale e personale - debba vivere il figlio, ma tale facoltà non può essere esercitata in contrasto con le "aspirazioni" dei figli (art. 147 c.c.) e, a maggior ragione, con i loro bisogni più profondi, giacchè, altrimenti, quella potestà si risolverebbe in una forma di tutela - ormai vieta ù di natura padronale: concezione da gran tempo superata da tutte le legislazioni moderne a noi più vicine e, tra queste, del legislatore italiano. Soprattutto, la potestà (tra poco "responsabilità") genitoriale non può essere esercitata per costringere il figlio a comportamenti funzionali alla soddisfazione di interessi - morali ed economici - del genitore e allo stesso tempo contrastanti con quelli, della stessa natura, del figlio, giacchè, in caso contrario, oltre alla risoluzione del conflitto d'interessi a vantaggio della parte più forte, si assisterebbe ad un utilizzo distorto delle facoltà concesse al genitore in funzione, invece, dell'interesse della famiglia e di quelle, preminenti, del minore stesso.

Nella specie il minore ha subito, da parte della madre, una forte pressione, rivolta a costringerlo a rimettere la querela presentata, contro di lei, dal padre, prima di morire. Pressione esercitata con la minaccia di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo conviveva dalla morte del padre (2003) e con cui aveva stabilito un significativo rapporto affettivo; insieme alla quale aveva ritrovato uno spazio di vita funzionale alla sua serenità. E ciò è stato fatto dall'imputata non per migliorare la condizione del minore o per recuperare il rapporto con lui, ma per ottenere comportamenti che soddisfacevano il suo esclusivo interesse personale (contrastante con quello del figlio). Logica e coerente, oltre che giuridicamente corretta, è, pertanto, la conclusione cui è pervenuta la Corte d'appello, secondo cui la vicenda va ricondotta alla fattispecie di cui agli artt. 56 - 610 c.p., sotto forma di tentativo non andato in porto.

Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. Correttamente la Corte d'appello ha rilevato che il minore ultra quattordicenne può rimettere la querela, per cui la minaccia esercitata dalla madre era idonea a produrre l'effetto avuto di mira. Il fatto che la rimessione della querela, operata dal minore, fosse soggetta ad "approvazione" del rappresentante (art. 153 c.p.) non elide la capacità offensiva della condotta, giacchè nessun "rappresentante" avrebbe potuto fare a meno di tener conto dei desiderata del minore (anche solo per contrastarli), con la conseguenza che, seppur la volontà di quest'ultimo non è, da sola, sufficiente a produrre l'effetto remissorio, è tuttavia sufficiente ad innescare il meccanismo funzionale alle remissione. E' di tutta evidenza, quindi, che "l'evento dannoso o pericoloso", di cui all'art. 49 c.p., non era affatto "impossibile" in conseguenza dell'azione della B., ma era nel novero delle alte probabilità, sol che alla remissione del minore si fosse accompagnata l'acquiescenza del rappresentante.aterna

Corte di cassazione – Sezione III penale – Sentenza 11 settembre 2001 n. 37324



Diritto alla casa familiare (e sui mobili che la corredano) del coniuge legittimo superstite.

Dica, pertanto, conclude la ricorrente, l'Ecc.ma Corte di Cassazione se, in forza del combinato disposto dell'art. 540 c.c., comma 2, e art. 581 c.c., al coniuge superstite chiamato alla successione legittima, spetti il diritto di abitazione nella casa coniugale ed il diritto di uso degli arredi in essa contenuti e se tali diritti siano da ricomprendersi nella quota di legittima.

Il motivo è fondalo per le ragioni di cui si dirà.

La prima questione da prendere in esame è quella prospettata con il quarto motivo del ricorso principale, vale a dire il significato ed il valore del precetto di cui all'art. 540 c.c., comma 2, dettato in tema di successione necessaria, secondo cui al coniuge, anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni. Tali diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota riservata ai figli. Ora, la dottrina più attenta, che in questa sede si intende condividere, ha avuto modo di chiarire che la norma si applica anche alla successione legittima.

L'art. 584 c.c., comma 1, dettato in tema di successioni legittime, con riferimento al coniuge putativo contempla espressamente l'applicabilità della disposizione stabilita dall'art. 540, comma 2.

L'estensione dei diritti previsti da questa norma al coniuge legittimo non può essere revocata in dubbio, perchè sarebbe contrario al principio di eguaglianza che il coniuge putativo fosse trattato diversamente e in modo più favorevole rispetto al coniuge legittimo.

Lo stesso risultato per altro verrebbe assicurato interpretando correttamente, (cioè tenendo conto delle esigenze che sono poste al fondamento del) l'art. 540 c.c., comma 2, il quale prevede i diritti di abitazione e di uso in favore del coniuge superstite "anche quando concorra con altri chiamati". Ora poichè un concorso con altri chiamati può verificarsi solo con riferimento alla successione legittima o a quella testamentaria, sembra evidente che il legislatore abbia inteso stabilire che, a prescindere del tipo di successione, al coniuge superstite spettano, comunque, i predetti diritti, dettando, poi, delle regole per fare in modo che gli stessi incidono il meno possibile sulla quota di riserva degli altri legittimari. Insomma, come con l'art. 584 cc. collocato nelle norme relative alla successione legittima, il legislatore ha disciplinato la posizione del coniuge putativo anche quale legittimario, così nell'ari. 540 collocato nelle norme relative alla tutela dei legittimari, il legislatore ha dettato una disposizioni che vale anche per la successione legittima.

Pertanto, o un'interpretazione costituzionalmente orientata, dell'art. 584 cc. o un'interpretazione assiologica della normativa di cui agli artt. 581 e 540 cc, consente di affermare che anche al coniuge legittimo sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano (cfr. Cass. SSUU. N. 4847 del 27 febbraio 2013).

Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 10 settembre 2013 n. 20703


Compenso al professionista domiciliatario e sottoscrizione dell’atto.

Trattando unitariamente i due motivi, la ricorrente società lamenta che il Tribunale ha accolto le richieste dell'Avv. L., senza che questi adempisse all'onere della prova dei fatti costitutivi il suo diritto, negando, inoltre, l'ammissione delle prove richieste al riguardo dall'opponente, a fronte delle specifiche contestazioni sull'effettivo espletamento delle seguenti attività: "il pagamento del contributo unificato, esame e scritti documentazione di controparte, consultazioni con il cliente, esame precisazione delle conclusioni di ogni parte, atto di precetto, notifica atto, collazione etc" per ciò che riguarda i diritti, e "studio della controversia, consultazioni con il cliente e redazione atto introduttivo" per ciò che riguarda gli onorari. Si trattava di attività o non eseguite per nulla, o svolte dall'avv. M., che ne aveva studiato gli effetti e predisposti i relativi atti.

L'avv. L. si era limitato ad agire da domiciliatario, notificando atti predisposti da altri, iscrivendo al Ruolo il procedimento, partecipando all'udienza di assegnazione in cui aveva depositato l'atto di intervento, anch'esso predisposto da altri, e svolgendo le connesse attività di cancelleria, per le quali era stato regolarmente pagato dalla Chirbo srl. Inoltre, a fronte della contestazione, anche generica, dell'attività svolta dal professionista, il Giudice doveva procedere anche d'ufficio al relativo controllo ed in ogni caso liquidare il compenso soltanto in base all'opera effettivamente prestata.

[...]

Il ricorso è infondato e va rigettato.

Il primo e il secondo motivo, ai limiti dell'ammissibilità, riguardano la prova e il relativo onere sulle attività svolte, nonchè la commisurazione del compenso alla attività effettivamente svolta. La ricorrente lamenta la carenza di prova sullo svolgimento delle attività per le quali è stato richiesto e riconosciuto il compenso, ritenendo la prova a carico del professionista una volta contestate specifiche voci, e lamentando la mancata ammissione da parte del giudice delle prove richieste al riguardo e la mancata verifica, d'ufficio, dello svolgimento delle attività per le quali era stato riconosciuto il compenso.

Al riguardo, il provvedimento impugnato, reso all'esito dello speciale procedimento ex lege n. 794 del 1942, aveva per oggetto soltanto la liquidazione delle spettanze dell'avvocato, che presuppone non contestato il conferimento dell'incarico e la relativa debenza. Il giudice di merito si è limitato a verificare l'avvenuto conferimento del mandato, tanto da escludere le attività per le quali il professionista era solo domiciliatario. Per il resto è stato rilevato dal giudice di merito, e la stessa ricorrente non lo contesta, che vi era mandato congiunto. Nè la ricorrente, in violazione del principio della specificità del motivo, indica dove e come ha chiesto lo svolgimento d'istruttoria al riguardo, impendendo alla Corte di operare la necessaria valutazione di influenza e rilevanza delle prove in tesi dedotte. Sicchè, restava precluso al giudice di merito accertare se le singole attività fossero state o meno materialmente predisposte da uno solo dei professionisti incaricati, da entrambi o in varia misura dall'uno e dall'altro, almeno quanto agli onorari, posto che in mancanza di prova sul punto, la sottoscrizione dell'atto, secondo i principi generali, deve ritenersi, in via presuntiva, idonea a far ritenere che alla sua stesura abbiano contribuito coloro che lo hanno sottoscritto. Se mai, in tal caso, si pone il problema della determinazione concreta dell'entità del compenso. Ma sul punto i motivi risultano generici.

Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 4 settembre 2013 n. 20344


10 novembre 2013

La soluzione giuridica è dubbia e opinabile ? Si impone al professionista una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza.

Il terzo motivo è fondato.

Il giudice del merito ha escluso che potesse costituire elemento su cui fondare la responsabilità professionale del legale - investito di apposito mandato - il contrasto di giurisprudenza sulla consistenza del termine di prescrizione (biennale ai sensi dell'art. 2947 c.c., comma 2, ovvero più lungo ai sensi dello stesso art. 2947, comma 3) dell'azione di risarcimento del danno subito a seguito di sinistro stradale da cui siano derivate lesioni personali perseguibili a querela, "nel senso che all'epoca dei fatti la questione era ancora aperta e vi erano opzioni interpretative diversificate".

Tale statuizione confligge con il principio - enunciato da Cass., 18 luglio 2002, n. 10454, in un caso che presenta stretta analogia con quello attualmente all'esame - al quale il Collegio intende dare continuità e secondo cui "le obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176 c.c., comma 2, che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra nella ordinaria diligenza dell'avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine. Non ricorre tale ipotesi, con la conseguenza che il professionista può essere chiamato a rispondere anche per semplice negligenza, ex art. 1176 c.c., comma 2, e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell'art. 2236 c.c., allorchè l'incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell'incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto. Parimenti, l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all'applicabilità del termine di prescrizione in caso di mancata proposizione della querela non esime il professionista dall'obbligo di diligenza richiesto dall'art. 1176 c.c.".

In definitiva, l'opinabilità stessa della soluzione giuridica impone al professionista una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente e non già danneggiarlo e, dunque, nella specie, egli è tenuto ad un comportamento (introduzione del giudizio o compimento di atti interruttivi idonei) che sia riferito alla decorrenza del termine più breve.”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 5 agosto 2013 n. 18612

Il primo medico che sbaglia diagnosi è responsabile penalmente.

La Corte territoriale, dopo aver affermato che il ritorno a casa della vittima, su decisione dei suoi familiari, aveva costituito esercizio di pietas nei confronti di paziente che oramai non rispondeva a qualsiasi trattamento sanitario, al fine di non negargli "exitus più dignitoso in ambiente domestico", puntualmente chiarisce che il D., al momento della dimissione, versava in condizioni talmente gravi da doversi ritenere che il decesso sarebbe stato inevitabile di lì a qualche ora, anche ove trasportato in un centro dotato di servizio di rianimazione. Di poi, correttamente riprendendo il consolidato orientamento maturato in sede di legittimità, e del tutto condiviso da questo Collegio, sull'equivalenza delle cause, spiega che, se al primo tragico errore medico, causa dell'evento, sia seguito errore di altro sanitario, successivamente intervenuto, la condotta sopraggiunta, salvo i casi dell'eccezionalità e dell'imprevedibilità, giammai può costituire causa sopravvenuta escludente il rapporto di causalità.

Il ricorrente, invece che misurarsi con la precipua ed approfondita motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale ha, inammissibilmente, riproposto la questione in termini piuttosto generici e anodini.

Dall'incontestate risultanze istruttorie emerge nitidamente che il povero D. al momento della sua ultima dimissione trovavasi in condizioni irreversibilmente indirizzate verso l'assai prossimo decesso: già il primo intervento chirurgico d'emergenza (diretto a bonificare il cavo peritoneale, invaso da gas purulento, liquido gastrico e ingesti e a suturare la perforazione gastrica) consegnò il paziente, affetto da shock settico, in stato di coma ipossico; il secondo intervento laparatomico (diretto a ripulire il peritoneo), non solo non raggiunse il difficile obiettivo di favorire la guarigione, ma ulteriormente aggravò le condizioni della vittima, già stremata e totalmente defedata, tanto da non lasciare presagire spazi vitali.

In una tale situazione la decisione di sospendere il trattamento ospedaliero non assume affatto i connotati di un evento imprevedibile ed eccezionale, estraneo alla tipicità della sequela eziologica.

Nè, in questa sede è rilevante affrontare la tematica evocata dal ricorrente concernente la perimetrazione dell'area del c.d. inutile accanimento terapeutico.

Il principio sopra enunciato trova consolidato retaggio nella ferma giurisprudenza di questa Corte. Così, per restare solo a taluni precedenti, scelti fra i tanti, come sopra si è ricordato, la successiva condotta, costituente colpa medica, pur se grave (se del caso, quindi, la decisione di dimettere il paziente), ove non abbia le caratteristiche dell'imprevedibilità ed inopinabilità (nel senso di estemporaneità, integrante fatto atipico), non interrompe il nesso di causalità (Cass., Sez. 4, n. 6215 del 10/12/2009; Cass., Sez. 4, n. 10815 del 9/10/1995); nè la mera accelerazione della produzione dell'evento, destinato comunque a compiersi, sulla base di una valutazione dotata di un alto grado di credibilità razionale, tenuto conto dell'evidenza disponibile, è capace d'ingenerare l'effetto sperato dal ricorrente (Cass., Sez. 4, n. 10430 del 6/11/2003).”.

Corte di cassazione – Sezione IV penale – Sentenza 30 agosto 2013 n. 35828

Centro residenziale privo di fognature ? Il Comune deve risarcire eventuali danni.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile per la incongruità del quesito proposto rispetto alla fattispecie in concreto accertata dai giudici del merito. Ed in vero come evidenziato, in sede di accertamento tecnico, i danni subiti dalla parte attrice derivano dalla edificazione del quartiere residenziale sovrastante la balza, senza realizzare una idonea rete di opere fognarie, sicchè le acque si sono infiltrate nella roccia, sgretolandola. La domanda di risarcimento anche in forma specifica avanzata nei confronti del Comune non investe atti e scelte autoritative del comune, ma una attività materiale soggetta allo ius privatorum e con essa al precetto civile del neminem laedere. Corretta appare la statuizione della Corte di appello anche in relazione agli arresti di questa Corte n. 39 del 2001 e SU 14 gennaio 2005 n. 599, cui si aggiunge Cass. SU 16 dicembre 2010 n. 26395 tra le significative.”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 30 agosto 2013 n. 19962


Ufficiale anagrafe comunale non è qualificato per autenticare la firma degli atti negoziali.

Le conclusioni non sono diverse prendendo in esame la normativa sopravvenuta in materia di documentazione amministrativa, con specifico riferimento all'incaricato comunale.

Il T.U. della documentazione amministrativa del 2000, finalizzato alla semplificazione delle procedure: da un lato, non ha previsto l'autentica di firma per le istanze presentate alla pubblica amministrazione o ai gestori di pubblici servizi (D.P.R. n. 445 del 2000, art. 21, comma 1 e art. 38, comma 3); dall'altro, ha previsto l'autenticazione, anche da parte del "dipendente addetto a ricevere la documentazione o altro dipendente incaricato dal Sindaco", per le istanze presentate agli organi della pubblica amministrazione o ai gestori di pubblici servizi al fine della riscossione da parte di terzi di benefici economici, nonchè per le istanze presentate a soggetti diversi (art. art. 21, comma 2).

Inoltre, non mancano nella legislazione statale casi in cui è specificamente conferita, al dipendente addetto dell'ufficio comunale, il potere di autenticazione di determinati atti (a titolo esemplificativo, L. n. 53 del 1990, art. 14, in materia elettorale; L. n. 184 del 1983, art. 31, in materia di adozione).

In definitiva, emerge un sistema normativo nel quale il potere di autenticazione del dipendente addetto dell'ufficio comunale non è generalizzato, ma è di volta in volta individuato dal legislatore.

Ne consegue che, non potendosi ricavare dal sistema normativo un potere dell'incaricato comunale di autenticare la firma di atti negoziali, è nulla la procura speciale alle liti conferita mediante scrittura privata con firma autenticata dall'ufficiale dell'anagrafe del Comune.”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 30 agosto 2013 n. 19966


Il paziente ha l’onere di dimostrare il nesso causale, non la colpa del medico.

“... i primi due motivi possono essere trattati congiuntamente, poichè entrambi incentrati sulla medesima questione del mancato riconoscimento del nesso di causalità tra l'intervento di appendicectomia e lo stato di sterilità della ricorrente principale.

La soluzione operata dai Giudici d'appello merita condivisione, essendo riconosciuto, dalla giurisprudenza di questa Corte, che nei giudizi di risarcimento del danno causato da attività medica, l'attore ha l'onere di allegare e di provare l'esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale, mentre ha l'onere di allegare (ma non di provare) la colpa del medico; quest'ultimo, invece, ha l'onere di provare che l'eventuale insuccesso dell'intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, sia dipeso da causa a sè non imputabile (Cass. n. 17143/2012). Come correttamente riconosciuto dai Giudici territoriali, con motivazione congrua e immune dai lamentati vizi, sarebbe stato onere dell'odierna ricorrente provare la mancata riferibilità della condizione di sterilità ad altre cause, pregresse o esterne, idonee a far ritenere la riconducibilità della condizione stessa al fatto dei sanitari;”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 29 agosto 2013 n. 19873


Precetti a volontà del creditore, purché non si richiedano ulteriori spese al debitore.

Deve infatti ribadirsi che la rinnovazione del precetto configura senza dubbio un'attività legittima (quand'anche possa effettivamente comportare la revoca del precedente: Cass. 5 gennaio 1966, n. 114; Cass. 9 giugno 1981, n. 3736; Cass. 10 marzo 1990, n. 1985; Cass. 9 maggio 2006, n. 10613; Cass. 7 agosto 2012, n. 14189), purchè non comporti un ingiustificato incremento delle spese precettate, con la richiesta di quelle dei precedenti, se non altro quando non altrimenti giustificabili. E tanto non costituisce affatto, a differenza del frazionato azionamento di un credito unitario (Cass. 9 aprile 2013, n. 8576), abuso del diritto di agire esecutivamente, proprio perchè al creditore spetta il diritto di proseguire il processo esecutivo fintantochè il debitore esecutato non abbia pagato per intero l'importo dovuto, in forza del titolo esecutivo posto a base dell'esecuzione (per limitarsi alle più recenti: Cass. 14 novembre 2011, n. 23745; Cass. 27 novembre 2012, n. 21008).

Invero (come testualmente si esprime, da ultimo, Cass. 23 ottobre 2012, n. 18161):

è giurisprudenza costante di questo giudice di legittimità, cui va assicurata continuità, che la pendenza del procedimento esecutivo non preclude nè rende inutile la reiterazione dell'atto processuale che vi da inizio, al fine di porre al riparo la concreta attuazione della pretesa esecutiva dai possibili insuccessi conseguenti ad eventuali vizi di precedenti atti: pertanto, il creditore può validamente notificare al debitore il precetto per l'esecuzione di un titolo esecutivo sulla base del quale egli abbia già promosso azione esecutiva ancora pendente nel momento della notifica del successivo precetto (Cass. 2 marzo 2007, n. 4963; Cass. 22 luglio 1991, n. 8164);

nella medesima prospettiva è stato del resto reiteratamente affermato: a) che il creditore, in forza di uno stesso titolo esecutivo, può procedere a più pignoramenti del medesimo bene in tempi successivi, senza dover attendere che il processo di espropriazione aperto dal primo pignoramento si concluda, atteso che il diritto di agire in esecuzione forzata non si esaurisce che con la piena soddisfazione del credito portato dal titolo esecutivo: b) che in tal caso non si ha una situazione di litispendenza nel senso previsto dall'art. 39 cod. proc. civ., la cui applicazione postula la pendenza di più cause, aventi in comune le parti, la causa petendi e il petitum, incardinate dinanzi a distinte autorità giudiziarie e non davanti allo stesso giudice; c) che alla pluralità di procedure così instaurate può ovviarsi con la loro riunione ex art. 493 cod. proc. civ., senza che ciò comporti un pregiudizio per il debitore, poichè, in presenza di un pignoramento reiterato senza necessità, il giudice dell'esecuzione, applicando l'art. 92 cod. proc. civ., può escludere come superflue le spese a tal fine sostenute dal creditore procedente e il debitore può proporre opposizione contro una liquidazione delle spese che si estenda al secondo pignoramento (Cass. 18 settembre 2008, n. 23847; Cass. 16 maggio 2006, n. 11360).

Ed a tanto si aggiunga l'ulteriore circostanza che la non spettanza dell'intero credito azionato con il precetto non comporta mai un vizio di quest'ultimo e tanto meno nella sua interezza, ma soltanto la rideterminazione del quantum per il quale sono stati legittimi l'avvio e la prosecuzione del processo esecutivo (per tutte e tra le più recenti: Cass. 26 luglio 2012, n. 13205; Cass. 3 maggio 2011, n. 9698; Cass. 17 novembre 2009, n. 24215; Cass. 13 novembre 2009, n. 24047; Cass. 18 febbraio 2008, n. 4022; Cass. 20 maggio 2003, n. 7886).

In sostanza, libero è il creditore, fino al pagamento integrale del credito, di intimare tanti precetti quanti reputi necessari (e solo, per quanto visto, per l'importo complessivo del credito, non potendo egli frazionarne l'esecuzione), purchè non chieda, in quelli successivi, le spese (ed i compensi e gli accessori) per i precetti precedenti; ove invece, col precetto successivo o reiterato, intimasse anche il pagamento delle spese dei precetti precedenti, l'ultimo sarebbe si illegittimo, ma solo ed esclusivamente quanto a queste ultime, sicchè non potrebbe essere dichiarato invalido nella sua interezza.

Erra, pertanto, la gravata sentenza nell'escludere la legittimità - e per di più sotto il (del tutto incongruo) profilo dell'ammissibilità - del precetto intimato successivamente, per il solo fatto dell'avvenuta intimazione di precetti in tempo anteriore, o finanche dell'avvio di procedure esecutive, ma senza verificare se il credito, recato dal titolo esecutivo, sia stato completamente estinto e, comunque, dichiarando l'illegittimità del precetto successivo per l'intero, ove fosse risultata non dovuta una sola parte della somma che ne era oggetto, corrispondente alle spese dei precetti precedenti.”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 29 agosto 2013 n. 19876


Clausola risolutiva espressa e scioglimento del contratto a seguito del previsto inadempimento. Non c'è automatismo.

Non è senza rilievo, comunque, la circostanza che, se è vero che "La clausola risolutiva espressa non comporta automaticamente lo scioglimento del contratto a seguito del previsto inadempimento, essendo sempre necessario, per l'art. 1218 cod. civ., l'accertamento dell'imputabilità dell'inadempimento al debitore almeno a titolo di colpa." (Cass. n. 2553 del 2007; in precedenza Cass. n. 9356 del 2000, evocata dalla ricorrente) e che "Ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento, in presenza di clausola risolutiva espressa, pur se la colpa del contraente inadempiente si presume, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., il giudice non è tenuto solo a constatare che l'evento previsto dalla detta clausola si sia verificato, ma deve esaminare, con riferimento al principio della buona fede, il comportamento dell'obbligato, potendo la risoluzione essere dichiarata solo ove sussista (almeno) la colpa di quest'ultimo" (Cass. n. 11717 del 2002, evocata anche dalla ricorrente; successivamente, si veda, nello stesso senso Cass. n. 15026 del 2005), pur tuttavia, dovendo l'accertamento della colpa riguardare l'inadempimento, non è dato comprendere come, essendosi verificato l'inadempimento con riferimento alla scadenza di pagamento del canone del trimestre da pagarsi il 1 luglio 2006, le circostanze dei due capitoli avrebbero potuto assumere rilievo, trattandosi di circostanze successive all'inadempimento.

[...]

Nè in contrario può assumere rilievo che siano stati tenuti prima della dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, effettuata dai locatori con l'intimazione di sfratto, come s'è veduto, poichè comportamenti successivi all'inadempimento tutelato da clausola risolutiva espressa e prima della dichiarazione di volersene avvalere possono assumere semmai solo l'eventuale significato di evidenziare per facta concludenza, ex latere della parte che può dichiarare di volersi avvalere della clausola ed ancora non l'abbia fatto, il valore di rinuncia ad esercitare il diritto di avvalersene.

Il principio di diritto che giustificherebbe la detta irrilevanza dei capitoli di prova è il seguente: "La clausola risolutiva espressa non comporta automaticamente lo scioglimento del contratto a seguito del previsto inadempimento, essendo sempre necessario, per l'art. 1218 cod. civ., l'accertamento dell'imputabilità dell'inadempimento al debitore almeno a titolo di colpa. Peraltro, tale accertamento dev'essere condotto con riferimento al momento dell'inadempimento e non con riferimento a comportamenti delle parti successivi al suo verificarsi, potendo tali comportamenti successivi all'inadempimento tutelato da clausola risolutiva espressa, ove si verifichino prima della dichiarazione di volersene avvalere assumere semmai solo l'eventuale significato di evidenziare perfacta concludentia, ex latere della parte che può dichiarare di volersi avvalere della clausola ed ancora non l'abbia fatto, il valore di rinuncia ad esercitare il diritto di avvalersene".”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 27 agosto 2013 n. 19602


Supercondominio: gli amministratori possono chiedere il ripristino delle parti comuni solo con mandato di tutti i condomini.

Con tale doglianza la ricorrente ha inteso sostenere che gli amministratori di ciascun Condominio non abbiano legittimazione in ordine ai beni comuni ovvero a servizio di più edifici condominiali.

Occorre, innanzitutto, evidenziare (cfr., ad es., Cass. n. 7286 del 1996 e Cass. n. 2305 del 2008) che i singoli edifici costituiti in altrettanti condomini vengono a formare un "supercondominio" quando talune cose, impianti e servizi comuni (viale d'ingresso, impianto centrale per il riscaldamento, parcheggio, locali per la portineria o per l'alloggio del portiere, ecc.) sono contestualmente legati, attraverso la relazione di accessorio a principale, con più edifici, appartengono ai proprietari delle unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati e sono regolati, se il titolo non dispone altrimenti, in virtù di interpretazione estensiva o analogica, dalle norme dettate per il condominio negli edifici. Ne consegue che le disposizioni previste dall'art. 1136 c.c., in tema di convocazione, costituzione, formazione e calcolo delle maggioranze si applicano con riguardo agli elementi reale e personale del supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le unità abitative comprese nel complesso e da tutti i proprietari.

Questa Corte ha avuto già occasione di affermare nella ipotesi di un bene comune che sia a servizio di più edifici condominiali (c.d. supercondominio), che vanno tenuti distinti i rapporti di proprietà comune ed indivisa tra i partecipanti ai singoli edifici, dal rapporto di comunione sul bene in comproprietà a tutti i partecipanti ai singoli condomini, mancando questi ultimi di personalità giuridica (v. Cass. 4 maggio 1993 n. 5160) ed ha concluso nel senso che la gestione di tale bene comune spetta, pertanto, a tutti i comunisti, i quali debbono nominare un amministratore, e non (come spesso avviene nella pratica) al collegio costituito dagli amministratori dei singoli condomini, i quali possono esercitare i poteri previsti degli artt. 1130 e 1131 c.c. solo con riferimento all'edificio condominiale cui sono preposti.

[...]

Pertanto, è contrario a norme imperative il regolamento contrattuale di condominio, che preveda essere l'assemblea del supercondominio composta dagli amministratori dei singoli condomini. Essendo all'assemblea demandata la formazione della volontà dei condomini in ordine alla gestione delle cose comuni, e l'amministratore affidata l'esecuzione delle disposizioni di legge, del regolamento e della stessa volontà dell'assemblea, la confusione dei ruoli non può ammettersi. Il regolamento contrattuale, quindi, non può affidare al collegio degli amministratori il compito di sostituire istituzionalmente l'assemblea dei condomini.". Applicando tali principi generali in materia condominiale (cfr., ad es., Cass. n. 8842 del 2001; Cass. n. 12588 del 2002; Cass. n. 9206 del 2005 e Cass. n. 14765 del 2012) al caso in esame consegue che i giudici di merito avrebbero potuto affermare la legittimazione degli amministratori degli edifici componenti il supercondominio - a pretendere dall'attuale ricorrente il ripristino stato dei luoghi quanto al cortile antistante e comune gli edifici del complesso condominiale costituente il supercondominio - solo ove avessero ricevuto mandato dai singoli condomini. In proposito, infatti, va riconosciuto che anche nell'ipotesi di "supercondominio", la legittimazione ad agire per la tutela di diritti comuni spetta a ciascun singolo condomino (facente parte dei distinti condomini che compongono complessivamente il supercondominio), come precisato dalla Suprema Corte (ex multis Cass. n. 8570 del 26 aprile 2005), che per quanto concerne i diritti che i condomini vantano unicamente uti singuli, ha ritenuto necessario lo specifico mandato da parte di tutti. In altri termini, la legittimazione degli amministratori di ciascun condominio a compiere atti conservati, riconosciuta ex artt. 1130 e 1131 c.c., si riflette, sul piano processuale, nella facoltà di richiedere le necessarie misure cautelari soltanto per i beni comuni all'edificio amministrato, non anche per quelli facenti parte del complesso immobiliare composto di più condomini, quale accorpamento di due o più singoli condomini per la gestione di beni comuni (ferma l'autonomia amministrativa per i beni propri di ciascun distinto organismo), che deve essere costituito ed amministrato attraverso le deliberazioni dei propri organi (assemblea, composta dai proprietari degli appartamenti che concorrono a formarlo, ed amministratore del supercondominio) e, naturalmente, deve essere anche dotato di un proprio regolamento, che determini la misura in cui ciascun ente fondante partecipa alla gestione dei beni comuni, assumendo i relativi oneri e ripartendoli al suo interno. Al più - infatti - poteva risultare il conferimento del relativo potere da una deliberazione unanime delle assemblee assunte dai comproprietari dell'area. La esistenza di una simile delibera, però, non risulta dalla sentenza impugnata, la quale va, pertanto, cassata.”.

Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 26 agosto 2013 n. 19558


Danno parentale: il principio di risarcibilità appartiene all’ordine pubblico internazionale.

Questa Corte - già con le sentenze "gemelle" del 2003 (n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003) e, poi, segnatamente, con la conferma proveniente dalle Sezioni Unite del 2008 (n. 26972 dell'11 novembre 2008), in forza di un orientamento ormai stabilizzatosi (tra le tante, si veda Cass., 3 febbraio 2011, n. 2557) - ha affermato che il soggetto che chiede aure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l'incisione dell'interesse alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione apre la via ad una riparazione ai sensi dell'art. 2059 cod. civ., senza il limite ivi previsto in correlazione all'art. 185 cod. pen., e ciò proprio in ragione della natura del valore inciso, di rango fondamentale, per il quale il risarcimento rappresenta la forma minima ed imprescindibile di tutela.

Del resto, un tale approdo esegetico si colloca nell'alveo già segnato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (ancor prima della sentenza n. 233 del 2003, che ha mutuato la posizione assunta dalle richiamate sentenze "gemelle", che l'hanno di poco preceduta) e - circostanza ancor più significativa - in un caso in cui venne dichiarata l'illegittimità costituzionale delle leggi di ratifica di una Convenzione internazionale (quella di Varsavia del 1929 sul trasporto aereo internazionale) nella parte in cui consentivano l'ingresso nel nostro ordinamento ad una norma che impediva il risarcimento integrale del danno in favore dei congiunti delle vittime decedute in un sinistro aereo; norma convenzionale che, nella sua originaria portata, era da ritenersi superata dal successivo assetto della stessa Convenzione implicata e dall'assetto risultante dalla sopravvenuta disciplina pattizia internazionale sulla medesima materia. Con la sentenza n. 132 del 1985, il Giudice delle leggi ebbe, infatti, ad affermare che, nell'ipotesi anzidetta, il diritto al risarcimento viene in rilievo "in quanto il danno incide sulla salvezza del bene supremo della vita e si riflette sul rapporto che correva fra la vittima del sinistro ed i prossimi congiunti...; il rapporto fra i componenti del nucleo familiare, con la serie dei diritti e doveri reciproci da esso scaturenti, tocca poi per più versi, nel disegno della Costituzione, la tutela di cui gode la persona (artt. 29, 30, 31 e 36 Cost.): ed è sempre la persona, che troviamo circondata dalle garanzie configurate dall'art. 2 Cost.", riconosciute "non solo al singolo, ma all'uomo nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, ivi inclusa quella naturale società, fondata sul matrimonio, che, secondo la definizione dello stesso costituente, è la famiglia".

La protezione costituzionale degli affetti familiari, in quanto pertinente al catalogo dei diritti inviolabili della persona umana, nella sua dimensione sociale (a partire proprio dall'aggregazione di base costituita dal nucleo familiare), non si arresta, però, al solo ambito interno, segnato dalla Costituzione, ma trova rispondenza ed implementazione anche nella dimensione Europea della tutela della vita familiare, garantita dall'art. 8 CEDU e dall'art. 7 della Carta di Nizza (che si rifà alla disposizione convenzionale e ad essa viene a sovrapporre la propria portata, in base a quanto disposto dall'art. 52 della stessa Carta: cfr. Corte di giustizia 5 ottobre 2010, in C-400/10). Norme, quest'ultime, che presidiano gli stessi valori fondamentali della persona umana - quale il diritto all'intangibilità delle relazioni familiari all'interno di una comunità (tra le tante: Corte EDU, 24 aprile 1996, Boughaneml c. Francia; Corte EDU, 13 giugno 2000, Scozzar e Giunta c. Italia), non disgiunto dalla combinata considerazione del diritto alla vita, di cui all'art. 2 CEDU (cfr. Corte EDU, 30 novembre 2004, Oneryildiz c. Turchia; Corte EDU, 20 marzo 2008, Budayeva e Altri c. Russia) condivisi da Italia ed Austria, entrambi membri della Convenzione e dell'Unione Europea.

Quanto innanzi argomentato a conferma della correttezza della soluzione giuridica adottata dalla Corte territoriale rende, altresì, evidenti le ragioni che giustificano il superamento del contrario - e, come detto, risalente precedente di questa Corte sopra richiamato (Cass. n. 3445 del 1980), in forza del quale si ebbe a ritenere che il p. 1327 ABGB poteva essere applicato nel nostro ordinamento, giacchè, allora, non era ravvisabile "alcuna ragione per ritenere di ordine pubblico... il principio, accolto nel nostro diritto, della risarcibilità dei danni non patrimoniali patiti dai superstiti della vittima di un fatto costituente reato".”.

Cass. Civ. Sentenza 22 agosto 2013, n. 19405


L’inosservanza del termine dilatorio di 60 gg dell'avviso di accertamento comporta l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus

In conclusione, deve essere enunciato il seguente principio di diritto: "In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, deve essere interpretato nel senso che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento - termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni - determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus, poichè detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall'osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all'epoca di tale emissione, deve essere provata dall'Ufficio".”.

Sentenza Cass. Civ. SS.UU. del 29 luglio 2013, n.18184


Locazione: nessun indennizzo per le migliorie se escluso

Il motivo è, però, inammissibile anche sotto il profilo della denuncia di violazione e falsa applicazione dell'art. 1592 c.c., posto che esso - anche in disparte l'inidonea formulazione del quesito che lo assiste - muove dall'erroneo presupposto che in base alla sentenza parziale del 2002 del Tribunale di Messina, passata in giudicato, la distinzione tra opere eseguite in forza del contratto di locazione ed opere eseguite successivamente alla conclusione del contratto e nel corso del relativo rapporto dovesse inevitabilmente condurre ad escludere che per quest'ultime potesse valere la disciplina del programma negoziale.

Tale assunto - che, peraltro, prescinde del tutto dalla successiva sentenza definitiva dello stesso Tribunale di Messina e, dunque, dall'effettiva portata del giudicato - è, in ogni caso, smentito dalla stessa decisione parziale evocata, nella quale (come si legge nel medesimo ricorso) è affermato: "Appare controverso se la rinuncia all'indennità per migliorie stabilita nel contratto possa riguardare anche le future opere ed innovazioni non descritte nel contratto medesimo ma che potranno risultare eseguite nel 1999, e cioè a distanza di 8 anni dalla stipula del contratto di locazione, cosi come è controverso se i locatori, a fronte di tali migliorie, abbiano espresso il loro consenso, sia pure tacito, non risultando in atti alcuna manifestazione di protesta e di contestazione".

Sicchè, ciò che la Corte di appello ha ritenuto è proprio la sussistenza di una rinuncia all'indennità per migliorie per le opere eseguite nel 1999 siccome regolata dalle stesse parti del contratto di locazione, in forza delle rispettive clausole recate dagli artt. 4 e 7. Si tratta, dunque, di statuizione che, nella sua portata, non è stata aggredita dal motivo di impugnazione, il quale ha invece indugiato su una diversa e non pertinente ricostruzione della ratio decidendi, adducendo poi la rilevanza della disciplina di cui all'art. 1592 cod. civ. e di un asserito consenso, per fatti concludenti, prestato dai locatori all'esecuzione delle predette opere.”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 6 agosto 2013 n. 18665


Spetta al consumatore provare i vizi, il nesso causale ed il danno da lesioni derivanti da elettrodomestico.

I quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente, giacchè esprimono, nella sostanza, un'unica censura: e cioè che i giudici di appello abbiano considerato domanda "nuova" - ritenendola come tale inammissibile, avuto riguardo all'originaria domanda riconducibile all'art. 2043 c.c. - la richiesta di applicazione della normativa di cui al d.P.R. 224 del 1988, ora recepita nel D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. da 114 a 127, (c.d. Codice del Consumo): richiesta, pacificamente formulata dall'odierna ricorrente, per la prima volta, nella comparsa conclusionale in appello, sul presupposto che, in esito alla seconda c.t.u. svolta in quel grado del giudizio, fossero emersi tutti gli elementi integrativi della responsabilità del produttore.

Al riguardo è assorbente, rispetto a ogni altra considerazione, il rilievo della carenza di interesse all'accoglimento dei motivi all'esame, atteso che la Corte di appello - pur muovendosi nella logica dell'inammissibilità della mutatio libelli - ha evidenziato che la mancata dimostrazione del difetto dell'utensile consentiva di escludere la configurabilità anche della non vagliata ipotesi di responsabilità ai sensi del D.P.R. n. 224 del 1988 (cfr. pag. 20 della sentenza). Tale argomentazione - lungi dal porsi in contraddizione con il principale rilievo di inammissibilità, come pretenderebbe parte ricorrente rappresenta la logica conseguenza delle argomentate conclusioni cui la Corte di appello è pervenuta in punto di assenza di prova della riferibilità causale dei danni subiti dall'attrice ad un difetto del prodotto.

Valga considerare che la speciale azione di cui al D.P.R. n. 224 cit., configura una forma di tutela residuale e speciale rispetto a quella accordata dall'art. 2043 c.c., la quale prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza della "difettosità" del prodotto, segnatamente richiedendo l'art. 8 del cit. D.P.R. che "il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno".

E' ben vero che il concetto di difetto assunto dal D.P.R. n. 224 del 1988, è riconducibile non solo al difetto di fabbricazione, ma anche alle ipotesi dell'assenza o carenza di istruzioni, risultando strettamente connesso al concetto di sicurezza, piuttosto che a quella di "vizio" del prodotto; senonchè, nel caso all'esame - esclusa la carenza informativa, in quanto neppure allegata dall'odierna ricorrente nel giudizio di merito - la diversa qualificazione della domanda non gioverebbe, comunque, a parte ricorrente, una volta che risulta esclusa (per quanto si andrà a dire di seguito) anche l'esistenza di un difetto di fabbricazione eziologicamente riconducibile all'evento dedotto in giudizio.

I suddetti motivi vanno, quindi, rigettati.”.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 6 agosto 2013 n 18654


Notifica legittima se effettuata a persona qualificatasi falsamente come moglie.

La CTR di Napoli, accogliendo parzialmente l'appello di S. E. - appello proposto contro la sentenza n.437/01/2007 della CTP di Avellino che aveva respinto il ricorso della parte contribuente relativo a cartelle di pagamento per IVA-IRPEF-IRAP ed addizionali comunali per gli anni 2002-2003 - ha dichiarato nullo il ruolo n. 2006/379 confermando invece gli altri oggetto del giudizio.

La CTR ha motivato la propria decisione nel senso che era risultato dalla documentazione depositata agli atti che gli avvisi di accertamento presupposti rispetto al ruolo risultavano notificati a tale F.A. (che si era dichiarata moglie capace e convivente e che aveva sottoscritto la notifica), soggetto del tutto estraneo al rapporto tributario, residente in altro comune rispetto a quello del destinatario della notifica e rispetto al quale la F. non risultava essere in rapporto nè familiare, nè di vicinanza nè di coniugio. Essendo risultata inesistente la notifica dell'atto presupposto, anche il ruolo e la cartella di pagamento risultavano viziati. L'Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La parte contribuente non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso - ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore - può essere definito ai sensi dell'art. 375 c.p.c..

Ed invero, con il primo motivo di impugnazione (improntato alla violazione dell'art. 2700 c.c.) la parte ricorrente si duole del fatto che il giudicante del merito abbia inficiato - sulla base della documentazione risultante in atti- la fede privilegiata della relata di notifica, dalla quale risulta che il soggetto consegnatario si era qualificato moglie convivente all'atto di ricevere la notifica e di sottoscriverla. La censura appare fondata e da accogliersi in ragione del solo primo motivo, con assorbimento del secondo.

Il giudice del merito ha dato prevalenza alla documentazione depositata in giudizio e dalla quale risultava che la F. non fosse in rapporto di coniugio nè convivente con lo S., senza curarsi del fatto che la F. medesima (con dichiarazione resa all'ufficiale che aveva curato la notifica, e perciò dotata di fede privilegiata ai sensi dell'art. 2700 c.c.) si era qualificata moglie convivente ed aveva accettato di ricevere la notifica. Di tanto il giudice del merito avrebbe dovuto contentarsi per ritenere efficace e valida la notifica, alla luce della confermata giurisprudenza di questa Corte. Si veda, per tutte (senza che il riferimento a diversa figura soggettiva alteri la correttezza del principio e la sua applicabilità al caso qui in esame) Cass. Sez. L, Sentenza n. 239 del 10/01/2007: "In caso di notificazione effettuata a norma dell'art. 139 c.p.c., comma 2, con consegna dell'atto a persona qualificatasi (secondo le dichiarazioni rese all'ufficiale giudiziario e dal medesimo riportate nella relata di notificazione) quale dipendente del destinatario o addetta all'azienda, all'ufficio o allo studio del medesimo, l'intrinseca veridicità di tali dichiarazioni e la validità della notificazione non possono essere contestate sulla base del solo difetto di un rapporto di lavoro subordinato tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l'atto ricevuto.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l'avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle dipendenze esclusive di altro soggetto, se non accompagnata dalla prova che il medesimo consegnatario non era addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell'interesse del destinatario".

Pertanto, si ritiene che il ricorso può essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza e che la Corte possa decidere la controversia anche nel merito (non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto) respingendo integralmente il ricorso della parte contribuente avverso le impugnate cartelle di pagamento.”.

Corte di cassazione – Sezione VI civile – Ordinanza 1° agosto 2013 n. 18492


La casa coniugale non è una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole!

Secondo giurisprudenza ampiamente consolidata (per tutte, Cass. n. 23591 del 2010), l'assegnazione della casa coniugale non può costituire una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole, ma può disporsi, a favore del genitore affidatario esclusivo ovvero collocatario dei figli minori, oppure convivente con figli maggiorenni ma non autosufficienti economicamente (e ciò pur se la casa stessa sia di proprietà dell'altro genitore o di proprietà comune).

Nella specie, non vi sono figli minori o maggiorenni autosufficienti economicamente, e dunque, del tutto correttamente, il giudice a quo ha revocato l'assegnazione della casa coniugale alla moglie.”.

Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 1° agosto 2013 n. 18440