12 ottobre 2013

Riconosciuto il diritto al rimborso del danno biologico per svilimento della dignità del lavoratore

Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia: "Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 2049, 1123 e 1225 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3)" Si duole del fatto che la Corte territoriale, confermando la sentenza di primo grado anche in punto di quantificazione del risarcimento del danno, non ha tenuto conto della specifiche censure sollevate in sede di atto di appello in relazione al riconoscimento di somme risarcitorie a titolo di danno morale ed esistenziale. Rileva che in tal modo il giudice di merito ha erroneamente effettuato una duplicazione di voci risarcitorie in contrasto con i principio affermati da questa Corte nella decisione a sezioni unite del 11/11/2008 n. 26972.

Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque infondato.

Si osserva innanzitutto che, con riferimento alla quantificazione del danno, non risulta alcun corrispondente motivo di appello (si rileva dalla sentenza impugnata che le doglianze dell'appellante afferivano alla sola valutazione medico-legale della misura del danno biologico).

Inoltre, non si riscontra alcuna duplicazione laddove le voci risarcitorie hanno distintamente riguardato (come si rileva dalla confermata sentenza di primo grado il cui testo è stato riprodotto in sede di controricorso) il danno biologico (inteso come mera lesione della integrità psicofisica), il danno morale (inteso come sofferenza interiore temporanea causata dalla commissione di un fatto illecito), il danno esistenziale (inteso come umiliazione delle capacità ed attitudini lavorative con pregiudizio all'immagine del dipendente sul luogo di lavoro).

Si ricorda, sul punto, che in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice. Si ha pertanto duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi (cfr. in tal senso Cass. n. 10527/2011, v, anche Cass. n. 15414/2011 cfr., in materia di danno subito dal lavoratore, anche Cass. n. 9238/2010, n. 23053/2009 nonchè la più recente Cass. 20 novembre 2012 n. 20292 secondo cui il danno biologico - cioè la lesione della salute -, quello morale - cioè la sofferenza interiore - e quello dinamico - relazionale - altrimenti definibile esistenziale, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona - costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili; nè tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972 del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, giacchè quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-06-2013, n. 16413


Costituzione in appello valida anche con la cd. velina se poi viene depositato l’originale

Contrariamente a quanto rilevato dal Tribunale di Reggio Calabria, la prevalente giurisprudenza di questa Corte è schierata nel senso che l'accertamento dell'avvenuto deposito, al momento della costituzione in giudizio dell'appellante, di una copia (o velina) dell'atto di appello in luogo dell'originale contenente la relata dell'avvenuta notificazione dello stesso atto, non comporta la sanzione dell'improcedibilità del gravame (cfr. Cass. 9 dicembre 2004, n. 23027; Cass. 24 agosto 2007, n. 17958; Cass. 29 luglio 2009, n. 17666, ord.; Cass. 17 novembre 2010, n. 23192; Cass. 8 maggio 2012, n. 6912 e, da ultimo Cass. 23 novembre 2012, n. 20789, ord.).

Questo condivisibile orientamento è, infatti, saldamente basato sull'indiscusso principio di tassatività delle cause di improcedibilità (tra le quali, per l'appunto, non è previsto - all'atto dell'iscrizione a ruolo della causa da parte dell'appellante - il deposito dell'originale dell'atto di appello notificato); sulla esclusività del richiamo, in detta norma, ai soli termini di costituzione dell'appellante (da intendersi riferiti a quelli contemplati dall'art. 165 c.p.c., per il giudizio di primo grado, in virtù del rimando trasparente nel primo comma dell'art. 347 c.p.c.) e non anche alle forme; sulla non configurabilità di un pregiudizio del diritto di difesa e dell'instaurazione del contraddittorio per effetto dell'avvenuta notificazione. Del resto, la possibilità di provvedere alla costituzione in giudizio da parte dell'attore (e, corrispondentemente, da parte dell'appellante in secondo grado) e alla contestuale iscrizione a ruolo della causa prima del perfezionamento della notificazione (mediante il deposito della c.d. "velina") è un dato che deve ritenersi acquisito alla luce della lettura (costituzionalmente orientata) operata dal Giudice delle leggi (cfr. sentenza 2 aprile 2004, n. 107, ed ordinanza 12 aprile 2005, n. 154, ma già prima v., in senso analogo, l'ordinanza 23 giugno 2000, n. 239), secondo cui tale ultimo adempimento si perfeziona per il notificante sin dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, sicchè a partire da tale momento egli è legittimato a compiere tutte le attività che presuppongono la notificazione, ferma restando la decorrenza del termine ultimo per la costituzione dalla consegna effettiva al destinatario. Ed anche le Sezioni unite di questa Corte - con la sentenza 18 maggio 2011, n. 10864 - hanno affermato che la sola mancata costituzione in termini dell'appellante determina automaticamente l'improcedibilità dell'appello (a nulla rilevando che l'appellato si sia costituito nel termine assegnatogli).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-06-2013, n. 15715


Diritto al rimborso Fondo di garanzia per vittime della strada, prescrizione decennale

Il Fondo di garanzia per le vittime della strada è tenuto al risarcimento dei danni provocati da soggetto non assicurato in vece e luogo del responsabile e della compagnia assicuratrice che a ciò avrebbe dovuto provvedere, se il responsabile si fosse assicurato.

Il principio è stato introdotto allo scopo di garantire comunque ai danneggiati dalla circolazione stradale il risarcimento dei danni, quanto meno in certa misura.

Entro i limiti della tutela che la legge assicura ai danneggiati, l'impresa di volta in volta designata dal Fondo di garanzia viene perciò ad assumere la veste di una sorta di garante ex lege del danneggiante che si sia reso inadempiente all'obbligo di assicurarsi.

La posizione di una tale impresa va assimilata a quella di un fideiussore, più che a quella di un assicuratore, proprio in forza del disposto della L. n. 990 del 1969, art. 29 (oggi D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 292, comma 1), che le attribuisce in ogni caso il diritto di agire in rivalsa nei confronti del principale obbligato (diritto che normalmente non spetta all'assicuratore).

L'azione di cui all'art. 29 cit. viene a configurare, pertanto, alcunchè di analogo all'azione di regresso che spetta al fideiussore contro il debitore principale.

Ne consegue che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che fra l'impresa designata dal FGVS e il danneggiato non sussista alcun titolo idoneo a fondare un' autonoma azione di regresso, dovendosi ravvisare un tale titolo nell'espressa disposizione dell'art. 29 cit.

e nei principi generali sopra indicati, desumibili dall'interpretazione del sistema.

La surrogazione legale non ha ragione di essere richiamata, nel caso in esame, perchè la compagnia assicuratrice non ha alcun bisogno di invocarne gli effetti, nè di agire in surroga del danneggiato, per recuperare quanto le spetta, avendo a disposizione l'azione autonoma di cui all'art. 29.

E' appena il caso di ricordare che la surrogazione legale disciplina taluni effetti del pagamento del debito altrui a vantaggio di colui che paga (subentro nel credito e subentro nelle garanzie del credito), ove questi intenda avvalersi di tali effetti e vi abbia interesse.

In tal caso, il creditore è ovviamente tenuto a rispettare la specifica disciplina del credito nel quale subentra.

Ma non vi è alcuna ragione che giustifichi l'assoggettamento forzoso del creditore agli effetti della surrogazione legale, ove egli disponga di altro mezzo per conseguire la restituzione di quanto ha pagato ed intenda avvalersene. In sintesi, l'impresa designata dal Fondo di garanzia per la vittime della strada, che agisca ai sensi della L. n. 990 del 1969, art. 29 (oggi D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 292, comma 1), non è soggetta al termine di prescrizione biennale, applicabile all'azione risarcitoria spettante al danneggiato dalla circolazione stradale, poichè il suo diritto non è condizionato e non deriva dal diritto del danneggiato al risarcimento dei danni, ma trova il suo fondamento nella suddetta azione specifica, che gli è concessa dalla legge a tale scopo e che è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale (conf. Cass. civ. Sez. 3, 17 ottobre 1997 n. 10176; Cass. civ. Sez. 3, 11 maggio 2007 n. 10827. Il principio contrario, formulato in epoca risalente da Cass. civ. S.U. 11 novembre 1991 n. 12014, non è significativo, trattandosi di un mero obiter dictum, riferito ad un caso del tutto peculiare).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 19-06-2013, n. 15303


Intervista diffamatoria: responsabilità dell'intervistato e dell'intervistatore

Per il carattere diffamatorio un articolo - sotto forma di intervista - pubblicato il (OMISSIS) sul settimanale "(OMISSIS)" ed il (OMISSIS) sul quotidiano "(OMISSIS)", dai rispettivi titoli "Guarda quanto sono civili quelli del Pool" e " B. ed i suoi amici, giudici e parti in causa, lavano le offese con un mucchio di bigliettoni", i magistrati B.F.S., Bo.Il., D.P., C.G. e G.F. convennero dinanzi al tribunale di Milano l'intervistato prof. V.R., l'intervistatore M.A. e le rispettive editrici Arnoldo Mondadori Editore spa e la "srl il Foglio Quotidiano", per sentirli condannare al risarcimento dei danni da loro patiti per la ritenuta diffamazione.

[...]

Pertanto, una volta rilasciata un'intervista connotata da contenuti diffamatori, l'intervistato, a meno che non provi di avere validamente tentato di impedire il fatto o che esso sia accaduto contro la sua volontà, risponde anche della ripubblicazione ad opera di terzi delle sue dichiarazioni, attese le caratteristiche di attitudine all'incontrollata diffusione dei dati coscientemente immessi nell'odierno sistema o circuito dei mezzi di comunicazione di massa.

[...]

Della giurisprudenza di questa Corte va allora mantenuto, superando l'ambiguo concetto di neutralità od imparzialità di questi, il costante insegnamento per il quale l'intervistatore ha l'onere, per andare esente da (cor-)responsabilità nell'intervista ad un'altra persona, di non concorrere a dar luogo alla valenza o portata diffamatoria dell'intervista, complessivamente considerata come prodotto giornalistico e quindi come interazione tra due persone: e tanto in relazione al tenore delle singole domande poste, o del loro complessivo contesto, od ai commenti od alle premesse alle medesime od alle modalità stesse della loro formulazione o struttura.

La consecuzione, la suggestività, l'articolazione di artifici dialettici o retorici nella formulazione delle domande o delle premesse o dei commenti possono essere, a seconda dei casi, valutate - con un apprezzamento di fatto, che sfugge, se congruamente motivato, ad ogni sindacato di legittimità - dal giudice del merito come concause della lesione dell'altrui onore e reputazione, quando non perfino come fatti idonei di per sè solo a determinarla.

In tal modo, l'intervistatore diviene un coautore a pieno titolo del contenuto complessivo dell'articolo, condividendone in buona sostanza le tesi ed anzi contribuendo con la sua condotta al consolidamento del risultato o del contenuto diffamatorio, ovvero, se non aderendovi in modo espresso, contribuendo scientemente con la sua condotta alla percezione del senso impressovi dall'intervistato.

In applicazione dei suddetti principi alla fattispecie, il carattere diffamatorio dell'opera dell'intervistatore M. è ravvisato dalla corte territoriale non soltanto nel fatto materiale della riproduzione dell'intervista o nella formulazione di domande ("allusive, suggestive e provocatorie") che abbiano indirizzato il contenuto delle risposte, ma anche in personali valutazioni, analiticamente riportate...

Cass. civ. Sez. III, Sent., 17-06-2013, n. 15112


Se l’insidia è prevedibile il Comune non è responsabile

"L'insidia stradale non è un concetto giuridico, ma un mero stato di fatto, che, per la sua oggettiva invisibilità e per la sua conseguente imprevedibilità, integra una situazione di pericolo occulto. Tale situazione, pur assumendo grande importanza probatoria, in quanto può essere considerata dal giudice idonea a integrare una presunzione di sussistenza del nesso eziologico con il sinistro e della colpa del soggetto tenuto a vigilare sulla sicurezza del luogo, non esime il giudice dall'accertare in concreto la sussistenza di tutti gli elementi previsti dall'art. 2043 c.c.. Pertanto, la concreta possibilità per l'utente danneggiato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza l'anomalia, vale altresì ad escludere la configurabilità dell'insidia e della conseguente responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica" (sez. 3, 13/7/2011 n. 15375).

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 18-06-2013, n. 15196


Lavoro gratuito a favore sorella avvocato

Era poi da escludere, ad avviso della Corte di merito, la pretesa gratuità delle prestazioni svolte dalla lavoratrice in ragione del legame familiare che univa le due sorelle.

Da un lato esse non erano conviventi, dall'altro il rapporto era sorto, come riferito dal padre C.D., per consentire alla figlia N. di introdursi nel mondo del lavoro, previa corresponsione di una retribuzione. Ricorreva dunque non già la presunzione di gratuità della prestazione, ma quella di onerosità della stessa.

[...]

Questa Corte ha ripetutamente affermato che nel caso in cui sia certo il diritto alla prestazione spettante al lavoratore, ma non sia possibile determinare la somma dovuta, sicchè il giudice la liquida equitativamente ai sensi dell'art. 432 c.p.c., l'esercizio di tale potere discrezionale non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, purchè la motivazione della decisione dia adeguato conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo (Cass. 19 febbraio 2013 n. 4047; Cass. 7 gennaio 2009 n. 50; Cass. 18 agosto 2005 n. 16992; Cass. 23 luglio 2004 n. 13887).

Nella specie la Corte territoriale, nel dare atto del rapporto di subordinazione esistente tra le parti, ha posto in evidenza che la prestatrice fruiva di innegabili vantaggi in forza del rapporto parentale con la datrice di lavoro.

Non era soggetta la lavoratrice a rigidi orari di lavoro, non eseguiva talune prestazioni connesse all'attività di segreteria, quali la preparazione dei fascicoli, la redazione delle fatture, la gestione dell'archivio. Inoltre, come sopra osservato, godeva di "libertà di movimento", che le consentiva il disbrigo di eventuali altre incombenze anche durante l'orario di lavoro.

Tali elementi - pur non incidendo sulla natura subordinata del rapporto - sono stati tenuti presenti, ai fini della liquidazione equitativa delle prestazioni, dalla Corte di merito, la quale, assumendo come punto di riferimento la somma mensile di lire un milione corrisposta alla lavoratrice in danaro o in natura nel corso del rapporto, ha ritenuto che tale importo, in relazione alle retribuzioni previste per i dipendenti di 3^ livello, non dovesse essere ulteriormente aumentato - così come aveva fatto il primo giudice - trattandosi sostanzialmente di una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

Trattandosi di un percorso argomentativo coerente ed immuni da vizi, i motivi in esame vanno respinti.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-06-2013, n. 14804


Fucila la moglie per la bolletta telefonica esagerata, non si configura l’aggravante dei futili motivi

Il secondo motivo di ricorso è fondato.

Il giudice di appello ha ritenuto la sussistenza dell' aggravante dei futili motivi, esclusa dal giudice di primo grado, con la seguente motivazione: a causa del ricorso della persona offesa ai servizi telefonici di cartomanzia, la bolletta del telefono per il bimestre precedente aveva raggiunto l'importo di L. 2.000.000; la mattina del fatto (accaduto il (OMISSIS)) l'imputato aveva scoperto che per il solo mese di agosto erano già stati conteggiati scatti telefonici pari a L. 1.500.000. Secondo la Corte di appello, poichè P. guadagnava uno stipendio mensile di circa 2.500.000/3.000.000 di L. e poichè il padre dell'imputato era intervenuto offrendosi di pagare le bollette telefoniche, l'insorgenza del proposito omicida era del tutto sproporzionata e riferibile ad uno stimolo esterno assolutamente lieve rispetto alla enorme gravità del gesto compiuto.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità sussiste la circostanza aggravante dei motivi futili quando la spinta al reato manca di quel minimo di consistenza che la coscienza collettiva esige per operare un collegamento accettabile sul piano logico con l'azione commessa, in guisa da risultare assolutamente sproporzionato all'entità del fatto e rappresentare, quindi, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto e un'occasione per l'agente di dare sfogo al proprio impulso criminale. (Sez. 1^, n. 4453 del 11/02/2000, Dolce, Rv. 215806; conformi Sez. 1^, n. 29377 del 08/05/2009, Albanese e altri, Rv. 244645; Sez. 1^, n. 39261 del 13/10/2010, Mele, Rv. 248832).

In base a quanto ricostruito dal giudice di appello, il motivo che ha determinato l'imputato a compiere il gesto di estrema gravità in danno della moglie non è costituito dall'uso smodato del telefono da parte della vittima (fatto obiettivamente banale rispetto al delitto compiuto), ma dalla circostanza che il ricorso ai servizi telefonici di chiromanzia comportava costi tali da dimezzare il reddito dell'imputato, con le gravi ripercussioni sul bilancio familiare rilevate dal giudice di primo grado e non escluse nella sentenza impugnata.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 24-04-2013) 13-06-2013, n. 26017


Riconosciuto al coniuge il risarcimento del danno non patrimoniale per diagnosi errata

La Corte di appello ha dato atto che - a seguito dell'intervento chirurgico superfluamente distruttivo e dell'errata notizia di essere affetto da una malattia mortale con breve aspettativa di sopravvivenza, notizia smentita con grave ritardo rispetto a quanto sarebbe stato possibile - il G. è rimasto vittima di uno stato ansioso, con elaborazione depressiva e presenza di somatizzazioni, come accertato da una relazione medica del Servizio di Neuropatologia del Dipartimento di Patologia Sistematica dell'Università di (OMISSIS) (pag. 10 della sentenza); che tale stato si è protratto anche dopo il responso dell'esito favorevole della biopsia, per il timore dell'infortunato che si trattasse di una pietosa bugia e che i familiari gli nascondessero la verità; che per effetto della situazione anche la moglie appariva distrutta a causa dello stato psicologico del marito, dovendo per di più farsi carico della suocera anziana in casa.

Sulla base di tali premesse la Corte di appello ha però negato la rilevanza dei danni morali con motivazione sostanzialmente apodittica: dichiarando cioè che il danno morale dei congiunti assume rilievo solo se "può ricondursi alle ipotesi di lesioni seriamente invalidanti, tali cioè da rendere di particolare gravità le sofferenze del soggetto leso e, di riflesso, quelle dei suoi prossimi congiunti e da compromettere lo svolgimento delle relazioni affettive" (pag. 11).

A parte il fatto che non può in linea di principio escludersi che il danno psichico, soprattutto gli stati depressivi, possano assumere un tale rilievo da doversi considerare gravemente invalidanti, è indubbio che nella specie la situazione venutasi a creare era obiettivamente idonea a configurare sofferenze di particolare gravità non solo per il soggetto direttamente leso, ma anche per colei che da anni ne condivideva la vita, ed era certamente tale da compromettere 10 svolgimento delle relazioni affettive (come ben sperimenta chi si trovi a convivere con un depresso).

Il diniego di ogni rilievo a tali sofferenze, quale danno morale meritevole di un risarcimento, è perciò conclusione pressochè immotivata e contraddittoria rispetto alle premesse sopra richiamate.

Questa Corte ha più volte deciso che l'illecito può esplicare a carico degli stretti congiunti una sua potenzialità lesiva autonoma, venendo così ad assumere una valenza plurioffensiva, sì da poter essere considerato come causa immediata e diretta non solo del danno subito dalla vittima, ma anche di quello subito dal congiunto (cfr. per tutte, Cass. civ. S.U. 1 luglio 2002 n. 9556).

La sentenza impugnata deve essere sul punto annullata.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 04-06-2013, n. 14040


Accertata l’intesa collusiva, le assicurazioni devono risarcire il cliente

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che la prescrizione non necessariamente decorre dalla data in cui il fatto si è verificato nella sua materialità e realtà fenomenica (nella specie, richiesta di un prezzo eccessivo e ricezione del relativo pagamento); ma piuttosto dal momento in cui esso si evidenzi all'esterno con tutti i connotati che ne determinano l'illiceità (cfr., con riferimento ad altra fattispecie, Cass. civ. Sez. 3, 21 febbraio 2003 n. 2645, ed in relazione al caso in esame, Cass. civ. Sez. 3, 2 febbraio 2007 n. 2305: ".... l'azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale, proposta ai sensi del secondo comma della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 33, si prescrive, in base al combinato disposto degli art. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l'ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia").

[...]

Il motivo è fondato, sotto il profilo dell'assolvimento dell'onere probatorio.

La ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni subiti a causa dell'illecito concorrenziale, che lo ha posto in condizione di dover pagare un premio di assicurazione RCA superiore a quello che avrebbe potuto essergli richiesto in mancanza dell'illecito.

Se è pur vero che l'onere di fornire la prova del nesso causale grava in linea di principio sul danneggiato, è principio altrettanto generale che la prova può essere fornita anche tramite presunzioni, gravi, precise e concordanti, ai sensi degli art. 2727 e 2729 c.c., e che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte rilevato, nell'esame di casi analoghi a quello in oggetto, che la motivazione del Provvedimento n. 8546/2000 dell'AGCM, evidenzia molteplici accertamenti e rilievi, sulla base dei dati acquisiti nel corso dell'istruttoria che ha preceduto la sua decisione, tali da offrire quanto meno la prova presuntiva del collegamento causale qui controverso. Ed ha effettivamente affermato il principio richiamato dal ricorrente, per cui - ove l'assicurato produca in giudizio la polizza assicurativa ed il provvedimento amministrativo che ha accertato l'intesa illecita - il giudice potrà desumere l'esistenza del nesso causale anche attraverso criteri di alta probabilità logica e per il tramite di presunzioni, salvo che l'assicuratore offra adeguati elementi di prova in contrario (cfr. Cass. civ. Sez. 3, 2 febbraio 2007 n. 2305; Cass. civ. Sez. 3, 26 maggio 2011 n. 11610; Idem, 9 maggio 2012 n. 7039, fra le tante).

L'AGCM ha accertato che lo scambio di informazioni fra le compagnie assicuratrici è andato ben oltre le finalità - lecite e fisiologiche per le imprese del settore - di comunicarsi i dati rilevanti per la determinazione del c.d. premio puro (cioè di quella parte del premio che è commisurata alla natura e all'entità dei rischi), e si è esteso a comprendere i c.d. dati sensibili, che concorrono a determinare l'importo del premio commerciale: cioè del premio concretamente convenuto in polizza, che include, oltre al premio puro, le imposte, i caricamenti corrispondenti ai costi ed alle spese generali, e soprattutto l'utile di impresa (cfr. pp. 239 - 251, 257 del Provvedimento n. 8546/2000). Ciò ha consentito alle imprese partecipanti di "coordinarsi rapidamente.....su di un equilibrio di mercato collusivo, anche in assenza di accordi espliciti sui prezzi" e di "adeguare le proprie strategie alla realizzazione di equilibri di prezzo a cui sia associato il massimo profitto congiunto per l'industria nel suo complesso, con grave danno per il corretto funzionamento del mercato e per i consumatori" (pp. 251; 254 ss.).

[...]

Il comportamento collusivo ha infatti impedito che le imprese stesse fossero indotte ad operare in modo da ridurre i loro costi per poter ridurre i prezzi, comportamento che rientra fra i benefici effetti di un mercato concorrenziale (cfr. pp. 77, 78, 240, 259 ss., 263).

Il Consiglio di Stato, nel confermare per questa parte la decisione dell'Autorità, ha a sua volta rilevato che neppure il fatto che il settore assicurativo della RCA operi in perdita vale ad escludere l'illiceità dello scambio di informazioni sui dati sensibili, anche e soprattutto perchè il comportamento collusivo, eliminando ogni incertezza sul comportamento dei concorrenti, disincentiva "ogni diversa politica commerciale, potenzialmente idonea anche a mutare le condizioni di perdita del mercato" (cfr. Cons. Stato, sentenza n. 2199/2002, par. 7.2.5).

E' nota del resto la polemica circa l'aggravio dei costi del settore assicurativo, provocato per esempio dalle anomalie del sistema di distribuzione ed in particolare, dagli oneri economici inerenti al peculiare assetto delle agenzie di assicurazione.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 04-06-2013, n. 14027


Annegamento del bimbo: colpa dell'educatrice e del bagnino.

Non sortiscono il risultato sperato neppure gli argomenti esposti dalla L..

In ordine alla pretesa non prevenibilità dell'evento basti richiamare quanto immediatamente sopra esposto e alle esatte osservazioni della Corte territoriale (pag. 15), la quale ha chiarito che il compito dell'assistente è proprio quello di scongiurare sul nascere situazioni di pericolo, non solo ove le stesse appaiano macroscopicamente percepibili (come nel caso di colui che vistosamente si dimena non sapendo nuotare), ma soprattutto nelle ipotesi in cui il bagnante, vittima di una un malore, manifestatosi in forma subdola, si abbandoni, inerte e silente, sull'acqua.

Nonostante il tentativo d'insinuare perplessità sul punto, emerge nitidamente dalle risultanze istruttorie, riprese dalla sentenza di primo grado (non v'è dubbio che le argomentazioni del Tribunale, note alla Corte d'appello e all'imputato, coerenti con il percorso logico del secondo giudice, integrino la motivazione di quest'ultimo - cfr. a riguardo della motivazione per relationem, Sez. 2^, 17/2/2009, n. 11077 -), che il bambino, il quale non presentava patologie o anomalie significative (l'escoriazione a uno degli arti Inferiori era dovuto all'avvio di fenomeno putrefattivo post mortem), morì a causa dei gravi danni cerebrali procuratigli dall'anossia asfittica e, quindi, in definitiva, a causa del bagno in piscina (per un caso in cui si è ritenuta analoga causalità tanatologica, cfr. Cass. Sez. 4^, n. 4462/06 del 14/12/2005).

Il compito dell'imputata non era affatto inesigibile: era emerso, già dalla sentenza del Tribunale, richiamata dalla Corte territoriale, che, al contrario dell'asserto difensivo, pur non negata l'onerosità del compito (e di ciò i giudici del merito terranno conto nel determinare il trattamento penale), la L., posizionandosi adeguatamente, era in condizione di avere una buona visuale di tutta l'area sottoposta alla sua vigilanza, peraltro, in quel momento scarsamente frequentata; ciò esattamente al contrario del caso sottoposto al vaglio di questa Corte (Cass., Sez. 4^, n. 38024 del 15/6/2012), impropriamente richiamato dalla predetta imputata.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 18-04-2013) 04-06-2013, n. 24165


Nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso giudice che decide sulla domanda che si assume temeraria

La giurisdizione va regolata con l'attribuzione alla competenza del giudice tributario anche delle domande risarcitorie proposte dal ricorrente.

Questa Corte ha recentemente affermato il principio secondo il quale la controversia avente ad oggetto, in via principale, una domanda di rimborso d'imposta (nella specie, ritenute IRPEF sulle somme erogate per incentivo all'esodo D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 17, comma 4 bis) e, in via subordinata, una domanda di risarcimento del danno per mancato adeguamento della legge interna alla normativa comunitaria (nella specie, per illegittimità del regime dell'incentivo dichiarata dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea) appartiene alla giurisdizione del giudice tributario per la sola domanda principale, mentre appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario per la domanda risarcitoria (avente in realtà natura alternativa - più che subordinata - alla principale), essendo essa del tutto autonoma ed avulsa dal rapporto tributario ed estranea agli "accessori" del tributo, ai quali il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, estende la cognizione del giudice speciale (Cass., Sez. un., n. 20323 del 2012).

Ma la questione ora in esame presenta caratteristiche peculiari, che ne escludono l'assimilabilità a quella anzidetta.

Le pretese risarcitorie avanzate dallo I., infatti, pur non avendo neanch'esse ad oggetto "accessori" del tributo, di cui al citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, (per tali dovendosi intendere gli aggi dovuti all'esattore, le spese di notifica, gli interessi moratori, il maggior danno da svalutazione monetaria: cfr. sent. n. 20323 del 2012, cit., e i precedenti ivi menzionati), presentano tuttavia un diretto ed immediato nesso causale con l'atto tributario impugnato ed uno stretto collegamento con il rapporto tributario, il quale non è esaurito, ma, anzi, costituisce l'oggetto del giudizio (sia pure limitatamente al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere con l'atto medesimo: da ult. Cass. n. 4145 del 2013).

Ne consegue che le domande risarcitorie in esame vanno ricondotte a pieno titolo nell'ambito applicativo dell'art. 96 c.p.c., in tema di responsabilità processuale aggravata, il quale: a) è applicabile al processo tributario, in virtù del generale rinvio di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2; b) regola tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali, ponendosi con carattere di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità (tra le altre, Cass. n. 28226 del 2008 e n. 5069 del 2010); c) non detta tanto una regola sulla competenza, ma disciplina piuttosto un fenomeno endoprocessuale, prevedendo che la domanda è proponibile solo nello stesso giudizio dal cui esito si deduce l'insorgenza della detta responsabilità, non solo perchè nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume, per l'appunto, temeraria, ma anche e soprattutto perchè la valutazione del presupposto della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di un contrasto pratico di giudicati (Cass. nn. 9297 e 12952 del 2007, 18344 e 26004 del 2010).

Cass. civ. Sez. Unite, Ord., 03-06-2013, n. 13899