17 maggio 2013

I pregiudizi consustanzialmente insiti nella domanda di risarcimento dei danni derivati dalla nascita di figlio menomato


Parzialmente fondato è anche il quinto motivo di ricorso, che conviene qui esaminare in precedenza, rispetto al quarto. Non v'ha dubbio che il primo bersaglio dell'inadempimento del medico è il diritto dei genitori di essere informati, al fine, indipendentemente dall'eventuale maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l'interruzione della gravidanza, di prepararsi psicologicamente e, se del caso, anche materialmente, all'arrivo di un figlio menomato. E la richiesta dei corrispondenti pregiudizi deve ritenersi consustanzialmente insita nella domanda di risarcimento dei danni derivati dalla nascita, quali il danno biologico in tutte le sue forme e il danno economico, che di quell'inadempimento sia conseguenza immediata e diretta in termini di causalità adeguata (confr. Cass. civ. 1 dicembre 1998, n. 12195).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-03-2013, n. 7269

L'estinzione del mandato per morte del mandante e l'obbligo di rendiconto


L'estinzione del mandato per morte del mandante, prevista dall'art. 1722 c.c., n. 4, e l'obbligo di rendiconto a carico dello stesso mandatario, previsto dal precedente art. 1713, comma 1, si collocano su piani diversi e non confondibili, talchè l'evento morte spiega il solo effetto giuridico di trasferire l'obbligo di rendiconto dal mandatario ai suoi eredi ovvero, nel caso di morte del mandante,in favore dei suoi eredi in virtù delle norme generali in tema di successione mortis causa. Se, invero, l'estinzione del rapporto (salva l'ipotesi del mandato avente ad oggetto il compimento di atti relativi all'esercizio di un'impresa, pure contemplata dal citato art. 1722, n. 4, e che qui non viene, peraltro, in considerazione) si giustifica per il carattere di esso, basato sull'intuitus personae, e riguarda, tuttavia, il futuro, l'obbligo di rendiconto, avendo ad oggetto atti già compiuti, e come tali ormai spogli di ogni profilo di personalità, riguarda invece il passato e per esso valgono le regole generali di diritto successorio.

Deve, pertanto, confermarsi l'indirizzo in tal senso già espresso da questa Corte Suprema con sentenze del 6.6.1980 n. 3672 e 30.8.1994 n. 7592; Cass. n 8801 del 1998; Cass. n. 9262 del 2003).

Ne consegue che nella fattispecie il decesso della mandante R.L. non estingueva l'obbligo di rendere il conto in merito ai depositi bancari da parte della mandataria convenuta I.C., per quanto nei confronti delle eredi della mandante.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-03-2013, n. 7254


La mancanza nella citazione di tutti i requisiti indicati dall'art. 164 c.p.c.


L'atto in questione si rivela, invece, del tutto carente con riguardo alla vocatio in ius, sicchè per tale seconda parte esso era in effetti viziato. Ma al riguardo va richiamato il condiviso principio di diritto di recente affermato da questa Corte (cfr cass., ord., n. 22024 del 2009), secondo cui la mancanza nella citazione di tutti i requisiti indicati dall'art. 164 c.p.c., comma 1, e, quindi, di tutti gli elementi integranti la "vocatio in jus", non vale a sottrarla (anche se trattasi di citazione in appello) all'operatività dei meccanismi di sanatoria "ex tunc" previsti dai commi 2 e 3 della medesima disposizione. Ne consegue che, quando la causa, una volta iscritta al ruolo, venga chiamata all'udienza di comparizione (che, per la mancata indicazione dell'udienza, dev'essere individuata ai sensi dell'art. 168-bis c.p.c., comma 4), il giudice, anche in appello, ove il convenuto non si costituisca, deve ordinare la rinnovazione della citazione, ai sensi e con gli effetti dell'art. 164 c.p.c., comma 1, mentre se si sia costituito deve applicare l'art. 164 c.p.c., comma 3, salva la richiesta di concessione di termine per l'inosservanza del termine di comparizione.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 21-03-2013, n. 7178


PAS - L'adesione del Giudice alla CTU oggetto di precise censure


Passando all'esame delle censure dedotte, deve rilevarsi che la loro fondatezza discende dall'intreccio di due principi, parimenti disattesi, costantemente affermati da questa Corte in presenza di elaborati peritali che, interamente recepiti dal giudice del merito, siano stati sottoposti a specifiche censure, soprattutto quando, come nel caso in esame, venga in considerazione una teoria non ancora consolidata sul piano scientifico, ed anzi, come si vedrà, molto controversa.

Deve invero evidenziarsi che la ricorrente, nel pieno rispetto del principio di autosufficienza, ha richiamato le critiche mosse alla relazione depositata dal consulente tecnico d'ufficio, alla diagnosi dallo stesso formulata e, soprattutto, alla validità, sul piano scientifico, della PAS. Basterà qui ricordare che sono state richiamate le perplessità del mondo accademico internazionale, al punto che il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) non la riconosce come sindrome o malattia; che si è evidenziato che vari autori spagnoli, all'esito di una ricerca compiuta nel 2008, hanno sottolineato la mancanza di rigore scientifico del concetto di PAS e che, nel 2009, le psicologhe B.C. e V.S., la prima spagnola e la seconda argentina, hanno sostenuto, in una pubblicazione del 2009, che la PAS sarebbe un "costrutto pseudo scientifico". Nell'anno 2010, inoltre, la Asociacion Espanola de Neuropsiquiatria ha posto in evidenza i rischi dell'applicazione, in ambito forense, della PAS, non diversamente da quanto già manifestato nel 2003, in USA, dalla National District Attorneys Association, che in nota informativa sosteneva l'assenza di fondamento della teoria, "in grado di minacciare l'integrità del sistema penale e la sicurezza dei bambini vittima di abusi".

Sono stati altresì richiamati i rilievi in base ai quali, anche volendo accedere alla validità scientifica della PAS, molti dei suoi caratteri, come definiti dal suo sostenitore principale, Richard Gardner (nei cui confronti non sono mancati accenni poco lusinghieri, quale l'essersi presentato quale Professore di psichiatria infantile presso la Columbia University, essendo un mero "volontario non retribuito", e persino l'aver giustificato la pedofilia), non sarebbero riscontrabili nel caso di specie.

Le esposte critiche non sono state esaminate nel provvedimento impugnato, così violandosi il principio secondo cui il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consulenza precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel vizio di motivazione (Cass., 6 settembre 2007, n. 18688; Cass. 1 marzo 2007, n. 4797; Cass., 13 dicembre 2006, n. 28694).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 20-03-2013, n. 7041


L'opposizioni nei confronti dei provvedimenti di liquidazione dell'onorario del difensore del soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato


...le Sezioni unite civili di questa Corte (sentenza 3 settembre 2009, n. 19161), chiamate a risolvere un contrasto di giurisprudenza hanno, tra le varie questioni affrontate, affermato, innovando il precedente orientamento, che spetta sempre al giudice civile la competenza a decidere sulle opposizioni nei confronti dei provvedimenti di liquidazione dell'onorario del difensore del soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato (o di persone ammesse al programma di protezione), dei compensi agli ausiliari dei giudici e delle indennità ai custodi, anche quando emessi nel corso di un procedimento penale, e che l'eventuale ricorso per cassazione avverso il provvedimento che decide sull'opposizione va proposto, nel rispetto dei termini e delle forme del codice di rito civile, dinanzi alle sezioni civili della Corte. L'applicazione del nuovo indirizzo giurisprudenziale impone di effettuare il controllo di ammissibilità e di procedibilità dell'impugnazione secondo le regole del ricorso per cassazione in sede civile, laddove il presente ricorso, con cui viene impugnata un decreto reso dal Tribunale di sorveglianza, è stato proposto in base alle regole procedurali proprie del rito penale.

Cass. civ. Sez. VI - 2, Sent., 20-03-2013, n. 7029


Progetto del Geometra o dell'Ingegnere ?


Per completezza motivazionale è il caso di ricordare che nell'ambito della disciplina normativa sopra evidenziato, dal quale emerge una chiara ripartizione di competenze tra geometri ed altri professionisti in riferimento alla progettazione ed alla direzione di opere relative a costruzioni ed edifici, trova fondamento l'orientamento giurisprudenziale di questa corte, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, secondo cui la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri e degli architetti sono illegittime, cosicchè a rendere legittimo un progetto redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perchè è il professionista competente che deve essere, altresì, titolare della progettazione (v. Cass. 13 gennaio 1983 n. 286; Cass. 25 febbraio 1986 n. 1182; Cass. 13 marzo 1995 n. 3108), trattandosi di incombenze che devono essere inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.

Cass. civ. Sez. VI - 2, Sent., 20-03-2013, n. 7026


Opposizione a decreto ingiuntivo e art. 171 cod. proc. civ.


Si è specificato a tal proposito che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non è applicabile l'art. 171 cod. proc. civ. - secondo il quale, nel caso di mancata costituzione, il processo non si estingue e ne è consentita la riassunzione - in quanto il giudizio di opposizione, benchè costituisca un ordinario processo di cognizione, è tuttavia sottoposto alla duplice condizione di procedibilità della tempestiva proposizione dell'opposizione e della costituzione in giudizio dell'opponente, sicchè grava su quest'ultimo l'onere di coltivare il giudizio di opposizione, risultando detta disciplina coerente con le esigenze di celerità tipiche del procedimento monitorio, che risulterebbero vanificate dalla eventuale facoltà dell'opponente di riassumere la causa, nel caso di opposizione alla quale non sia seguita l'iscrizione a ruolo (Cass. civ. n. 4294/2004).

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 20-03-2013, n. 6989


Esecuzione forzata e successione


La resistente Equitalia Friuli Venezia Giulia s.p.a., dal canto suo, ha evidenziato che l'esistenza di beni ereditari ulteriori e diversi da quelli pignorati costituiva e costituisce, contrariamente a quanto affermato dal giudice di merito, fatto pacifico in causa (confr. pag. 3, 4, 5 e 6 del controricorso).

Tanto premesso e precisato in ordine alle deduzioni bine et inde formulate, non è inutile ricordare che questa Corte ha già avuto modo di precisare: a) che l'espropriazione forzata dell'intera quota, spettante ad un compartecipe, dei beni compresi in una comunione, è certamente possibile, ma limitatamente a tutti i beni indivisi di una singola specie (immobili, mobili o crediti); b) che, iniziata l'espropriazione della stessa, il giudice dell'esecuzione può disporre la separazione in natura della quota spettante al debitore esecutato, se questa è possibile, o, in caso contrario, ordinare che si proceda alla divisione, oppure disporre la vendita della quota indivisa; c) che non è invece ammissibile l'espropriazione forzata della quota di un singolo bene indiviso, quando la massa in comune comprenda più beni della stessa specie, perchè, potendo, in sede di divisione, venire assegnato al debitore una parte di un altro bene facente parte della massa, il pignoramento potrebbe non conseguire i suoi effetti, per inesistenza nel patrimonio del debitore, dell'oggetto dell'esecuzione (confr. Cass. civ. 17 maggio 2005, n. 10334; Cass. civ. 20 dicembre 1985, n. 6549; Cass. civ. 23 ottobre 1967, n. 2615; Cass. civ. 13 agosto 1964, n. 2308).

Deriva da quanto sin qui detto che l'evoluzione del dialogo processuale non ha fatto venir meno l'interesse del ricorrente all'accoglimento delle censure svolte nei primi due motivi di ricorso.

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 19-03-2013, n. 6809



La sovrapponibilità delle azioni ex artt. 1575, 1576 e 1578 del cod. civ.


I motivi collegati sono volti al riconoscimento dei danni derivanti da vizi della cosa (art. 1578 cod. civ.), indiscutibilmente sopravvenuti rispetto alla stipulazione del contratto di locazione (art. 1581 cod. civ.), e, in questa prospettiva, diventa centrale l'assunto del motivo di ricorso, secondo il quale per il riconoscimento degli stessi sarebbe stata idonea la domanda - che lo stesso ricorrente ammette come proposta ex artt. 1575 e 1576 cod. civ. - stante l'identità del petitum, e della causa petendi. I motivi, che per certi versi sono inammissibili nella misura in cui introducono nel giudizio di legittimità una questione della quale non è neanche allegata l'avvenuta trattazione nel processo di merito, vanno rigettati perchè è erroneo l'assunto interpretativo della sovrapponibilità delle azioni ex artt. 1575, 1576 e 1578 del cod. civ..

Dalla giurisprudenza di legittimità emerge inequivocabile la diversità dei rimedi che l'ordinamento appresta al conduttore, a seconda che il vizio attenga alla cosa locata o si tratti di guasti della stessa. I vizi della cosa locata (art. 1578 cod. civ.), incidono sulla struttura materiale della cosa, alterandone l'integrità in modo tale da impedirne o ridurne notevolmente il godimento secondo la destinazione contrattuale, anche se sono eliminabili e si manifestano successivamente alla conclusione del contratto di locazione (art. 1581 cod. civ.). Tali vizi alterano l'equilibrio delle prestazioni corrispettive, incidendo sull'idoneità all'uso della cosa locata, ed i rimedi previsti sono solo la risoluzione del contratto o la riduzione del corrispettivo, restando esclusa l'esperibilità dell'azione di esatto adempimento, non potendosi configurare in presenza di tali vizi intrinseci e strutturali un inadempimento del locatore alle obbligazioni assunte ex art. 1575 cod. civ., (Cass. 4 agosto 1994, n. 7260; Cass. 18 aprile 2001, n. 5682).

Invece, guasti o deterioramenti della cosa locata, dovuti alla naturale usura, effetto del tempo, o ad accadimenti accidentali, che determinino disagi limitati e transeunti nell'utilizzazione del bene, possono rilevare rispetto all'obbligo di manutenzione, posto dalla legge a carico del locatore, quale proiezione nel tempo dell'obbligo di consegna in buono stato di manutenzione (art. 1575 cod. civ.), e rispetto all'obbligo di riparazione ex art. 1576 cod. civ., l'inosservanza dei quali determina l'inadempimento contrattuale (Cass. 21 novembre 2011, n. 24459; Cass. 15 maggio 2007, n. 11198).

Con la conseguenza che, mentre nelle domande ex artt. 1575 - 1576 cod. civ. alla allegazione dell'inadempimento si accompagna naturalmente la domanda di risarcimento del danno, la domanda di danni ex art. 1578 c.c., comma 2 per vizi della cosa, oltre a non essere configurabile autonomamente da quella di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo, è ancora meno configurabile in caso di vizi della cosa sopravvenuti, non potendosi parlare per questi di conoscenza degli stessi o di colpevole ignoranza al momento della consegna.

Nella specie, la Corte di merito, ravvisato in fatto - con statuizione non censurata in questa sede per tale profilo - la mancanza di prova in ordine alle conseguenze dannose derivanti dal guasto (rottura di un tubo di scarico) allegato nella proposizione della domanda di danni per omessa manutenzione della cosa locata (ex art. 1575 cod. civ.), ha correttamente rigettato la domanda, non dando rilievo ai vizi della cosa (infiltrazioni derivanti dalla struttura e dalle modalità costruttive dell'immobile locato), che sarebbero stati rilevanti solo in presenza di azione ex art. 1578 cod. civ..

Cass. civ. Sez. III, Sent., 14-03-2013, n. 6580


L'ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata per la diffamazione a mezzo stampa


La censura è infondata. Il collegio intende dare continuità all'orientamento già espresso (Cass. Sez. 3, n. 6490 del 2010) secondo cui la L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12 nel prevedere una ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata per la diffamazione a mezzo stampa, non è suscettibile di applicazione analogica a casi diversi da quelli espressamente contemplati; conseguentemente, in mancanza di un espresso richiamo alla suddetta disposizione da parte della L. 7 agosto 1990, n. 223, che disciplina i reati commessi con il mezzo televisivo, non è applicabile a questi ultimi.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 14-03-2013, n. 6579


I libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione


I suddetti motivi si esaminano congiuntamente, perchè esprimono un'unica sostanziale censura e, cioè, che il giudice di appello abbia fatto erronea applicazione dell'art. 2710 cod. civ. da riferirsi alle scritture contabili provenienti dalla parte creditrice, anzichè applicare l'art. 2709 cod. civ., regolante gli effetti delle scritturazioni contro l'imprenditore, aventi (in tesi) valore di "prova piena", siccome riconducibili nell'ambito normativo del riconoscimento di debito.

I motivi all'esame non meritano accoglimento, ancorchè la motivazione della decisione impugnata debba essere integrata e corretta ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 4, laddove richiama l'art. 2710 cod. civ., che, nei rapporti tra imprenditori, riconosce alle scritture contabili una presunzione di attendibilità anche a favore della parte che le ha redatte, mentre, nella fattispecie, l'opposta-ingiungente reclamava la prova contro l'imprenditore delle risultanze di bilancio dal medesimo approvate.

L'erronea indicazione normativa risulta, però, inidonea a travolgere la decisione, atteso che l'art. 2709 cod. civ., nello statuire che i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l'imprenditore, pone una presunzione semplice di veridicità, a sfavore di quest'ultimo; pertanto, tali scritture, come ammettono la prova contraria, così possono essere liberamente valutate dal giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento probatorio, ed il relativo apprezzamento sfugge al suindicato di legittimità, se sufficientemente motivato (Cass. 22 maggio 2009, n. 11912; Cass. 25 marzo 2003, n.4329). In particolare questa Corte ha escluso che le suddette scritture possano ricondursi all'ambito dell'art. 2730 cod. civ., non consistendo necessariamente nella dichiarazione di fatti sfavorevoli al dichiarante e non essendo rivolte ad un'altra parte, precisando che ad esse non può neppure assegnarsi valore di presunzione assoluta, giacchè la ratio della norma di cui all'art. 2709 cod. civ. non si riconnette ad un interesse generale preclusivo della prova contraria, in mancanza del quale le presunzioni deve ritenersi abbiano sempre valore di presunzione relativa, così da essere compatibili con i principi e le garanzie sancite dagli artt. 3 e 24 Cost. (cfr. sent. n. 11912/2009 cit. in motivazione). Ne consegue che la prova che il bilancio di una società di capitali, regolarmente approvato, al pari dei libri e delle scritture contabili dell'impresa soggetta a registrazione (art. 2709 cod. civ.), fornisce in ordine ai debiti della società medesima, è affidata alla libera valutazione del giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento acquisito agli atti di causa (Cass. 26 marzo 1983, n. 2148).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 14-03-2013, n. 6547


Domanda di adempimento del contratto, di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno


Il Collegio ritiene fondato il motivo di ricorso all'esame, in applicazione della consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui l'art. 1453 cod. civ., comma 2, deroga alle norme processuali che vietano la mutatio libelli nel corso del processo, nel senso di consentire la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, non già anche con quella di risarcimento del danno (fatto "salvo in ogni caso" dal comma 1), la quale integra un'azione del tutto diversa per petitum dalle altre due, con la conseguenza che urta contro tale divieto, e quindi è inammissibile, la domanda risarcitoria introdotta in corso di causa, in luogo di quella (iniziale) di adempimento (Cass. 16 giugno 2009, n. 13953; Cass. 27 marzo 2004 n. 6161; Cass., 30 marzo 1984, n. 2119; cfr. anche sulla insostituibilità della domanda di risoluzione per inadempimento a quella originaria di risarcimento del danno Cass. 27 luglio 2006 n. 17144; Cass. 26 aprile 1999, n. 04164). Ancora di recente - con riferimento ad un caso in cui era stata introdotta una domanda giudiziale per ottenere il trasferimento, ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., dell'immobile promesso in vendita ed il risarcimento dei danni derivanti dal ritardo con cui si conseguiva il bene e, poi, a fronte della riconvenzionale di risoluzione avanzata dalla controparte, era stata chiesta in via subordinata la risoluzione del contratto preliminare di vendita ed il risarcimento dei danni - è stata ritenuta ammissibile, per il disposto di cui all'art. 1453 cod. civ., la domanda di risoluzione in luogo dell'adempimento, ma non anche quella ulteriore di risarcimento, avente causa petendi e petitum diversi da quella originari, affermandosi il principio che la deroga al divieto di mutatio libelli, consentito dalla norma cit. non si estende alle domande di risarcimento consequenziali, rispettivamente, a quelle di adempimento e di risoluzione (cfr. Cass. 23 gennaio 2012, n. 870).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 14-03-2013, n. 6545


L'onere autocertificativo ai fini delle spese ex art. 152 disp. att.


Il ricorso è manifestamente fondato alla stregua della giurisprudenza di questa S.C. (cfr. Cass. 12.5.09 n. 10875), cui va data continuità, secondo la quale i testuali riferimenti normativi (che si leggono nell'art. 152 disp. att. c.p.c.) all'anno precedente a quello di instaurazione del giudizio e alle conclusioni dell'atto introduttivo, nonchè il previsto necessario impegno di comunicare le variazioni reddituali rilevanti fino a che il processo non sia definito (e non già fino alla conclusione del relativo grado di giudizio), stanno ad indicare che l'onere autocertificativo imposto alla parte ricorrente deve essere assolto con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ed esplica la propria efficacia anche nei gradi successivi, valendo, fino all'esito definitivo del processo, l'impegno di comunicare le variazioni reddituali eventualmente rilevanti.

Cass. civ. Sez. VI - Lavoro, Ord., 13-03-2013, n. 6403


Notifica al legale rapp.te della società per posta con consegna a persona di famiglia


A conclusione della parte espositiva del motivo, la ricorrente sottopone a questa Corte il quesito di diritto così testualmente formulato: "E' valida la notificazione di un ricorso introduttivo di causa di lavoro eseguita per posta al legale rappresentante della società datrice di lavoro convenuta, ai sensi del novellato art. 145 c.p.c., comma 1, quando la consegna del plico sia stata effettuata alla madre convivente nel luogo di residenza del legale rappresentante e sia stato omesso ogni avviso al destinatario mediante raccomandata a.r. circa l'avvenuta notificazione dell'atto?".

Osserva il Collegio che la tesi proposta non può trovare accoglimento. Va anzitutto chiarito che l'art. 145 c.p.c., nel testo introdotto nel 2006, applicabile ratione temporis, dispone al suo primo comma, che "La notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile in cui è la sede. La notificazione può anche essere eseguita, a norma degli artt. 138, 139 e 141, alla persona fisica che rappresenta l'ente qualora nell'atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale.

Chiarisce, poi, al comma 3, - dopo avere fatto riferimento al suo secondo comma, alla notificazione alle società non aventi personalità giuridica, alle associazioni non riconosciute e ai comitati di cui all'art. 36 cod. civ., e segg. - che "Se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, la notificazione alla persona fisica indicata nell'atto, che rappresenta l'ente, può essere eseguita anche a norma degli artt. 140 o 143".

Come rimarcato da questa Corte, la riforma operata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2 - in vigore dal 1-3-2006 ed applicabile ai procedimenti instaurati successivamente a tale data - modificando la norma in esame, ha previsto non più in via residuale, ma in via alternativa la possibilità di notificare l'atto destinato ad un ente (società, associazione, fondazione...), anche se non dotato di personalità giuridica, alla persona che lo rappresenta (purchè ne siano indicati nell'atto la qualità, la residenza, il domicilio o la dimora abituale) secondo le modalità di notificazione disciplinate, per le persone fisiche, dagli artt. 138, 139, 141 (ex plurimis, Cass. n. 22957/2012).

Nel caso in esame, dunque, risalendo il ricorso introduttivo a data posteriore al 1-3-2006- correttamente detto ricorso è stato notificato alla società, presso il luogo di residenza della persona che rappresenta la società, nella specie la signora G. V., quale A.U. della CCM., anche se non a mani della stessa, bensì alla madre convivente della destinataria.

Ritiene il Collegio che tale circostanza non rileva ai fini della ritualità della notifica.

Invero - come chiarito da questa Corte - in virtù del principio di immedesimazione organica, la notifica di un atto giudiziario nei confronti delle persone giuridiche può avvenire mediante consegna a mani del rappresentante legale, o della persona addetta alla ricezione degli atti, in applicazione del disposto di cui all'art. 138 cod. proc. civ., in forza del quale la consegna a mani proprie si considera valida ovunque sia stato reperito il destinatario, tenuto conto che una siffatta interpretazione trova conforto nella vigente formulazione dell'art. 145 cod. proc. civ. (come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2) che si ispira proprio alla "ratio" del principio immedesimazione organica là dove prevede, appunto, che la notificazione "può anche essere eseguita, a norma degli artt. 138, 139 e 141, alla persona fisica che rappresenta l'ente qualora nell'atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale" (cfr. Cass. n. 19468/2007).

Dalla lettura dell'art. 145 c.p.c. appare evidente che i limiti posti dal legislatore (con il richiamo agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.) si riferiscono ai luoghi della notifica, ai soggetti cui l'ufficiale giudiziario può legittimamente consegnare l'atto da notificare e non invece alle modalità della notifica (a mani o per mezzo del servizio postale).

Ciò significa che la notifica in questione poteva essere eseguita a mezzo del servizio postale e che il ricorso di prime cure ben poteva essere consegnato a persona della famiglia (nella specie alla madre convivente del legale rappresentante) ai sensi del richiamato art. 139 c.p.c., considerato oltretutto che l'art. 149 c.p.c., dispone che la notificazione può eseguirsi anche a mezzo del servizio postale, se non è fatto espresso divieto dalla legge, divieto che nel caso di specie non ricorre.

Del resto questa Corte in analoga fattispecie ha chiarito che, in tema di notificazione per mezzo del servizio postale, secondo la previsione dell'art. 149 cod. proc. civ., qualora la consegna del piego raccomandato sia avvenuta a mani di un familiare convivente con il destinatario, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 2, deve presumersi che l'atto sia giunto a conoscenza dello stesso, restando irrilevante ogni indagine sulla riconducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall'art. 139 cod. proc. civ., in quanto il problema dell'identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell'atto, con la conseguente rilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l'onere di fornire.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-03-2013, n. 6345


La sospensione dei termini processuali


Il motivo è manifestamente infondato.

La L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 3, stabilendo che la sospensione dei termini processuali dal 1 agosto al 15 settembre non si applica, tra le altre, alle controversie previste dall'art. 429 cod. proc. civ. (sostituito dall'art. 409 per effetto della L. 11 agosto 1973, n. 533, art. 1), si riferisce alle controversie individuali di lavoro e non, invece, a tutte le controversie che sono regolate con il rito del lavoro, richiamandosi tale norma alla natura della causa e non al rito da cui essa è disciplinata (Cass. civ. 25 febbraio 1994 n. 1931; Cass. civ. 13 maggio 2010 n. 11607, fra le tante).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-03-2013, n. 6300


Mandato alle liti conferito a più difensori


Ora, il collegio non ignora che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, il mandato alle liti conferito a più difensori si presume, in difetto di espressa e inequivoca volontà di segno contrario, disgiunto, di talchè non è nulla la comunicazione - o la notificazione - ad uno soltanto di essi del provvedimento del giudice o dell'impugnazione della controparte (confr. Cass. civ. 29 marzo 2007, n. 7697; Cass. civ. 17 giugno 2004, n. 11344; Cass. civ. 23 gennaio 2004, n. 1168).

Nella fattispecie, tuttavia, dall'esame degli atti, direttamente effettuato dal collegio, in applicazione del principio per cui il giudice di legittimità è giudice anche del fatto quando venga in rilievo la violazione di una norma processuale, è emerso che, pur essendo menzionati, nella intestazione della comparsa di intervento in data 19 ottobre 1985, sia l'avvocato A. A., sia l'avvocato N. V., il mandato ad litem venne conferito, in realtà, al solo avvocato A., di talchè la notifica eseguita presso lo studio professionale di N. V., alla via P. C. 24, del Comune di M., è tamquam non esset. E ciò tanto più che, non essendosi gli appellati costituiti in giudizio, neppure possono porsi problemi di qualificazione del vizio in termini di nullità o di inesistenza e di sanatoria dello stesso.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-03-2013, n. 6294


La rescissione del contratto ad esecuzione periodica o continuativa


Con il quarto motivo deduce: "Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione, e falsa applicazione dell'art. 828 c.p.c., comma 2, art. 1448 c.c., Art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio", e conclude con il seguente quesito di diritto: "Se in ipotesi di rescissione del contratto ad esecuzione periodica o continuativa le cui prestazioni per loro natura non possono essere più reciprocamente restituite, come nel contratto di locazione, l'effetto restitutorio si estenda anche alle prestazioni eseguite o vada invece applicata la regola dell'art. 1458 c.c.".

Il motivo è infondato.

Correttamente infatti la Corte di merito ha applicato il principio secondo il quale la pronuncia di rescissione produce l'effetto liberatorio ex nunc delle prestazioni non ancora eseguite e l'effetto restitutorio delle prestazioni già eseguite per la parte in eccesso rispetto alla controprestazione perchè il vizio rescissorio incide sulla causa del negozio, mentre nella risoluzione per inadempimento, che incide sul rapporto, la pronuncia restitutoria non può retroagire oltre l'inadempimento.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-03-2013, n. 6284


La querela di falso in Cassazione


Preliminarmente va rilevata l'inammissibilità della querela di falso in ragione del costante orientamento di questa Corte secondo cui "la querela di falso è proponibile in via incidentale nel giudizio di cassazione, dando luogo alla sua sospensione, solo quando riguardi atti dello stesso procedimento di cassazione (il ricorso, il controricorso e l'atto-sentenza) o i documenti di cui è ammesso, nel suddetto procedimento, il deposito ai sensi dell'art. 372 cod. proc. civ., e non anche in riferimento ad atti del procedimento che si è svolto dinanzi al giudice del merito e la cui falsità vuole essere addotta per contestare il vizio di violazione di norme sul procedimento in cui sia incorso il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata" (Cass. n. 986 del 2009; v. anche Cass. nn. 11434 del 2007 e 8306 del 2011).

Cass. civ. Sez. V, Sent., 13-03-2013, n. 6270









La difesa facoltativa di enti da parte dell'Avvocatura dello Stato


Nel motivo di ricorso principale è dedotta, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del principio desumibile dal R.D. n. 1611 del 1933, artt. 1 e 43, del D.P.R. n. 30 del 1985 , art. 5, n. 21 e art. 75 c.p.c., nell'interpretazione datane dalla Corte di cassazione, secondo cui non è richiesta una delibera di conferimento della procura ad litem all'Avvocatura generale dello Stato, atteso che il consenso al promuovimento della lite da parte del consiglio di amministrazione costituisce atto interno dell'ente e non rilevante all'esterno.

Il motivo è fondato.

E' giurisprudenza costante di questa Corte che "non solo nell'ipotesi di rappresentanza obbligatoria (come per l'AIMA: cfr. Cass. 14375/00), ma anche in quelle di rappresentanza e difesa facoltativa di enti da parte dell'Avvocatura dello Stato non è necessario che, nei singoli giudizi, l'ente rilasci uno specifico mandato all'Avvocatura medesima nè che questa produca il provvedimento del competente organo dell'ente recante l'autorizzazione del legale rappresentante ad agire od a resistere in causa, escludendo il R.D. n. 1611 del 1933, artt. 1 e 45, che l'Avvocatura necessiti di alcuna forma di mandato ed essendo eventuali divergenze tra organi, sulla opportunità di promuovere la lite o di resistere a lite da altri proposta, impedite o composte intra moenia dalla previsione della L. n. 103 del 1979, art. 12, sì che la stessa assunzione di iniziativa giudiziaria, anche nella forma dell'impugnazione, da parte dell'Avvocatura dello Stato con riguardo a tali organi od enti, comporta la presunzione juris et de jure di esistenza di un valido consenso e di piena validità dell'atto processuale compiuto e lascia nell'ambito del rapporto interno le questioni attinenti alla inosservanza di regole (nella specie contenute in uno statuto approvato con D.P.R.) di formazione del consenso stesso" (Cass. n. 4564/2003; conf. n. 17991/2005, n. 22021/2005, n. 11573/2008).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-03-2013, n. 6228