20 febbraio 2013

Responsabilità dei Giudici (2)


La L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, commi 2 e 3 statuisce che: "2. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto nè quella di valutazione del fatto e delle prove.

Costituiscono colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione".

In tema di responsabilità civile dei magistrati, la L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2 nel fissare - a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 5, comma 3, della stessa Legge - i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, esclude che possa dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova. La clausola di salvaguardia riconducibile a quest'ultima esclusione prevista nel citato art. 2 non tollera letture riduttive perchè giustificata dal carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria e - come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 19 gennaio 1989 - attuativa della garanzia costituzionale dell'indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio (Cass. n. 25123 del 27/11/2006).

Va ricordato che per pacifica giurisprudenza di questa Corte la responsabilità prevista dalla L. n. 117 del 1988 è incentrata sulla colpa grave del magistrato tipizzata secondo ipotesi specifiche riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile (Cass. 20.3.1999, n. 2201), di tal che occorre un "quid pluris" rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 c.c. nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile" e, cioè, senza agganci con le particolarità della vicenda idonee a rendere comprensibile anche se non giustificato l'errore del magistrato (Cass. 6.11.1999, n. 12357, in motivazione).

In particolare, per quanto concerne la fattispecie di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. a) va rilevato che la negligenza inescusabile si sostanzia nella violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma, mentre resta nell'area dell'esenzione da responsabilità la lettura della legge secondo uno dei significati possibili quando dell'opzione interpretativa sia dato conto;

pertanto, una lettura non corretta della legge o una errata applicazione di essa normalmente non comportano responsabilità del magistrato.

L'art. 2, comma 3, lett. b) considera il caso in cui il giudice affermi un fatto incontrastabilmente escluso dagli atti del procedimento, e, quindi, attribuisce rilevanza (sempre che sia determinato da inescusabile negligenza) all'errore "revocatorio" consistente nella supposizione di una circostanza fattuale la cui inesistenza sia chiaramente evidenziata dalle risultanze acquisite.

Ne consegue che detta norma non è invocabile nella diversa ipotesi nella quale il giudice ritenga il verificarsi di una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, poi infirmati dalla acquisizione di dati ulteriori (Cass. n. 6950 del 1999). Va, pertanto, ravvisato l'errore rilevante ai sensi delle lett. b) e c), ove il giudice abbia posto a fondamento del suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di riferimento (Cass. 29.9.2002, n. 16935); al contrario, il detto errore va escluso, ove il giudice abbia ritenuto una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti ovvero sulla scorta di elementi insufficienti che, però, abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tale caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti (Cass. 20.9.2001, n. 11880, in motivazione).

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 27-12-2012, n. 23979

Responsabilità dei Giudici (1)


Va osservato preliminarmente che la L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 4 al comma 1 statuisce che: "L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente è il tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'articolo 11 del codice di procedura penale e dell'articolo 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271".

L'art. 11 c.p.p., comma 1 statuisce che: "I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge". La competenza è determinata per il giudizio di responsabilità civile dei magistrati negli stessi termini in cui lo è in tema di domanda di equa riparazione della L. n. 89 del 2001, ex art. 3 per la quale è egualmente competente il giudice determinato a norma dell'art. 11 c.p.p..

Entrambe le disposizioni hanno conosciuto un'interpretazione che ne ha progressivamente ristretto l'ambito di applicazione ai soli casi di giudizio presupposto svoltosi davanti ai giudici ordinari di merito, per il resto dando spazio alle regole processuali di diritto comune (così, tra le altre, Cass. 5317 del 2008, 4480 del 2006, 11300 del 2004; 6551 del 2005; 3243 del 1996). Si è infatti ritenuto (Cass. 16.5.2005, n. 10191) che la competenza territoriale per la trattazione di siffatti ricorsi per giudici non ordinari o non articolati su base distrettuale (giudici amministrativi, contabili e corte di cassazione), deve essere individuata non già secondo il criterio della corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente, ai sensi dell'art. 11 cod. proc. pen., ma in base ai principi generali e, quindi, con riferimento all'art. 25 cod. proc. civ., per cui la competenza appartiene inderogabilmente alla corte d'appello nel cui distretto si trova il luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione. Ne consegue che il giudice territorialmente competente va individuato sulla base del luogo in cui si è consumato il fatto di responsabilità assunta, ovvero nel luogo in cui l'obbligazione deve essere eseguita, che si identifica, sulla base delle norme in tema di contabilità pubblica (del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 54, comma 1, lett. d in relazione al R.D. 23 maggio 1924, n. 827, artt. 278, 287 e 407), in quello della tesoreria provinciale nella cui circoscrizione ha domicilio il creditore.

Sennonchè le S.U. di questa Corte hanno rivisitato la suddetta interpretazione restrittiva della competenza per territorio, relativamente alla L. 24 marzo 2004, n. 89, art. 3 ed hanno statuito che "Ai fini dell'individuazione del giudice territorialmente competente in ordine alla relativa domanda, il criterio di collegamento stabilito dall'art. 11 cod. proc. pen., va applicato con riferimento al luogo in cui ha sede il giudice di merito, ordinario o speciale, dinanzi al quale ha avuto inizio il giudizio presupposto, anche nel caso in cui un segmento dello stesso si sia concluso dinanzi alla Corte di cassazione, non ostandovi, sul piano lessicale, il termine "distretto" adoperato nell'art. 3 cit., il quale appartiene alla descrizione del criterio di collegamento e vale a delimitare un ambito territoriale in modo identico, quale che sia l'ufficio giudiziario dinanzi al quale il giudizio presupposto è iniziato e l'ordine giudiziario cui appartiene, in quanto ciò che viene in rilievo non è l'ambito territoriale di competenza dell'ufficio giudiziario, ma la sua sede." Il principio, con il relativo percorso argomentativo va adottato anche in tema di individuazione della competenza L. n. 117 del 1998, ex art. 4 che egualmente rinvia all'art. 11 c.p.p., con l'unico adattamento, pure intuito dal ricorrente, per cui non occorre aver riguardo all'intero processo, poichè non si versa in ipotesi di processo non conclusosi in termini di ragionevole durata (oggetto dell'equa riparazione), ma solo al segmento processuale in cui si è verificato il fatto di responsabilità per dolo o colpa grave, poichè solo questo è l'oggetto dell'azione ex L. n. 117 del 1988, ex art. 4.

[...]

Non è giustificato ipotizzare che il legislatore il quale affida ad una legge destinata a regolare la responsabilità civile di "tutti gli appartenenti alla magistratura ordinaria, amministrativa contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria indipendentemente dalla natura delle funzioni" (art. 1) abbia espresso la volontà di statuire una diversità di disciplina della competenza mediante l'impiego della parola "distretto" anzichè con una specifica disposizione intesa a far salva l'applicazione della norma processuale civile.

Quindi, condividendo l'interpretazione resa da S.U. n. 6307/2010, per cui la ratio del rinvio recettizio al criterio dei cui all'art. 11 c.p.p. nell'individuazione del giudice competente è nel senso che i giudici ordinali che debbono decidere non siano prossimi a quelli speciali davanti ai quali il fatto di responsabilità si è verificato, e che dell'ufficio giudiziario viene in rilievo la sede e non l'ambito territoriale di competenza, deve affermarsi che il criterio di collegamento di cui all'art. 11 c.p.p., richiamato dalla L. n. 117 del 1988, art. 4 opera nei confronti di tutti i magistrati, ivi compresi quelli delle istituzione di vertice (Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti), atteso che tutti (anche quelli che non hanno un "distretto" di appartenenza) operano comunque di fatto in una sede, quale ambito territoriale, rispetto alla quale resta pur sempre possibile individuare la diversa sede ai sensi dell'art. 11 c.p.c..

Nella fattispecie, quindi, correttamente la corte di appello di Bari ha ritenuto che non sia competente il tribunale di quella sede - a norma della L. n. 117 del 1988, art. 4 - a giudicare sulla dedotta responsabilità civile dei magistrati del Consiglio di Stato, aventi sede in Roma.

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 27-12-2012, n. 23977


Notifica - la mancata produzione dell'avviso di ricevimento


Preliminarmente, va rilevata l'inammissibilità del ricorso per il mancato perfezionamento della notificazione a mezzo del servizio postale, determinato dalla mancata produzione dell'avviso di ricevimento.

Al riguardo, va considerato che la notifica a mezzo del sevizio postale non si esaurisce con la spedizione dell'atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario, e l'avviso di ricevimento prescritto dall'art. 149 c.p.c., è il solo documento idoneo a provare sia l'intervenuta consegna, sia la data di essa, sia l'identità della persona a mani della quale è stata eseguita; ne consegue che, ove tale mezzo sia stato adottato per la notifica del ricorso per cassazione, la mancata produzione dell'avviso di ricevimento comporta non la mera nullità, bensì l'inesistenza della notificazione (della quale, pertanto, non può essere disposta la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 c.p.c.) e l'inammissibilità del ricorso medesimo (cfr. ex multis Cass. n. 70/2002, Cass. n. 8720/2003, Cass. n. 11257/2003, Cass. n. 2900/2004, cui adde Cass. n. 13639/2010), mentre, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002, soltanto gli effetti interruttivi per il notificante si verificano con la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario (sempre che poi la notificazione si perfezioni).

Cass. civ. Sez. VI - Lavoro, Ord., 27-12-2012, n. 23942


Execptio non rite adempleti contractus


La legittimità dell'eccezione sollevata da una parte contrattuale di non adempiere, in caso in cui la prestazione dell'altra parte sia stata adempiuta ma in modo inesatto è ormai affermazione costante in dottrina e in giurisprudenza.

Tale eccezione di contratto non esattamente adempiuto (execptio non rite adempleti contractus) al pari dell'eccezione inadimplenti non est adimplendum, cioè all'inadempiente non è dovuto l'adempimento, è prevista e/o è riconducibile allo stesso art. 1460 cod. civ..

Tale principio consente di apprezzare l'affermazione della Corte veneziana per aver ritenuto che il comportamento delle promissarie acquirenti fosse discriminato dall'execptio non rite adempleti contractus, considerato che gravava sulla venditrice il rischio che l'immobile di cui si dice non potesse assolvere la funzione economico giuridica, indipendentemente dalla circostanza che lo stesso bene fosse di fatto utilizzato. Il mancato ottenimento dell'agibilità dell'immobile promesso in vendita non solo era imputabile alla promittente venditrice, ma rendeva l'immobile giuridicamente non idoneo ad essere destinato alla fruibilità per cui era sorto, considerato che la negata agibilità derivava dall'inesistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati.

Il rilievo secondo cui le promissarie acquirenti non avessero mai presentato alcuna istanza di agibilità per la porzione del capannone di cui è causa, in questa sede non ha "pregio" e soprattutto a fronte dell'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui "(...) emerge che la successiva richiesta della proprietaria, del gennaio 1994, sempre finalizzata all'ottenimento dell'agibilità fu riscontrata dal sopraluogo seguito da funzionari dell'Ufficio tecnico Comunale evidenziante le difformità già ricordate ed accompagnato dalla proposta di demolizione per la porzione difforme dal provvedimento confessorie ma di rilascio dell'autorizzazione richiesta limitatamente sub del manufatto; è significativo al riguardo sottolineare come mentre la suggerita ordinanza di demolizione fu di seguito emessa dal sindaco, non trovò invece accoglimento la proposta di riconoscere l'agibilità parziale del capannone, neppure allorquando l'amministrazione comunale risultò disciolta e subentrato il Commissario straordinario".

Cass. civ. Sez. II, Sent., 27-12-2012, n. 23926


Il diritto alla bigenitorialità


Il ricorso non merita accoglimento. In ordine al primo motivo, deve rilevarsi che, all'interno del sistema costituzionale e convenzionale dei diritti fondamentali del minore, assume primario rilievo il diritto alla bigenitorialità come ineliminabile codice costitutivo della sua identità, oltre che come garanzia di uno sviluppo e di una crescita caratterizzati dall'apporto assistenziale ed educativo di entrambi i genitori. Lo sviluppo armonico della personalità del minore è fortemente influenzato dalla graduale costruzione di una precisa identità personale, di cui costituisce fattore determinante la genitorialità biologica. Per queste ragioni, il diritto del genitore ad essere autorizzato al riconoscimento del figlio naturale (in caso di dissenso dell'altro genitore), costituzionalmente fondato sull'art. 30 Cost., non si pone in contrapposizione, ma come misura ed elemento di definizione del correlato diritto del minore, "atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere, così, una precisa e completa identità" (Cass. n. 2878 del 2005). Il contesto costituzionale, convenzionale (art. 7 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nel quale è stabilito che il minore, nella misura del possibile, ha il diritto di conoscere i suoi genitori ed essere allevato da essi;

l'art. 24 della Carta Europea dei diritti fondamentali che richiama la necessità di dare preminenza all'interesse superiore del minore) ed interno (art. 250 cod. civ., comma 4, secondo il quale il consenso non può essere rifiutato se corrisponde all'interesse del minore) di tutela di questo diritto si completa, tuttavia, con la previsione del limite, non valicabile, dell'interesse del minore, al quale, solo se necessario, può essere sacrificato il diritto alla bigenitorialità.

Tale limite, nel consolidato e costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, è individuato nel pericolo "di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore correlato alla pura e semplice attribuzione della genitorialità" (Cass. n. 2645 del 2011), fondato su "comprovati motivi seri ed irreversibili"(Cass. n. 2878 del 2005). Alla luce di tale rigorosa e circoscritta determinazione del grado di compromissione dell'interesse del minore, è stato escluso il sacrificio del diritto al riconoscimento del figlio naturale nell'ipotesi di mera pendenza di un procedimento penale (Cass. n. 2645 del 2011) salvo che il richiedente non sia stabilmente inserito nella criminalità organizzata e sia detenuto per gravi reati, in ragione delle connotazioni fortemente negative sulla personalità del minore che tale ambiente può determinare (Cass. n. 23074 del 2005). La sentenza impugnata, contrariamente a ciò che afferma il ricorrente, ha esattamente inquadrato la propria decisione all'interno degli orientamenti soprarichiamati, ponendo al centro della sua valutazione il diritto del minore all'acquisizione dell'identità personale "nella sua integrale ed effettiva connotazione psicofisica, come figlio di una madre e di un padre determinati". Partendo da questa esatta prospettazione dei diritti in gioco ha ritenuto che il quadro della personalità del richiedente così come emerso dalle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, espletata nel primo grado del giudizio, non fosse ostativo all'accoglimento della domanda, in quanto la sintomatologia riscontrata sul richiedente non è risultata incompatibile con l'esistenza e la possibilità di sviluppo di capacità genitoriali.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 27-12-2012, n. 23913


Errore della parte causato da consolidata giurisprudenza - overruling - rimessione in termini


...che, conclusivamente, deve essere affermato il seguente principio di diritto, in continuità con l'indirizzo inaugurato da Cass., Sez. 2, 17 giugno 2010, n. 14627: "Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, va escluso che abbia rilevanza preclusiva l'errore della parte la quale abbia fatto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata, al tempo della proposizione dell'impugnazione, giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, e che la sua iniziativa possa essere dichiarata inammissibile o improcedibile in base a forme e termini il cui rispetto, non richiesto al momento del deposito dell'atto di impugnazione, discenda dall'overruling; il mezzo tecnico per ovviare all'errore oggettivamente scusabile è dato dal rimedio della rimessione in termini, previsto dall'art. 184-bis cod. proc. civ. (ratione temporis applicabile), alla cui applicazione non osta la mancanza dell'istanza di parte, dato che, nella specie, la causa non imputabile è conosciuta dalla corte di cassazione, che con la sua stessa giurisprudenza ha dato indicazioni sul rito da seguire, ex post rivelatesi non più attendibili";

Cass. civ. Sez. II, Ord., 21-12-2012, n. 23836


Questioni di competenza


Costituisce ius reception che in tema di competenza territoriale nelle cause relative a diritti di obbligazione, la disciplina di cui all'art. 38 cod. proc. civ., come modificato dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 4 - la quale, innovando il testo previgente, dispone che l'incompetenza per territorio fuori dei casi previsti nel precedente art. 28 venga, eccepita "a pena di decadenza" nella comparsa di risposta e, confermando il precedente dettato normativo, impone di considerare l'eccezione come "non proposta se non contiene l'indicazione del giudice competente" - comporta che il convenuto sia tenuto ad eccepire l'incompetenza per territorio del giudice adito con riferimento a tutti i concorrenti criteri previsti dagli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ., indicando specificamente in relazione ai criteri medesimi quale sia il giudice che ritiene competente, senza che, vetrificatasi la suddetta decadenza o risultata comunque inefficace l'eccezione, il giudice possa rilevare d'ufficio profili di incompetenza non proposti, restando la competenza del medesimo radicata in base al profilo non (o non efficacemente) contestato (ex plurimis Cass. 18 febbraio 2011, n. 3989).

In particolare, allorquando nelle controversie in materia di obbligazioni, sia convenuta una persona fisica, la contestazione da parte di quest'ultima della sussistenza del foro del giudice adito e la conseguente necessaria indicazione del giudice competente deve essere svolta con riferimento, oltre che ai fori speciali concorrenti, di cui all'art. 20 cod. proc. civ., anche in riferimento ad entrambi i fon generali di cui al precedente art. 18, cioè sia con riguardo alla residenza che al domicilio, poichè quest'ultimo ha consistenza di criterio di collegamento autonomo rispetto a quello della residenza. Peraltro, il convenuto non è esentato dal suddetto onere neppure in caso di indicazione, nella citazione, della sua residenza ovvero del suo domicilio in un luogo non riconducibile alla giurisdizione territoriale del giudice, sia perchè nella prima ipotesi l'individuazione della residenza non può lasciar presumere la coincidenza con essa del domicilio (atteso che l'art. 163 c.p.c., n. 2, prevede l'indicazione alternativa dell'una e dell'altro), sia perchè in entrambe le ipotesi il comma 2, secondo inciso, art. 38 cod. proc. civ. esclude ogni operatività del principio di ammissione, onerando il convenuto eccipiente in ogni caso di una specifica contestazione, là dove gli impone di indicare il giudice competente e, quindi, in caso di concorrenza di fori, di contestare ed indicare tutti i fori possibilmente concorrenti. (Cass. civ. ord., 22 novembre 2007, n. 24277).

Per le medesime ragioni, allorquando sia convenuta una persona giuridica - poichè l'art. 19 cod. proc. civ., non diversamente da quanto fa l'art. 18 per le persone fisiche, indica due possibili fon generali concorrenti, quello della sede e quello dello stabilimento con rappresentante autorizzato a stare in giudizio - l'onere di contestazione del foro generale deve articolarsi in riferimento sia all'uno che all'altro. Anche con riguardo ai fori generali di cui all'art. 19 cod. proc. civ. questa Corte ha precisato - con argomentazioni analoghe a quelle svolte con riferimento ai fori generali di cui all'art. 18 cod. proc. civ. nella cit. sentenza n. 24277 del 2007 - che l'onere di contestazione del convenuto del foro della competenza territoriale e segnatamente dei fori generali di cui all'art. 19, non dipende dall'esservi stata un'allegazione dell'attore in proposito, come si desume agevolmente dalla circostanza che l'art. 163 c.p.c., comma 3, n. 2, nemmeno esige che nel contenuto della citazione sia indicata la sede della persona giuridica o lo stabilimento cui allude l'art. 19 (Cass. ord. 29 agosto 2008, n. 21899).

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 21-12-2012, n. 23748


Nulli per illiceità della causa gli accordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale. Ma non tutti


Come è noto, la giurisprudenza è orientata a ritenere tali accordi, assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, e in vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perchè in contrasto con ì principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (per tutte, Cass. N. 6857 del 1992). Tale orientamento è criticato da parte della dottrina, in quanto trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia, ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomìa ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale. (E' assai singolare che invece siano stati ritenuti validi accordi in vista di una dichiarazione di nullità del matrimonio, perchè sarebbero correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare l'esistenza o meno di una causa di invalidità del matrimonio, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre, Cass. N. 348 del 1993).

Giurisprudenza più recente di questa Corte ha invece sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sè contrari all'ordine pubblico: più specificamente il principio dell'indisponibilità preventiva dell'assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, e l'azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, tra le altre, Cass. N. 8109 del 2000; n. 2492 del 2001; n. 5302/2006).

Va peraltro precisato che la sentenza impugnata, sorretta da motivazione ampia, articolata e non illogica, ha fornito un preciso inquadramento della scrittura privata in esame. Si tratta, all'evidenza, di valutazione di merito, insuscettibile di controllo in questa sede, ove immune da errori di diritto.

L'impegno negoziale della P., una sorta di datio in solutum, viene collegato alle spese affrontate dall'O. per la sistemazione di altro immobile adibito a casa coniugale, e il fallimento del matrimonio non viene considerato come causa genetica dell'accordo, ma è degradato a mero "evento condizionale". Prosegue la Corte di merito precisando che, ove causa genetica fosse il matrimonio (e il suo fallimento), l'impegno predetto, una sorta di sanzione dissuasiva volta a condizionare la libertà decisionale degli sposi anche in ordine all'assunzione di iniziative tendenti allo scioglimento del vincolo coniugale, sarebbe sicuramente nullo.

Ma indice di tale ipotesi potrebbe essere soltanto una notevole sproporzione delle prestazioni, al contrario non provata.

L'argomentazione è censurata dalla ricorrente, ma, al contrario, la Corte territoriale ha fatto buon uso delle regole di ermeneutica contrattuale, in particolare con riferimento all'art. 1363 c.c., per cui le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 21-12-2012, n. 23713


Tutela e curatela - amministratore di sostegno


Il ricorso espone censura priva di pregio.

La decisione impugnata ha assunto a dato dirimente, al fine della nomina dell'amministratore di sostegno designato dall'odierna ricorrente nella scrittura privata indicata in narrativa, la sussistenza della condizione attuale d'incapacità della designante, che consente l'attivazione della procedura e l'ingresso dell'istituto. Designato in vista di una probabile futura situazione d'incapacità o infermità, l'amministratore di sostegno va dunque nominato dal giudice nella persona indicata nell'atto, a meno di motivate gravi ragioni ostative, ma se e quando tale condizione si sarà verificata.

Siffatta conclusione non si presta a critica.

A lume del combinato disposto dell'art. 404 c.c., che prevede che "la persona che, per effetto di un'infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio", e del successivo art. 407 c.c., comma 1, secondo cui "il ricorso per l'istituzione dell'amministrazione di sostegno deve indicare le ragioni per cui si richiede la nomina dell'amministratore di sostegno", e comma 2, che stabilisce che "il giudice tutelare deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce e deve tener conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa", la procedura implica il manifestarsi della condizione d'infermità o incapacità della persona e l'insorgere coevo dell'esigenza di protezione cui è ispirata la ratio dell'istituto in discorso. La sua introduzione con la L. n. 6 del 2004, come già affermato da questa Corte con sentenza n. 13584/2006, mira infatti ad offrire uno strumento d'assistenza alla persona carente di autonomìa a causa della condizione d'infermità o incapacità in cui versa che, calibrato dal giudice tutelare rispetto al grado d'intensità di tale situazione, consente di escludere gli interventi più invasivi degli istituti tradizionali posti a tutela degli incapaci, quali l'interdizione e l'inabilitazione. L'intervento giudiziario, in coerenza con questa finalità, non può che essere contestuale al manifestarsi dell'esigenza di protezione del soggetto, dunque della situazione d'incapacità o infermità da cui quell'esigenza originacene, secondo il contesto normativo riferito, rappresenta presupposto dello stesso istituto e non già dei suoi soli effetti. Il provvedimento giudiziale, che, come previsto dal combinato disposto dell'art. 407 c.c., e art. 720 bis c.p.c., deve essere assunto all'esito del procedimento di volontaria giurisdizione cui sono connaturate trattazione sollecita e definizione allo stato, viene disposto "rebus sic stantibus", perciò all'attualità, in modo da salvaguardare, assunte le necessarie informazioni e sentiti i soggetti legittimati ai sensi dell'art. 406 c.c., ad attivare l'istituto, il diritto della persona alla tutela effettiva, necessaria in quel momento e in quella determinata situazione. In logica consecuzione, non ne è ammessa l'adozione ora per allora, in vista di una condizione futura.

La legittimazione a proporre il ricorso per l'introduzione dell'istituto che l'art. 406 c.c., attribuisce anche al beneficiario, nella prospettazione della tesi difensiva della ricorrente munita di decisivo rilievo, e soprattutto la facoltà concessa dall'art. 408 c.c., allo stesso interessato di designare l'amministratore di sostegno in previsione della propria futura incapacità, non interferiscono nè immutano il riferito quadro ricostruttivo, operando su piani distinti. Ed invero, la designazione "de futuro", che si esplica mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, resta circoscritta nell'ambito di un'iniziativa privata, i cui effetti si dispiegano sul medesimo piano privatistico dal momento che non postula l'intervento del giudice. Valida nel momento genetico, la sua funzione è però destinata a compiersi, mediante il dispiegarsi effettivo dei suoi effetti, al realizzarsi della condizione personale avuta presente, e nell'alveo del procedimento giurisdizionale conseguentemente attivato, attraverso la nomina conforme da parte del giudice tutelare.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 20-12-2012, n. 23707


La revisione dell'ordinamento disciplinare notarile: incostituzionale ?


Alla stregua delle riportate argomentazioni il collegio ritiene che la prospettata questione di costituzionalità involgente la L. n. 89 del 1913, art. 146, commi 1 e 2, come sostituito dalla D.Lgs. n. 249 del 2006, art. 29, in relazione all'art. 76 Cost., non sia manifestamente infondata in ordine al ravvisato eccesso di delega da parte del legislatore delegato, con riferimento ai principi e criteri direttivi definiti nella Legge Delega 28 novembre 2005, n. 246, art. 7, con particolare riferimento alla disposizione di cui al comma 1, lett. e), n. 3, riguardante la revisione dell'ordinamento disciplinare notarile mediante la "previsione della sospensione della prescrizione in caso di procedimento penale", che lo vincolavano, perciò, a legiferare entro questi ristretti limiti, senza il conferimento di un potere normativo delegato che potesse estendersi fino alla individuazione, in via generale, di una nuova disciplina dell'interruzione della prescrizione e dell'allungamento del termine della prescrizione stessa.

La questione di legittimità costituzionale è anche rilevante nel giudizio in questione dal momento che, ricadendo l'illecito disciplinare per il quale il ricorrente è stato sanzionato nell'ambito temporale di applicabilità del nuovo art. 146 della L. n. 89 del 1913 (essendo stato riportato in atti come commesso entro il dicembre 2007), l'eventuale declaratoria di incostituzionalità dei primi due commi dello stesso art. 146, come riformato con il D.Lgs. n. 249 del 2006, art. 29, comporterebbe, non applicandosi ipotesi interruttive e non tenendosi conto dell'allungamento del termine prescrizionale a cinque anni, che l'infrazione disciplinare (in virtù della reviviscenza del precedente disposto della L. n. 89 del 1913, art. 146, il quale prevedeva la durata della prescrizione in quattro anni senza contemplare ipotesi interruttive) si sarebbe già prescritta nel dicembre 2011, con la conseguenza che, nella presente sede di legittimità, dovrebbe pervenirsi (secondo la costante giurisprudenza di questa Corte) alla declaratoria di improcedibilità dell'azione disciplinare a carico del Dr. V. A..

Pertanto, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, bisogna disporre l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con la conseguente sospensione del presente giudizio e l'assolvimento degli adempimenti notificatori e di comunicazione prescritti dal comma 4 del citato art. 23.

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 20-12-2012, n. 23684


l'assegno di divorzio deve tendere a ricostituire il tenore di vita goduto dal coniuge in costanza di matrimonio


Va precisato che l'assegno di divorzio deve tendere a ricostituire il tenore di vita goduto dal coniuge in costanza di matrimonio. Indice di tale tenore di vita può essere il divario reddituale attuale tra i coniugi (per tutte, Cass. n. 2156 del 2010). Non si ravvisano violazioni di legge, del resto trattate nel ricorso in modo sommario ed inadeguato. Il ricorrente, in sostanza, propone profili di fatto, insuscettibili di controllo in questa seder a fronte di una sentenza caratterizzata da una motivazione adeguata e non illogica.

[...]

Va infine osservato che, come precisa giurisprudenza ampiamente consolidata (per tutte, Cass. n. 18433 del 2010), il regime economico di separazione non incide direttamente su quello di divorzio, in quanto i relativi assegni, per il coniuge hanno natura, caratteri, finalità sicuramente differenti.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 20-12-2012, n. 23651


Il carattere solidale dell'obbligazione risarcitoria non determina, sul piano processuale, litisconsorzio processuale


In tema di responsabilità da fatto illecito, peraltro, il carattere solidale dell'obbligazione risarcitoria, escludendo la configurabilità di un rapporto unico ed inscindibile tra tutti i soggetti che abbiano asseritamente concorso nella produzione del danno, comporta sul piano processuale l'autonomia delle domande cumulativamente proposte nei confronti degli stessi, la quale impedisce di ravvisare non solo un litisconsorzio necessario tra gli autori dell'illecito, ma anche un rapporto di dipendenza tra l'affermazione o l'esclusione della responsabilità di alcuni di essi e l'accertamento del contributo fornito dagli altri, a meno che la responsabilità dei primi non debba essere necessariamente ricollegata a quella di questi ultimi, per effetto dell'obiettiva interrelazione esistente, sul piano del diritto sostanziale, tra le rispettive posizioni (cfr. Cass., Sez. 3, 14 giugno 2007. n. 13955; 27 marzo 2007. n. 7501; Cass.. Sez. lav., 12 maggio 2006, n. 11039).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 20-12-2012, n. 23650


L'immediata esecutività della condanna alle spese accessoria ad una sentenza di rigetto della domanda soggetta ancora ad impugnazione


Il Collegio rileva che entrambi i motivi, il secondo ricondotto anch'esso all'alveo del n. 3 dell'art. 360 c.p.c., sono manifestamente infondati, al lume del consolidato orientamento di queste Corte, che ha più volte e costantemente negato qualsiasi valore di prospettazione di un'interpretazione dell'Ordinamento nel senso che l'art. 282 c.p.c., escluderebbe l'immediata esecutività della condanna alle spese accessoria ad una sentenza di rigetto della domanda soggetta ancora ad impugnazione.

In particolare questa stessa Sezione, da ultimo, si è così espressa, nella sentenza n. 13373 del 2012, nella quale ha anche escluso che vi sia una problematica che renda opportuno un intervento delle Sezioni Unite:

"(...) la giurisprudenza di questa Corte ha da lungo tempo affermato che il capo di condanna alle spese accessorio ad una sentenza di primo grado di rigetto della domanda., pur essendo sentenza di mero accertamento, è esecutiva ai sensi dell'art. 282 c.p.c., nel testo introdotto dalla 1. n. 353 del 1990.

Tale giurisprudenza è ampiamente consolidata, sicchè non v'è alcuna situazione di contrasto che renda opportuno rimettere la questione alle Sezioni Unite, come ha sollecitato nel controricorso e continua a sollecitare il resistente.

Inoltre, non v'è alcuna situazione di contrasto dell'orientamento ormai consolidato con la sentenza n. 232 del 2004, pure evocata dal resistente.

A favore della tesi dell'esecutività immediata si vedano: Cass. n. 22495 del 2010; n. 1283 del 2010; n. 16003 del 2008; n. 16262 del 2005; 16263 del 2005; n. 8059 del 2007; n. 16262 del 2005. Le stesse Sezioni Unite, nel l'esaminare (sentenza n. 4059 del 2010) la questione della esecutività dei capi condannatori accessori a sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c. hanno adottato una soluzione negativa in ragione della peculiarità di tale tipo di decisione, mostrando di avallare l'idea che al di fuori di questa particolarità, la soluzione è ben diversa anche con riferimento alle stesse sentenze costitutive: si veda ampiamente in termini Cass. n. 24447 del 2011.

[...]

Poichè siffatta lettura dell'art. 282 c.p.c. è stata offerta dalla Corte costituzionale non già con una pronuncia interpretativa di rigetto, per evidenziare, com'è suo tipico compito, un'interpretazione che renderebbe superabile la questione di costituzionalità dell'art. 282 c.p.c., nella specie non può venire in rilievo il principio di diritto che regola in punto di interpretazione i rapporti fra l'interpretazione del Giudice delle leggi e quella della Corte di cassazione e degli altri giudici.

Principio che è stato condivisibilmente così espresso: con la sentenza interpretativa di rigetto la Corte Costituzionale, nel ritenere non infondato il denunciato vizio di incostituzionalità della disposizione nella interpretazione non implausibile fornitane dal giudice a quo, in luogo di emettere una pronuncia caducatoria o additiva, indica una possibile, diversa interpretazione della stessa disposizione conforme a Costituzione. Tale interpretazione adeguatrice operata dal giudice delle leggi rappresenta un esito di merito del sindacato di costituzionalità che non interferisce con il controllo di legittimità rimesso alla Corte di Cassazione, ed ha un effetto vincolante per i giudici ordinali e speciali, non esclusa la stessa Corte di Cassazione, nel senso che essi non possono più accogliere quella interpretazione che la Corte costituzionale ha ritenuto, sia pure con una pronuncia di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sottoposta al suo esame, viziata.

[...]

Dev'essere, dunque, ribadito che il capo condannatorio relativo alle spese accessorio ad una sentenza di primo grado di rigetto della domanda è immediatamente esecutivo ai sensi dell'art. 282 c.p.c.".

Tanto si argomentava testualmente in Cass. n. 13373 del 2012 e nella riportata motivazione e nei suoi richiami riproduttivi di precedenti arresti di questa Corte, trovano esauriente risposta le argomentazioni dei motivi del ricorso in esame ed anche quelle della memoria della ricorrente.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-12-2012, n. 23631


Compensazione delle spese per "lo svolgimento fattuale della vicenda": motivazione del tutto oscura


Il motivo è fondato e merita accoglimento.

Fermo che il giudizio di merito era soggetto al testo dell'art. 92, comma 2, invocato da parte ricorrente, si deve rilevare che la motivazione della compensazione, evocando come giustificazione "lo svolgimento fattuale della vicenda" non soltanto, di per sè considerata, è una motivazione del tutto oscura, inidonea ad evidenziare direttamente claris verbis i giusti motivi che avrebbero dovuto essere esplicitati in base al paradigma normativo. Nè, in presenza dell'esigenza normativa di una esplicitazione dei giusti motivi, si rinviene in sentenza alcunchè che possa ritenersi evocato per relationem in tal guisa dalla detta pretesa espressione motivazionale.

Sicchè, a giusta ragione parte ricorrente ha invocato nella specie il principio di diritto, di cui a Cass. n. 26673 del 2007, secondo cui "L'art. 92 cod. proc. civ., comma 2, nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione e ciò non accade quando la compensazione si basi sulla "fattispecie concreta nel suo complesso", in quanto tale formula è del tutto criptica e non consente il controllo sulla motivazione e sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione" (nello stesso senso Cass. n. 14563 del 2008, secondo cui "L'art. 92 cod. proc. civ., comma 2, nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione. Tale esigenza non è soddisfatta quando la compensazione si basi sulla peculiarità della fattispecie, in quanto una simile formula è del tutto criptica e non consente il controllo sulla motivazione e sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione"; in senso conforme: Cass. (ord.) n. 23265 del 2009 e n. 21521 del 2010; e ancora Cass. n. 12893 del 2011, secondo la quale "Nei giudizi soggetti alla disciplina dell'art. 92 cod. proc. civ., comma 2, come modificato dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a), ove non sussista reciproca soccombenza, è legittima la compensazione delle spese processuali se concorrono "giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione", dovendosi ritenere che tale esigenza non sia soddisfatta quando il giudice abbia compensato le spese in considerazione del "valore assai esiguo della causa", che si traduce - in specie ove l'importo delle spese sia tale da superare quello del pregiudizio economico che la parte abbia inteso evitare agendo in giudizio facendo valere il proprio diritto - in una sostanziale soccombenza di fatto della parte vittoriosa con lesione del diritto di agire in giudizio e di difendersi ex art. 24 Cost., con conseguente violazione di legge per l'illogicità ed erroneità delle motivazioni addotte".

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-12-2012, n. 23630


Processi con pluralità di parti (cause inscindibili) e unitarietà del termine per impugnare


La notifica della sentenza, per essere idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione, deve avvenire - secondo il disposto dell'art. 285 cod. proc. civ. - a norma dell'art. 170 cod. proc. civ., ossia presso il procuratore costituito; il successivo art. 286 cod. proc. civ., comma 2, però, precisa che, se si è avverato uno dei casi di cui all'art. 301 cod. proc. civ. - ossia la morte o l'impedimento del procuratore - la notifica si fa alla parte personalmente. Questo perchè la morte o l'impedimento del procuratore, se non devono andare a danno della parte dal medesimo assistita, non possono neppure impedire alla controparte che ne abbia interesse di far decorrere il termine breve per l'impugnazione. Di tale situazione si è preoccupata la legge, consentendo appunto la notifica alla parte personalmente in caso di morte o impedimento del procuratore.

La sentenza delle Sezioni Unite 8 febbraio 2010, n. 2714 correttamente richiamata dalla società F. F. - è intervenuta in una fattispecie leggermente diversa da quella odierna, ossia quella della morte del procuratore avvenuta dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni ma prima dell'udienza di discussione della causa. E' interessante notare che in quella sede non era neppure in discussione il principio - che le S.U. definiscono "patrimonio consolidato della giurisprudenza di legittimità" - per cui, in caso di morte del difensore, "la notificazione personale della sentenza alla controparte già costituita a mezzo di procuratore costituisca l'unica forma possibile di notificazione idonea, anche se effettuata in forma esecutiva, a far decorrere il termine breve per l'impugnazione". Era in discussione, invece, il punto se potesse assumere rilievo, in tal caso, la mancata conoscenza, da parte del destinatario della notifica, della morte del suo stesso difensore (e le S.U. hanno dato risposta negativa).

La giurisprudenza di questa Corte, quindi, è unanime nel riconoscere che la notifica alla parte personalmente è idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione in caso di morte del difensore, anche se essa avvenga in forma esecutiva, nè potrebbe essere diversamente, stante il chiaro dettato del citato art. 286 del codice di rito (v., tra. Le altre, la sentenza 26 febbraio 2001, n. 2746, e, dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, la sentenza 6 giugno 2011, n. 12236).

L'ulteriore pronuncia delle Sezioni Unite 13 giugno 2011, n. 12898, sulla quale ha richiamato l'attenzione in modo particolare la difesa di R.F.I., rimane del tutto estranea all'odierna fattispecie, poichè si occupa del diverso problema dell'efficacia della notificazione della sentenza in forma esecutiva - nel regime anteriore alle recenti modifiche dell'art. 479 cod. proc. civ. - eseguita alla parte personalmente; ma è pacifico che questa pronuncia non si occupa affatto del diverso caso della morte del difensore.

Alla luce delle precedenti considerazioni, si deve ritenere, pertanto, che sia fondato il primo motivo del ricorso principale, poichè l'appello proposto dalla R.F.I. era tardivo, in quanto proposto ben oltre il termine di trenta giorni decorrenti dalla data della notifica alla parte personalmente; con la conseguenza che la Corte d'appello avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità del gravame.

[...]

E' infatti principio consolidato - al quale si intende dare continuità nella pronuncia odierna - quello per cui nei processi con pluralità di parti, quando si verta in ipotesi di litisconsorzio necessario ovvero processuale, è applicabile la regola, propria delle cause inscindibili, dell'unitarietà del termine per proporre impugnazione, con la conseguenza che la notifica della sentenza eseguita ad istanza di una sola delle parti segna, nei confronti della stessa e della parte destinataria della notificazione, l'inizio del termine breve per la proposizione dell'impugnazione contro tutte le altre parti, sicchè, ove a causa della scadenza del termine, sia intervenuta la decadenza dall'impugnazione, questa esplica i suoi effetti non solo nei confronti della parte che abbia assunto l'iniziativa di notificare la sentenza, ma anche nei confronti di tutte le altre parti (così, da ultimo, la sentenza 29 settembre 2011, n. 19869).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-12-2012, n. 23626


La quietanza rilasciata dal creditore ha natura confessione stragiudiziale su questo fatto estintivo dell'obbligazione. No nella procedura fallimentare


L'unico motivo del ricorso principale ed il secondo dell'incidentale non tengono conto dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità fatto proprio dal giudice a quo, dal quale il Collegio non ritiene vi siano ragioni per discostarsi.

Esso è compendiato oltre che nella massima, riportata nella sentenza della Corte d'Appello di Torino, di cui al precedente di legittimità n. 4288/05 ("La quietanza, rilasciata dal creditore al debitore all'atto del pagamento, ha natura di confessione stragiudiziale su questo fatto estintivo dell'obbligazione secondo la previsione dell'art. 2735 cod. civ., e, come tale, solleva il debitore dal relativo onere probatorio, vincolando il giudice circa la verità del fatto stesso, se e nei limiti in cui sia fatta valere nella controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, gli stessi soggetti rispettivamente autore e destinatario di quella dichiarazione di scienza. Pertanto, nel giudizio promosso dal curatore del fallimento (ovvero, come nel caso di specie, dal commissario della liquidazione coatta amministrativa) del creditore per ottenere l'adempimento dell'obbligazione, deve negarsi che il debitore possa opporre la suddetta quietanza, quale confessione stragiudiziale del pagamento, atteso che il curatore, pur ponendosi, nell'esercizio di un diritto del fallito, nella stessa posizione di quest'ultimo, è una parte processuale diversa dal fallito medesimo.

Da tanto consegue che, nel predetto giudizio, l'indicata quietanza è priva d'effetti vincolanti ed assume soltanto il valore di un documento probatorio dell'avvenuto pagamento, apprezzabile dal giudice al pari di qualsiasi altra prova desumibile dal processo"), anche in quella di Cass. n. 14481/05 ("In tema di valore probatorio della quietanza nei confronti della curatela fallimentare, dalla anteriorità, con atto di data certa, della quietanza al fallimento non può ricavarsi anche la certezza della effettività del pagamento quietanzato, giacchè solo dalla certezza dell'avvenuto pagamento, mediante strumenti finanziari incontestabili (anche alla luce della legislazione antiriciclaggio, che impone cautele e formalità particolari ove vengano trasferiti valori superiori ad un certo importo), -, può trarsi la prova del pagamento del prezzo pattuito nell'atto di autonomia privata, idoneo al trasferimento del bene") ed in altre successive (cfr. Cass. n. 11144/09).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-12-2012, n. 23318

Il rifiuto di stipulare nuova convenzione integra gli estremi del comportamento di buona fede del creditore


Non considera, la corte territoriale, che - come correttamente evidenziato dalla difesa della ricorrente (folio 48 dell'odierno atto di gravame) - il rifiuto opposto dalla C. alla stipula della nuova convenzione integra gli estremi del comportamento di buona fede del creditore volto a limitare le possibili conseguenze dannose cagionate dal comportamento illegittimo dell'amministrazione, attesa la materiale ed oggettiva impossibilità, per la società, di svolgere il servizio così come richiesto -. Comportamento di buona fede, dunque, e non piuttosto (come erroneamente opinato) condotta colposa di cui all'art. 1227 c.c., infondatamente ritenuta idonea ed elidere il rapporto etiologico tra la condotta dell'amministrazione e l'evento di danno: il rifiuto opposto dal legale rappresentante della Cogesi ha, in realtà, determinato l'interruzione del nesso di causa con l'evento di danno colpevolmente cagionato dall'amministrazione (l'illegittima, mancata assegnazione del servizio di riscossione), lasciando impregiudicata la questione delle conseguenze dannose risarcibili a seguito della realizzazione dell'evento stesso.

Il comportamento della ricorrente è, pertanto, correttamente riconducibile alla fattispecie astratta disciplinata dall'art. 1181 c.c. - rifiuto dell'offerta tardiva e parziale di esecuzione in forma specifica dell'obbligo risarcitorio da parte della controricorrente - nella evidente quanto legittima prospettiva di ottenere il risarcimento, integrale e per equivalente, dei danni lamentati.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-12-2012, n. 23316

Spese e inattività della parte "vincitrice"


G.M. ricorre per la revocazione dell'ordinanza di questa Corte n. 24618/10, del 3.12.2010 che - nel rigettare il ricorso da lui proposto per ottenere la cassazione del decreto con il quale la Corte d'Appello di Trieste aveva respinto la sua domanda di equo indennizzo ex L. n. 89 del 2001 - lo ha condannato al pagamento delle spese processuali in favore dell'intimato, Ministero dell'Economia e delle Finanze.

A sostegno dell'istanza di revocazione, G. deduce che il Ministero non gli ha mai notificato alcun controricorso e che si è limitato a depositare un "atto di costituzione" con il quale, nel concludere per il rigetto del ricorso, si è riservato di illustrare le proprie difese all'udienza di discussione, alla quale, tuttavia, non ha partecipato. Rileva, pertanto, che, poichè il Ministero non ha svolto alcuna attività difensiva, la statuizione di condanna alle spese è frutto di un errore materiale.

Il ricorso è fondato.

Nel fascicolo d'ufficio non v'è traccia di attività difensiva svolta dal Ministero.

La statuizione di condanna del G. al pagamento delle spese processuali, fondata, secondo quanto si legge nell'ordinanza impugnata, sul presupposto di fatto, frutto di evidente errore materiale, che la parte vittoriosa abbia resistito al ricorso, notificando un controricorso nel quale avrebbe analiticamente replicato alle difese della controparte, deve pertanto essere revocata.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 17-12-2012, n. 23203

18 febbraio 2013

Pignoramento mobiliare e appartenenza dei beni


La sentenza impugnata è cassata, enunciandosi il seguente principio di diritto:

"In tema di espropriazione mobiliare presso il debitore, l'art. 513 cod. proc. civ., pone una presunzione di appartenenza al debitore dei beni che si trovano nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti. Pertanto, poichè l'attività svolta dall'ufficiale giudiziario in sede di pignoramento mobiliare è meramente esecutiva, deve ritenersi preclusa al medesimo qualsiasi valutazione giuridica dei titoli di appartenenza dei beni da sottoporre al pignoramento, rimanendo a disposizione degli eventuali terzi proprietari lo strumento processuale dell'opposizione di terzo all'esecuzione".

Non va dimenticato, peraltro, che l'azione proposta dall'odierna ricorrente è un'azione di responsabilità civile contro l'ufficiale giudiziario S.V. e, in via solidale, contro il Ministero della giustizia.

Tale azione è esperibile in base al citato art. 60 cod. proc. civ., il quale stabilisce il principio della responsabilità del cancelliere e dell'ufficiale giudiziario nei casi ivi indicati. Nè assume importanza il fatto che il creditore procedente abbia preferito - anzichè sollecitare il giudice alla fissazione di un termine secondo le modalità in precedenza ricordate - agire per l'immediato risarcimento dei danni, trattandosi di una scelta evidentemente discrezionale e non vigendo in materia i principi di cui alla L. 13 aprile 1988, n. 117, in tema di responsabilità civile dei magistrati.

Sarà tuttavia compito del giudice di rinvio, alla luce del principio sopra enunciato, stabilire se sussistano o meno gli estremi del dolo o della colpa, necessari per la configurazione dell'illecito civile fonte della relativa responsabilità.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-12-2012, n. 23625


Entità della penale


Occorre preliminarmente richiamare i principi costantemente affermati da questa Corte in merito al sindacato del giudice sull'entità della penale: la pattuizione di una penale non si sottrae alla disciplina generale delle obbligazioni, per cui deve escludersi la responsabilità del debitore quando costui prova che l'inadempimento od il ritardo dell'adempimento dell'obbligazione cui accede la clausola penale, sia determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass. 1/8/2003 n. 11748; 30/1/1995 n. 1097);

L'apprezzamento sulla eccessività dell'importo fissato con clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o di ritardato adempimento, nonchè sulla misura della riduzione equitativa dell'importo medesimo, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente fondato, a norma dell'art. 1384 c.c., sulla valutazione dell'interesse del creditore all'adempimento con riguardo all'effettiva incidenza dello stesso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con l'entità del danno subito (Cass. 16/2/2012 n. 2231; Cass. 16/3/2007 n. 6158; Cass. 18/3/2003 n. 3998; 26/6/2002 n. 9295; 8/5/2001 n. 6380; 14/4/1994 n. 3475).

La natura "oggettiva" del criterio discende dal fatto che il giudice non deve tenere conto della posizione soggettiva del debitore e del riflesso che la penale può avere sul suo patrimonio ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle parti; il riferimento all'interesse del creditore ha, poi, la funzione di indicare lo strumento per mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva o meno; la difficoltà del debitore nell'eseguire la prestazione risarcitoria deve essere a sua volta oggettiva perchè tale difficoltà non riguarda, come detto, la situazione economica de debitore, ma l'esecuzione stessa della prestazione, ad esempio quando venga a mancare una proporzione tra danno, costo ed utilità (cfr., in motivazione, Cass. S.U. 13/9/2005 n. 18128).

Il fondamento del potere di riduzione viene generalmente individuato nella riconduzione dell'autonomia privata, della quale la clausola penale è espressione, nei limiti in cui è meritevole di tutela nell'ordinamento giuridico mediante un equo contemperamento degli interessi contrapposti (Cass. 9.11.1994, n. 9304; Cass. 24.4.1980, n. 2479).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-12-2012, n. 23621


CID e posizione dell'assicurazione


Con il settimo motivo, preliminare al quarto, quinto e sesto, il ricorrente denuncia: "Violazione dell'art. 111 Cost., e dei principi regolatori del giusto processo" per avere il Tribunale attribuito al C.I.D. natura di confessione e non di comunicazione, così violando il principio di parità delle parti perchè il danneggiato di fronte alla negazione dell'assicurazione non avrebbe tutela per esser da questa risarcito se non proponendo querela di falso nei confronti del C.I.D..

I motivi, congiunti, sono fondati.

Il D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, art. 5, convertito nella L. n. 39 del 1977, ratione temporis applicabile (ed integralmente recepito nell'art. 143 T.U. delle assicurazioni), dispone:" Nel caso di scontro tra veicoli a motore per i quali vi sia obbligo di assicurazione i conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro sono tenuti a denunciare il sinistro avvalendosi del modulo fornito dall'impresa, il cui modello è approvato con decreto del Ministro per l'Industria, il Commercio e l'Artigianato".. Quindi la prima funzione del "modulo", sostituendosi all'avviso che l'art. 1913 cod. civ., prescrive all'assicurato, è la denuncia del sinistro, all'assicuratore da cui l'assicurato chiede di esser garantito (Cass. 18709 del 2010), con tutte le modalità e circostanze del caso concreto che possono rilevare ai fini di agevolare la determinazione del danno e facilitare l'accertamento del diritto e le conciliazioni (Cass. 3276 del 1997). E poichè i nomi degli assicurati e delle compagnie di assicurazione costituiscono dati essenziali del modulo e a norma dell'art. 3, comma 1, del precitato D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, alla richiesta risarcitoria presentata secondo le modalità indicate nella L. n. 990 del 1969, art. 22, deve esser allegata la copia del modulo di denuncia di cui all'art. 5, debitamente compilato, è dalla ricezione del medesimo che l'assicuratore ha l'onere di contestare l'esistenza del rapporto assicurativo.

Nella fattispecie invece emerge incontrovertibilmente dalla sentenza impugnata che, benchè l'art. 167 cod. proc. civ., comma 1, impone al convenuto di assumere specifica posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della sua domanda nella specie della L. n. 990 del 1969, art. 18, in base alla denuncia di sinistro effettuata dal proprietario/conducente F. con riferimento all'autoveicolo da lui condotto e alla sua responsabilità, contenuta nel modulo di cui al precitato art. 5, secondo quanto accertato dal giudice di appello - neppure in comparsa di risposta in primo grado l'assicurazione Unipol ha negato che il F. fosse suo assicurato per la responsabilità civile con conseguente preclusione al riguardo di nuove deduzioni in corso di causa. Pertanto le lamentate violazioni di legge sussistono e i motivi vanno accolti.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-12-2012, n. 23614


06 febbraio 2013

L'art. 445-bis cpc al vaglio della Corte Costituzionale

Qui di seguito pubblichiamo l'estratto dell'ordinanza del 18.1.2013 resa dal Tribunale di Roma in persona del Cons. Dott. Paolo Mormile, con la quale si dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 445-bis c.p.c., ossia la norma che introduce il nuovo procedimento per l'invalidità civile (c.d. "ATP").