31 gennaio 2013

Le informazioni assunte in loco dall'Ufficiale Giudiziario


L'argomentazione non ha pregio, atteso che il valore fidefacente delle dichiarazioni rese dall'ufficiale giudiziario va riconosciuto con riferimento alle sole operazioni compiute personalmente dal pubblico ufficiale o avvenute in sua presenza, laddove la dichiarazione in parola riporta all'evidenza null'altro che le informazioni assunte in loco, senza aggiungere nulla sulla loro veridicità (Cass. n. 25860 del 2008; Cass. n. 9826 del 1998).

La censura secondo cui l'atto sarebbe stato ricevuto da persona che deve presumersi sia stata incaricata dalla società a ricevere la corrispondenza trascura il dato fondamentale che la presunzione invocata opera purchè l'atto venga recapitato presso la sede effettiva della società e che è proprio tale ultima situazione, la cui prova gravava sulla società attrice (Cass. n. 17519 del 2003), che nella specie il giudice a qua ha ritenuto non dimostrata.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-12-2012, n. 23200

I diritti sostanziali acquistati dal mandatario


Sul piano dell'applicazione della disposizione di cui all'art. 1705 cod. civ., comma 2, deve poi escludersi che la situazione rappresentata integri la fattispecie della sostituzione del mandante al mandatario, la quale si verifica non già in forza di qualsiasi contatto tra il mandante e l'altro contraente, ma solo laddove il primo eserciti diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato, compiendo atti di diretti ad esigere in proprio la prestazione. L'espressione normativa "diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato" va quindi riferita e circoscritta all'esercizio dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario (Cass. S. U. n. 24772 del 2008).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-12-2012, n. 23196


Il ragioniere può predisporre il contratto di locazione


Con l'ultima censura si deduce la nullità del contratto non potendo un ragioniere predisporre un contratto di locazione ma la censura è infondata in relazione sia alla giurisprudenza della Cassazione civile (23054/2009, 17921/2003) sia di quella penale (S.U. 25.12.2011 n. 11545) che ha escluso l'esercizio abusivo della professione legale in relazione ad ipotesi simile.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-12-2012, n. 23194


Domanda proposta per la prima volta in appello e efficacia interruttiva


Ed infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, la domanda proposta per la prima volta nel corso del giudizio di appello ha efficacia interruttiva della prescrizione ai sensi dell'art. 2943 c.c., comma 2, e tale effetto si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi dell'art. 2945 c.c., non rilevando, ai fini dell'esclusione dell'effetto interruttivo, il fatto che la domanda sia dichiarata inammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c. in quanto nuova, nè il fatto che essa sia sottoscritta dal solo procuratore ad litem e non anche dalla parte personalmente (Cass. n. 255/06).

Al pari dell'atto introduttivo del giudizio, l'atto con il quale è proposta la domanda in corso di causa deve recare la sottoscrizione del procuratore ad litem del titolare del diritto prescrivendo; a differenza di esso non occorre che sia notificato; ciò perchè la pendenza della lite ne garantisce la conoscenza e non perchè l'atto non abbia natura recettizia; è fatto salvo il caso di contumacia del soggetto passivo, nel quale la domanda va notificata (così, in motivazione, Cass. n. 696/02). L'inammissibilità della domanda, da qualunque causa dipenda, non esclude l'efficacia interruttiva, che, anzi, permane pure in questo caso fino a quando non si formi il giudicato (cfr. Cass. nn. 8367/96 e 7664/95).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-12-2012, n. 23017


La c.d. Legge Ponte (L. 765/67) e sopraelevazione


Il primo motivo è infondato.

Ed infatti, con riguardo alle sopraelevazioni la L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, comma 1, lett. c) (cosiddetta legge ponte) prevedendo che la distanza tra edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire, si riferisce per la determinazione dell'altezza alla parte dell'edificio da realizzare non anche all'intero corpo di fabbrica sopraelevato, considerato l'intento del legislatore di non incidere su diritti quesiti, derivanti da una costruzione realizzata in precedenza nel rispetto delle distanze legali, in applicazione del principio secondo cui l'attività edilizia è regolata dalla legge vigente nel momento in cui essa è realizzata. Tale principio, peraltro, non comporta che in caso di successive sopraelevazioni ciascuna sia soggetta a separato computo dell'altezza, dovendo la relativa determinazione essere effettuata con riferimento a tutte le sopraelevazioni (Cass. n. 4799/92; sul principio per cui in tema di edilizia quando nel tempo si succedono una pluralità di norme regolatrici, la legittimità o meno di ciascuna attività edificatoria e le relative conseguenze vanno accertate con riferimento alla normativa vigente all'epoca della realizzazione dell'attività stessa, v. anche Cass. nn. 3771/01 e 14022/99).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-12-2012, n. 23016


Il principio di buona fede e avveramento della condizione


Come già osservato dalle Sezioni Unite con la sentenza sopra richiamata, "l'art. 1358 c.c. dispone che "colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte". La norma s'inserisce nell'ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto medesimo (art. 1337 c.c.), sia in sede d'interpretazione (art. 1366 c.c.), sia in sede di esecuzione (art. 1375 c.c.). La fonte dell'obbligo giuridico de quo, dunque, si trova appunto nel citato art. 1358, che lo stabilisce al fine di "conservare integre le ragioni dell'altra parte" e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso. Nè convince la tesi secondo cui tale obbligo andrebbe escluso per il profilo attuativo dell'elemento potestativo della condizione mista.

Invero, il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (in parte) l'avveramento della condizione. Tale comportamento non può essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perchè - se così fosse - finirebbe per risolversi in una forma di mero arbitrio, contrario al dettato dell'art. 1355 c.c. sia perchè aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad introdurre nel precetto dell'art. 1358 una restrizione che questo non prevede e che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della norma, limitandolo all'elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte possibilità d'incidenza, mentre la posizione giuridica dell'altra parte resterebbe in concreto priva di ogni tutela. Invece è proprio l'elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d'essere, perchè è con riguardo a quell'elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza. Si deve, perciò, affermare che il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto alla disciplina dell'art. 1358 c.c. che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione. E' vero che l'omissione di un'attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l'attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, ma tale obbligo, in casi come quello in esame, discende direttamente dalla legge e, segnatamente, dall'art. 1358 c.c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l'attività di attuazione dell'elemento potestativo di una condizione mista. Pertanto il giudice del merito deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola stessa è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento".

A tale orientamento va data continuità.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-12-2012, n. 23014


Sul contegno assunto dalla parte dichiarata soccombente


Tra i plurimi rilievi di cui l'impugnata decisione rende conto, assume rilievo dirimente il riscontrato rapporto di causalità tra il contegno dello S. e l'insorgere della lite, assolutamente decisivo ai fini del riscontro della soccombenza, la cui individuazione si compie infatti in base al detto principio di causalità "con la conseguenza che parte obbligata a rimborsare alle altre le spese anticipate nel processo è quella che, col comportamento tenuto fuori del processo stesso vi abbia dato causa" (Cass. nn. 25141/2006, 134 30/2007). Lo scrutinio in punto di fatto sul contegno assunto dalla parte dichiarata soccombente e sul nesso causale tra esso e l'insorgere della lite appartiene al giudice del merito e non è sindacabile in questa sede se risulta adeguatamente argomentato, con motivazione puntuale e logica. La decisione impugnata, conforme al citato enunciato laddove ha individuato nel comportamento dello S. negligenza nel coltivare il rapporto genitoriale, ed inadeguatezza nell'offrire il sostegno economico per la figlia, che indussero la madre della bambina ad intraprendere il procedimento, dando insomma causa al suo insorgere, espone con puntuale tessuto motivazionale il risultato del vaglio critico sui fatti evidenziati sul quale è per l'effetto precluso il controllo in questa sede.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-12-2012, n. 22952


Il contributo per il mantenimento del figlio


Il motivo merita accoglimento nei sensi che seguono.

Emerge pacificamente dalla narrativa della vicenda fattuale che il B. ha corrisposto alla R. l'assegno di mantenimento per la figlia S. fino al compimento del 18 anno d'età, e successivamente lo ha versato direttamente a quest'ultima, secondo gli accordi intervenuti in sede di divorzio, sino al 1997, data in cui, col tacito consenso di tutti, ne interruppe il versamento. La coabitazione tra la figlia e la madre, inoltre, non trae titolo da pronuncia giudiziale d'affidamento ma si fonda sul diritto di comproprietà, dunque su titolo di natura reale, discendente dalla cessione in proprietà dell'immobile dalle stesse abitato, che venne disposta dal B. a loro favore in sede di divorzio. La resistente non smentisce questa ricostruzione, nè la narrativa della sentenza impugnata la prospetta in termini diversi.

Dalla vicenda processuale emerge che S. B., figlia delle parti e destinataria dell'assegno, ha spiegato intervento in causa dichiarando d'aver rinunciato alla sua corresponsione da parte del padre sin dal novembre 1996, per aver raggiunto a quella data la condizione di autonomia economica e che in epoca coeva cessò la sua convivenza con la madre, con la quale aveva sino ad allora condiviso l'appartamento in cui avevano coabitato e di cui erano comproprietarie.

La statuita inammissibilità dell'intervento anzidetto, che rappresenta questione preclusa al controllo di questa Corte in quanto la decisione del giudice d'appello non è stata impugnata in parte qua (cfr. Cass. n. 4296/2012 in ordine alla ritualità di tale iniziativa da parte del figlio), rende nondimeno palese l'insussistenza dell'interesse della R. a resistere munito dei requisiti di concretezza ed attualità postulati dall'art. 100 c.p.c.. E' incontroverso che il genitore convivente col figlio minorenne, ovvero maggiorenne ma non autosufficiente, è legittimato jure proprio ad ottenere dall'altro coniuge il contributo per il mantenimento del figlio, il quale è a sua volta munito di concorrente legittimazione (Cass. citata; nonchè Cass. nn. 21437/2007, 13184/2011) ad agire in via prioritaria per ottenere il versamento diretto del contributo, e, in senso speculare ma opposto, per resistere all'iniziativa giudiziaria assunta dal genitore che non intenda assolvere alla sua obbligazione. La legittimazione personale del genitore convivente presuppone la convivenza col figlio minorenne ovvero maggiorenne ma non autosufficiente e sussiste finchè persiste tale condizione e sempre che il figlio non abbia agito in via autonoma (Cass. n. 11320/2005) esplicando la sua personale legittimazione basata sulla sua personale titolarità del diritto al mantenimento (Cass. di recente n. 13184/2011). Siffatta costruzione esegetica non è mutata a seguito dell'introduzione dell'art. 155 quinquies c.c., non applicabile però nella specie ratione temporis, che prevede al comma 1 che "Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto" che incide sulle sole modalità attuative di tale diritto. Ciò premesso, va osservato che nella specie è conclamata, nonchè indiscussa, l'assenza dell'interesse di S. B., destinataria dell'assegno, a pretenderne il pagamento da parte del padre, il cui obbligo, per l'effetto, sicuramente in astratto perdurante anche dopo il raggiungimento della maggiore età da parte della predetta (per tutte Cass. n. 1773/2012), è però cessato in concreto in ragione del raggiungimento dell'indipendenza economica da essa acquisita, dichiarata e seguita da espressa rinuncia al relativo introito. Il logico corollario ha determinato la cessazione della legittimazione spettante alla madre, a sua volta non più tenuta all'obbligo di contribuzione ai sensi dell'art. 148 c.c., al versamento dell'assegno da parte del coniuge, da quell'obbligo volontariamente affrancato dalla stessa avente diritto. Ed invero, in quanto presuppone necessariamente la sussistenza del diritto del figlio al mantenimento ai sensi del combinato disposto degli artt. 147 e 148 c.c., la legittimazione ad agire del genitore affidatario cessa sincronicamente al sopravvenire di una causa d'estinzione di quella posizione sostanziale che il suo esercizio mira a garantire.

Non persistono dunque nè quella legittimazione nè quella personale del figlio se questi, titolare del diritto al mantenimento, vi abbia inequivocabilmente abdicato per la raggiunta sua condizione d'indipendenza che frustra la ratio sottostante l'obbligo contributivo posto a suo favore dal citato quadro normativo. Siffatta rinuncia, che incide evidentemente anche sull'obbligo di contribuzione che grava sullo stesso genitore affidatario ex art. 148 c.c., seppur nel caso di specie sia stata esplicitata in giudizio in forma ritenuta dal giudice del merito irrituale, ridonda comunque e per l'effetto inevitabilmente sulla verifica del perdurare dell'interesse della resistente R. ad opporsi alla pretesa esercitata dal coniuge, dal momento che l'adesione ad essa prestata dalla figlia S., rilevando nei sensi riferiti in chiave sostanziale, vanifica il senso della sua insistenza al rigetto della relativa domanda. Analoghe argomentazioni valgono con riguardo al contributo per le spese condominiali.

La Corte del merito ha risolto la questione aderendo acriticamente al principio espresso nel precedente della Cassazione citato che, come si è rilevato, riguarda l'ipotesi della revisione delle condizioni di divorzio, non omologabile a quella in esame, senza tener conto nè della rinuncia alla corresponsione dell'assegno espressa da S. B., nè del titolo sottostante la coabitazione madre - figlia, nè infine della formulazione della domanda, così come precisata dall'attore, odierno ricorrente, nel senso che dovevasi intendere tesa all'accertamento dell'insussistenza dell'obbligo paterno di mantenimento della figlia e non alla revisione delle condizioni di divorzio, dunque ad ottenere pronuncia dichiarativa e non costituiva.

Avendo ignorato tali decisivi rilievi, il giudice del gravame è pervenuto a decisione conclusiva affetta dal denunciato errore, che deve per l'effetto essere cassata con pronuncia nel merito ex art. 384 c.p.c., attesa l'esauriente istruttoria, disponendo l'accoglimento della domanda proposta da L.B. dalla data del novembre del 1996 in cui risultano essersi pacificamente verificati i seguenti eventi: la percezione di borsa di studio da parte della figlia S. che, seppur per la sua temporaneità e modestia di regola non dimostra l'acquisizione di indipendenza economica (Cass., ord. n. 2171/2012) in concreto è stata indicata dalla stessa beneficiaria quale adeguata fonte del suo mantenimento, e la conclusione di altri contratti di lavoro; la cessazione della convivenza tra la ragazza e la madre, con lei convivente in qualità di comproprietaria dell'immobile adibito ad abitazione, dunque in forza di titolo non riconducibile alla sua condizione di affidataria.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-12-2012, n. 22951


In Cassazione ricordarsi di indicare l'esatta collocazione del documento nel fascicolo della fase di merito, pena l'inammissibilità


Il motivo va dichiarato inammissibile.

La ricorrente, infatti, assume che la nota spese riprodotta nel motivo sarebbe conforme a quella depositata in sede di merito, ma non si è curata di precisare se, ed in quale esatta collocazione, essa possa essere rintracciata all'interno del fascicolo di parte o di quello d'ufficio del giudizio di primo grado.

Non risulta, pertanto, osservato l'onere, imposto dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 a pena di inammissibilità, di specifica indicazione del documento sul quale il ricorso si fonda, che va adempiuto indicando esattamente dove esso sia stato prodotto nella fase di merito, onde consentire a questa Corte di verificarne il tenore e il contenuto (fra molte, Cass. S.U. n. 9941/09, 28547/08, Cass. nn. 25222/011, 17952/011, 12969/011).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-12-2012, n. 22944


La riassunzione del processo dopo l'interruzione


Il terzo motivo, che ha carattere assorbente, è fondato e deve essere accolto.

La Corte territoriale, nel rigettare l'appello, ha affermato che, ancorchè per la tempestività della riassunzione del processo interrotto sia sufficiente il deposito della relativa istanza entro il termine perentorio di sei mesi previsto dall'art. 305 c.p.c. (ridotto a tre mesi, dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 14 nei processi introdotti a partire dal 4.7.09), l'effetto riassuntivo si perfeziona nei riguardi delle parti nei cui confronti il processo deve continuare solo se la notificazione del ricorso e del decreto avvenga ne termine ordinatorio assegnato dal giudice; ha poi precisato che, al fine di evitare l'estinzione del giudizio, la parte riassumente che non abbia la possibilità di rispettare detto termine è obbligata a chiederne la proroga prima della scadenza o, comunque, entro i sei mesi dall'interruzione del processo.

La sentenza del giudice del merito è espressione di un orientamento della giurisprudenza di legittimità, già non univoco all'epoca in cui fu emessa la decisione, che risulta definitivamente superato dalla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 14854/06, che dirimendo il contrasto sorto in materia, ha stabilito che la riassunzione del processo dopo l'interruzione deve essere effettuata, secondo il combinato disposto degli artt. 303 e 305 c.p.c., con il deposito del ricorso, entro il termine prescritto, presso la cancelleria del giudice precedentemente adito e che tale tempestivo deposito impedisce l'estinzione del processo, con la conseguenza che l'eventuale vizio o l'inesistenza, sia di fatto che giuridica, della notificazione del ricorso stesso e del decreto di fissazione dell'udienza emanato dal giudice non si comunica alla riassunzione (ormai perfezionatasi), ma impone al giudice, che rilevi il vizio, di assegnare alle parti, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., e previa fissazione di un'altra udienza di comparizione delle parti, un termine, necessariamente perentorio, per la rinnovazione della notificazione, dovendo, eventualmente, pervenirsi a una pronuncia di rito, che definisca in tale modo il processo, solo in caso di inottemperanza della parte all'ordine di rinnovazione.

Nell'occasione, le SS.UU. non hanno mancato di sottolineare come sia soluzione incongrua far dipendere la concreta possibilità di disporre il rinnovo della notificazione dalla scadenza di un termine (quello previsto dall'art. 305 c.p.c.) che si riferisce ad un adempimento già compiuto e che potrebbe essere già decorso in conseguenza di un evento - lo specifico tenore del decreto emesso dal giudice in calce al ricorso per la riassunzione tempestivamente depositato - del tutto indipendente dall'attività della parte.

Il meccanismo di riattivazione del giudizio individuato dalle SS.UU., che individua al più tardi nell'udienza fissata ai sensi dell'art. 302 c.p.c., il termine entro il quale può essere disposta la rinnovazione della notifica dell'atto di riassunzione tempestivamente depositato, impedisce, d'altro canto, il rischio che il sub- procedimento notificatorio sia rimesso nella discrezionalità del soggetto riassumente, in tal modo determinando uno stato di quiescenza del processo non temporalmente definibile e sottratto al controllo del giudice.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-12-2012, n. 22943


Prescrizione in materia di equo indennizzo


L'unico motivo di ricorso va accolto.

Le Sezioni Unite, con la recentissima pronuncia 16783/2012 si sono espresse in relazione alla questione della prescrizione in materia di equo indennizzo, ed hanno dato continuità all'indirizzo prevalente, secondo il quale "in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, nella parte in cui prevede la facoltà di agire per l'indennizzo in pendenza del processo presupposto, non consente di far decorrere il relativo termine della prescrizione prima della scadenza del termine decadenziale previsto nel medesimo art. 4 per la proposizione della domanda, in tal senso deponendo, oltre all'incompatibità tra prescrizione e decadenza, se relativa al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto,avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonchè il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione delle iniziative processuali, che l'operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo ultradecennale nella definizione del processo". Nell'applicare tale principio al caso in oggetto,dalla valutazione del periodo utile ai fini della valutazione della durata irragionevole del giudizio deve escludersi il periodo anteriore alla data del 1/8/1973, atteso che da tale data decorre la giustiziabilità del diritto alla ragionevole durata, per il tramite del ricorso individuale; infatti, come affermato nella pronuncia 14286/06, posto che la finalità della L. 24 marzo 2001, n. 89 è quella di apprestare, in favore della vittima della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, un rimedio giurisdizionale interno analogo alla prevista tutela internazionale, deve ritenersi che, anche nel quadro dell'istanza nazionale, al calcolo della ragionevolezza dei tempi processuali sfugga il periodo di svolgimento del processo presupposto anteriore all'1 agosto 1973 - data a partire dalla quale è riconosciuta la facoltà del ricorso individuale alla Commissione (oggi, alla Corte Europea dei diritti dell'uomo), con la possibilità di far valere la responsabilità dello Stato -, dovendosi, peraltro, tenere conto della situazione in cui la causa si trovava a quel momento.

Il decreto impugnato va pertanto cassato e, non occorrendo alcun ulteriore accertamento di fatto, la controversia può essere decisa ex art. 384 c.p.c., comma 2.

In applicazione dei criteri usualmente adottati da questa Corte in relazione ai giudizi svoltisi presso la Corte dei Conti, considerata le specificità del caso in relazione al protrarsi della procedura e tenuto conto dei margini di riduzione ricavabili dalle decisioni della CEDU del 2/6/09 e del 16/3/2010, considerata la durata del giudizio presupposto dal 1/8/73 alla data del decesso del de cuis (OMISSIS) va liquidato l'indennizzo nella somma complessiva di Euro 12250,00, oltre interessi legali dalla domanda e va condannato il Ministero dell'Economia e delle Finanze alla corresponsione del detto importo, nonchè alle spese del giudizio di merito e del presente giudizio, negli importi liquidati in dispositivo.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-12-2012, n. 22942


Intervento su istanza di parte


Osserva preliminarmente questa Corte che in linea di principio, la domanda principale dell'attore si estende automaticamente al chiamato in causa dal convenuto, quando la chiamata del terzo sia effettuata per ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione alla medesima obbligazione dedotta nel giudizio.

Tuttavia, a tale chiamata può provvedere anche l'attore a norma degli artt. 183, 106 e 269 c.p.c. quando l'esigenza è sorta dalle eccezioni e difese proposte dal convenuto, al fine di avanzare anche nei confronti del chiamando - indicato dal convenuto come responsabile - la domanda (Cass. 25.10.1988, n. 5780 del 1988, Cass. n. 899 del 1987).

Infatti, in tema di intervento su istanza di parte, il requisito della comunanza della causa al terzo previsto dall'art. 106 del cod. proc. civ., sussiste, ove l'istanza di chiamata provenga dall'attore, quando il rapporto da questi dedotto in causa, in relazione o per effetto delle difese ed eccezioni del convenuto, appaia soggettivamente ed oggettivamente connesso con quello facente capo al terzo che si intende chiamare in giudizio. Pertanto, ove il convenuto eccepisca di non essere titolare del rapporto dedotto in giudizio ed indichi un terzo come legittimato passivo, il giudice può senz'altro autorizzare l'attore a chiamare in causa il terzo, sia per economia di giudizi che per prevenire un eventuale conflitto di giudicati.

Ciò, peraltro, favorisce l'attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e privilegia la decisione nel merito, che costituisce la funzione primaria di ogni processo.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22925


Notificazione ex art. 140 cod. proc. civ.


Il motivo va accolto.

Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sui punto, statuendo il seguente principio: In tema di notificazione ex art. 140 cod. proc. civ., a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, deve tenersi distinto il momento del perfezionamento della notificazione nei riguardi del notificante da quello nei confronti de destinatario dell'atto, dovendo identificarsi, il primo, con quello in cui viene completata l'attività che incombe su chi richiede l'adempimento, e, il secondo, con quello in cui si realizza l'effetto della conoscibilità dell'atto; ne consegue che, ai fini della verifica del rispetto de termine di decadenza per l'impugnazione, la notifica a mezzo posta dell'avviso informativo al destinatario si perfeziona non con il semplice invio a cura dell'agente postale della raccomandata che da avviso dell'infruttuoso accesso e degli eseguiti adempimenti, ma decorsi dieci giorni dall'inoltro della raccomandata o nel minor termine costituito dall'effettivo ritiro del plico in giacenza. (Cass. 11 maggio 2012, n. 7324).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22920


L'art. 2051 cod. civ. e gli enti pubblici proprietari o manutentori di strade aperte al pubblico transito


Giova aggiungere che la Corte di merito ha altresì ritenuto l'infondatezza della domanda ex art. 2051 c.c. in quanto competeva all'attore di provare l'esistenza di un nesso causale tra la cosa in custodia e l'evento lesivo, nesso che nel caso di specie non era stato provato dal danneggiato, risultando al contrario che la causa esclusiva dell'incidente andava individuata nella velocità eccessiva tenuta dal T. rispetto al limite dei 70 kmh e quindi nella sua condotta imprudente.

Ed è appena il caso di sottolineare come la decisione impugnata sia assolutamente in linea con l'indirizzo di questa Corte, secondo cui la norma di cui all'art. 2051 cod. civ. applicabile agli enti pubblici proprietari o manutentori di strade aperte al pubblico transito in riferimento a situazioni di pericolo derivanti da una non prevedibile alterazione dello stato della cosa, non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, (cfr Cass. n. 15389/2011).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22914


Esercizio del diritto di critica sul comportamento della P.A.


Va soggiunto che deve essere lasciato ampio spazio all'esercizio del diritto di critica, in materie che attengono al comportamento della pubblica amministrazione, ed in particolare allo svolgimento dei concorsi ed alla selezione del personale: materie in cui le esigenza di correttezza, equanimità e onestà di giudizio assumono particolare rilievo - un rilievo tanto maggiore quanto più impellenti, penetranti ed insidiosi sono i fattori oggettivi e soggettivi che possono indurre ad eluderne il rispetto.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22913


Invalidità permanente e presunzione del danno da lucro cessante


La doglianza è fondata e deve essere accolta. 

Questa Corte è ormai costante nel ritenere che, se non può farsi discendere in modo automatico dall'invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da guella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica, non si può non considerare però che le lesioni non irrilevanti della integrità personale di un minore di età, non svolgente attività lavorativa, sono presumibilmente destinate a produrre un danno patrimoniale futuro, in termini di riduzione della sua futura capacità di guadagno. Pertanto, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, "al fine di determinare il relativo danno il giudice deve tener conto non soltanto della rilevanza quantitativa delle lesioni, in termini di percentuale di invalidità medicalmente accertata, ma anche della loro natura e qualità - rispetto alle presumibili opportunità di lavoro che si presenteranno al danneggiato, avuto riguardo alle sue peculiari tendenze ed attitudini, dell'orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata attività redditizia, dell'educazione dallo stesso ricevuta dalla famiglia e della posizione sociale ed economica di quest'ultima, nonchè della situazione del mercato del lavoro e, infine, di ogni altra circostanza oggettivamente o soggettivamente rilevante, ferma restando la possibilità per colui che è chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare, in forza degli stessi anzidetti criteri, che il minore non risentirà alcun danno dal quel particolare tipo di invalidità" (Cass. n. 19445/08).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22911


Liquidazione dei danni morali - morte di una casalinga - presunzioni


Il motivo è fondato.

La Corte di appello ha quantificato il risarcimento dei danni non patrimoniali spettante ai superstiti assumendo come base il danno non patrimoniale che sarebbe spettato alla vittima, che ha quantificato in una somma variabile fra un terzo e la metà del danno biologico del 100%, subito dalla vittima stessa. Ha indicato in Euro 150.000,00 (1/2 di 300.000,00) il relativo importo, che ha ridotto ad Euro 105.000,00 in considerazione del concorso di colpa del 30%. Ha poi determinato il danno non patrimoniale risarcibile ai congiunti, qualificato come danno morale riflesso, in una quota oscillante da 1/4 ad 1/3 della somma di Euro 105.000,00, cioè in Euro 35.000,00 (1/3) in favore del coniuge; ed in Euro 26.250,00 (1/4) la somma spettante a ciascuno dei figli ed alla madre.

Trattasi di procedimento liquidatorio, e di motivazione, difformi dai principi dettati da questa Corte in tema di liquidazione dei danni morali ed intrinsecamente illogici e non congruenti con le finalità della normativa in materia.

In primo luogo questa Corte ha più volte affermato che il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari del danno biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato a parte, con criterio equitativo che tenga debito conto di tutte le circostanze del caso concreto. E', pertanto, errata la liquidazione in misura pari ad una frazione dell'importo liquidato a titolo di danno biologico, perchè tale criterio non rende evidente e controllabile l'iter logico attraverso cui il giudice di merito è pervenuto alla relativa quantificazione, nè permette di stabilire se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo (Cass. civ. Sez. 3, 16 febbraio 2012 n. 2228; Idem, 29 novembre 2011 n. 25222; Idem, 12 dicembre 2008 n. 29191, fra le tante).

Occorre invece provvedere all'integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni semplicistico meccanismo di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell'ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del danneggiato, della gravità delle conseguenze pregiudizievoli e delle particolarità del caso concreto, al fine di valutare in termini il più possibile equilibrati e realistici, l'effettiva entità del danno (Cass. civ. Sez. Lav., 21 aprile 2011 n. 9238. Anche nel caso in cui siano derivate dell'illecito lesioni personali e non la morte, il danno subito dai congiunti deve essere concretamente accertato sulla base di una valutazione complessiva ed equitativa, che tenga conto della peculiare relazione affettiva di ogni danneggiato con la vittima, in relazione alla peculiare situazione familiare, alle abitudini di vita, alla consistenza del nucleo familiare ed alla compromissione che ne sia derivata dal sinistro, e di ogni altra circostanza (Cass. civ. Sez. 3, 5 ottobre 2010 n. 20667). A maggior ragione ciò deve avvenire qualora l'illecito abbia provocato la morte della vittima.

Inoltre, pur se l'importo del risarcimento va quantificato in un'unica somma (come indicato da Cass. civ. S.U. 11 novembre 2008 n. 26972, leading case in materia), il giudice deve dimostrare nella motivazione di avere tenuto conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale abbia assunto nel caso concreto, ed in particolare del danno insito nella perdita del rapporto parentale, oltre che delle sofferenze morali transeunti (cfr. Cass. civ. Sez. 3, 28 novembre 2008 n. 28423).

Dalla sentenza impugnata non risulta alcuna motivazione in tal senso.

[...]

Il motivo è fondato.

Questa Corte ha più volte deciso che in caso di morte di una casalinga i congiunti conviventi hanno diritto al risarcimento del danno subito per la perdita delle prestazioni attinenti alla cura ed assistenza dalla stessa fornita, le quali, benchè non produttive di reddito, sono valutabili economicamente, o facendo riferimento al criterio del triplo della pensione sociale o ponendo riguardo al reddito di una collaboratrice familiare (con gli opportuni adattamenti per la maggiore ampiezza di compiti esercitati dalla casalinga) (Cass. civ. Sez. 3, 12 settembre 2005 n. 18092; Idem, 24 agosto 2007 n. 17977; Idem,. Ha soggiunto che il diritto al risarcimento spetta anche nei casi in cui la vittima si avvalesse di aiuti o collaboratori domestici, perchè comunque i suoi compiti risultano di maggiore ampiezza, intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente (Cass. civ. Sez. 3, n. 17977, cit; Idem, 20 luglio 2010 n. 16896). La motivazione della Corte di appello, secondo cui "Non sembra che gli allora attori abbiano dedotto il benchè minimo elemento di prova in ordine non soltanto all'attività di casalinga della loro congiunta deceduta, ma anche con riferimento all'attività in concreto dalla stessa esercitata in ambito familiare" è insufficiente ed incongrua. Quanto alla qualità di casalinga, per mancanza di possibili alternative, trattandosi di donna convivente con la famiglia e non essendo stato affermato da alcuno, nè dedotto a prova, che lavorasse fuori casa (caso quest'ultimo in cui la sussistenza di un danno patrimoniale per i congiunti, derivante dalla perdita del relativo reddito, sarebbe stato innegabile e probabilmente maggiore.

Quanto alla prova delle attività concretamente svolte dalla D. B., correttamente rilevano i ricorrenti che qui soccorrono le presunzioni, trattandosi di madre di famiglia, con marito, tre figli e una madre anziana, tutti conviventi, e considerato che nessuno dei controinteressati ha dedotto e dimostrato che la vittima passasse le sue giornate a letto. (Per avere un'idea della persona, basti l'annotazione della stessa sentenza impugnata, secondo cui la D. B. è stata investita mentre si recava da una vicina, portando con sè dei pacchi con del pane e una teglia da forno: cfr. pag. 5).

Se c'è un caso in cui il ricorso alla prova per presunzioni è da ritenere autorizzato ed auspicabile è per l'appunto quello in esame, salva restando l'esigenza che il danneggiato fornisca la prova specifica del danno nei casi in cui avanzi, in relazione alla morte di una casalinga, pretese di particolare rilievo economico, od inconsuete ed abnormi in relazione a quanto avviene nella normalità dei casi.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22909


22 gennaio 2013

Inidoneità della notifica della sentenza in forma esecutiva a far decorrere il termine lungo per l'impugnazione


La circostanza, messa in evidenza dalle parti ricorrenti, che la sentenza sia stata notificata ai fini dell'esecuzione, non altera i termini della questio juris nè della soluzione della stessa, dal momento che la inidoneità della notifica della sentenza in forma esecutiva a far decorrere il termine annuale per l'impugnazione è collegata alla circostanza che essa sia indirizzata - e quindi notificata - esclusivamente alla parte di persona, per l'ovvia ragione che in questo caso quest'ultima potrebbe non essere in grado, nel breve termine di sessanta giorni, di valutare appieno l'opportunità se proporre ricorso o meno, essendo dunque del tutto irrilevante la volontà della parte che abbia richiesto la notifica (Cass., Sez. 1, n. 14642/2001).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-12-2012, n. 22833


20 gennaio 2013

Art. 1458 cod. civ.: l'irretroattività concerne le prestazioni eseguite; non quelle ineseguite


Il motivo è fondato.

La Corte di appello ha motivato la sua decisione richiamando il principio enunciato da Cass. n. 2821/1982, per cui la mancata esecuzione della prestazione da parte di un contraente autorizza la controparte a sospendere a sua volta l'esecuzione della controprestazione, "ma non esime dall'adempimento della relativa obbligazione con riferimento all'intera durata della locazione, o comunque fino alla data con effetto dalla quale viene pronunziata la risoluzione del contratto..." (pag. 8 della sentenza).

Tale motivazione è insufficiente a giustificare la decisione, perchè generica e astratta.

Il principio di cui alla citata sentenza n. 2811/1982 (non seguito da altre e più recenti decisioni) non è significativo, in mancanza di ogni specificazione circa la natura della fattispecie in relazione alla quale è stato enunciato e circa le ragioni per cui la considerazione del complessivo svolgimento del rapporto ebbe in quel caso a giustificare l'obbligo di pagare il canone.

Il principio di cui all'art. 1458 c.c., comma 1, secondo cui nei contratti di durata - qual è l'affitto di azienda - la risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, sta a significare che la parte che abbia eseguito la sua prestazione può pretendere la controprestazione fino alla data della pronuncia di risoluzione; ma (ovviamente) non significa che la controprestazione spetti anche a chi la prestazione non abbia concretamente reso.

L'irretroattività concerne le prestazioni eseguite; non quelle ineseguite, e l'esigenza di rispetto del sinallagma non viene meno neppure nella disciplina degli effetti della risoluzione.

Nella specie si è accertato che, nel periodo successivo alla giustificata chiusura dell'attività, l'affittuario non ha percepito la prestazione corrispettiva a causa dell'inagibilità dei locali.

Ne consegue che egli non può essere condannato al pagamento del canone per quel periodo, pur se anteriore alla pronuncia di risoluzione.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22902

La responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia


Con riguardo al primo aspetto, quindi alla dedotta violazione dell'art. 2051 cod. civ., è sufficiente richiamare il principio per il quale la responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia, pur non fondandosi su un comportamento od un'attività del custode, ma su una relazione intercorrente tra questi e la cosa dannosa e pur rinvenendo il proprio limite nell'intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene non ad un comportamento del responsabile ma alle modalità di causazione del danno (cfr. Cass. n. 11227/08), è esclusa in tutti i casi in cui l'evento sia imputabile ad un caso fortuito, riconducibile non alla cosa ma ad un elemento esterno, avente i caratteri dell'inevitabilita e dell'imprevedibilità (cfr., tra le altre, Cass. n. 15383/06), ancorchè dipendente dalla condotta colpevole di un terzo o della stessa vittima (cfr. Cass. n. 4279/08, n. 25029/08, n. 993/09, n. 22807/09).

Sebbene la sentenza non abbia espressamente menzionato la situazione dedotta dall'attore quale causa del danno, vale a dire la presenza sul pavimento di una coperta sporgente da uno dei letti dei degenti impropriamente sistemati nel corridoio, ha tuttavia considerato la collocazione di questi letti; ha perciò evidenziato che si trattava di situazione logistica del tutto nota al danneggiato, così finendo per imputare a quest'ultimo la mancata considerazione dell'altra situazione altrettanto prevedibile, quale conseguenza di quella nota (cioè la possibile presenza dell'ostacolo costituito dalla coperta), ed escludendo la rilevanza causale della scarsa illuminazione dei luoghi, poichè rientrante negli schemi della più ovvia normalità in tempo di notte ed all'interno di un ospedale in presenza di ammalati. Pertanto, la valutazione della condotta del danneggiato come causa esclusiva dell'evento, come tale assimilabile al caso fortuito idoneo ad elidere la responsabilità del custode non viola l'art. 2051 cod. civ. come sopra interpretato, perchè è presupposto il comportamento, non solo colpevole, ma anche anomalo del danneggiato, in un contesto che gli era ben noto e che l'avrebbe dovuto indurre a non fare affidamento sulla sicurezza dei luoghi.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22898


Danno biologico iure hereditatis - danno c.d. catastrofale - danno biologico c.d. terminale o tanatologico


Il motivo di ricorso non è meritevole di accoglimento. S'impone una premessa, che non è solo terminologica, ma anche concettuale:

sebbene le ricorrenti facciano riferimento al "danno biologico iure hereditatis" e sebbene questa espressione sia stata ripresa anche dalla Corte d'Appello, risulta dagli atti, dal ricorso e dal complesso della motivazione della sentenza impugnata, così come dai precedenti richiamati sia da quest'ultima che dagli atti di parte, che le ricorrenti e il giudice d'appello (e prima di questo, anche il Tribunale) si siano riferiti al danno c.d. catastrofale.

Quest'ultimo va definito come il danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della propria vita (cfr., da ultimo, Cass. n. 1072/11, n. 19133/11). La giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, i cui approdi più recenti si intendono qui confermare, è nel senso che tale ultimo danno, per un verso, debba essere distinto dal danno biologico c.d. terminale o tanatologico (danno connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute), il cui risarcimento non risulta essere stato rivendicato dalle odierne ricorrenti; per altro verso, si distingua - distinzione, che più rileva ai fini della presente decisione - dal danno biologico rivendicato iure hereditatis dagli eredi di colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale, abbia, in tale periodo, sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico, quindi accertabile (ed accertata) con valutazione medico-legale e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22896


Legittimazione passiva delle vecchie Unità Sanitarie Locali


Il secondo motivo è fondato nei sensi di seguito indicati.

Sussiste infatti la legittimazione passiva della disciolta ULSS (OMISSIS) in quanto le Sezioni Unite di questa Corte, fin dalla sentenza 8 maggio 1997, n. 7482, hanno affermato che "per quanto concerne le posizioni debitorie facenti capo, originariamente, alle Unità Sanitarie Locali, alla soppressione di queste Unità con la contemporanea istituzione delle Aziende Unità Sanitarie Locali disposta con il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, consegue: per un verso, non già l'estinzione delle dette Unità ma il prolungamento della loro soggettività attraverso una fase di liquidazione; e, per altro verso - stante le disposizioni di cui alle L. 23 dicembre 1994, n. 724 e L. 28 dicembre 1995, n. 549, nonchè delle varie leggi regionali - una sorta di successione ex lege delle regioni nei rapporti obbligatori già di pertinenza delle soppresse Unità Sanitarie Locati: quindi, ove siffatta successione si sia verificata nel corso del giudizio, l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 111 c.p.c., comma 1 (v. da ultimo Cass., S.U. 6 marzo 1997, n. 1989), con la connessa persistenza della legittimazione processuale delle Unità Sanitarie Locali".

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22895


Superamento del massimale di legge nella liquidazione dei danni


Il motivo è palesemente fondato.

Risulta, difatti, provato per tabulas, l'avvenuto ed irredimibile superamento del massimale di legge nella liquidazione dei danni da parte della corte etnea, e risulta altresì pacificamente consolidato - alla luce di una costante giurisprudenza di questa corte - il principio di diritto secondo il quale il massimale di polizza, del quale non è lecito predicare la natura di fatto processuale meramente impeditivo o estintivo, ha la funzione di configurare e delimitare normativamente il diritto del danneggiato, onde la conseguente rilevabilità (anche) officiosa da parte del giudice (e pluribus, Cass. 9019/09; 7247/06; 4485/03).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22893


Pacchetto turistico


Il motivo è privo di pregio.

Esso si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello nella parte in cui ha ritenuto che il contratto sottoscritto tra le parti avesse ad oggetto non una vacanza organizzata direttamente dall'agenzia oggi resistente, bensì l'acquisto di un pacchetto turistico integralmente organizzato da altro soggetto, ed ha interpretato - con apprezzamento di fatto che in questa sede ; si sottrae a qualsiasi censura risultando scevro da errori logico-giuridici - l'atto di citazione in appello come funzionale, quanto al motivo sub B), a censurare la sentenza di primo grado proprio sul punto (espressamente contestato dall'appellante nella parte in cui si indicava la V. come organizzatrice del viaggio) oggi contestato in parte qua dal ricorrente.

E' appena il caso di osservare, in argomento, come debba ritenersi ampiamente e consonantemente consolidata presso questa corte regolatrice quella giurisprudenza predicativa del principio di diritto secondo il quale l'interpretazione dell'atto di citazione (nella specie, in appello) è compito demandato in via esclusiva al giudice di merito nella misura e nella parte in cui esso risulti afferente alla sfera del fatto, così che essa sfugge a qualsivoglia sindacato di legittimità se, come nella specie, esente da vizi logico-giuridici.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-12-2012, n. 22891


Contratto misto e la relativa disciplina giuridica


Questa S.C. ha statuito al riguardo che, in tema di contratto misto, la relativa disciplina giuridica va individuata in quella risultante dalle norme del contratto tipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddetta teoria dell'assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l'ampiezza del vincolo contrattuale, ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente (Cass. Sez. U, n. 11656 del 12/05/2008; Cass. Sez. 3, a 13399 del 22/06/2005).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-12-2012, n. 22828


L'azione di ripetizione di indebito


La Corte territoriale, premesso che l'azione di ripetizione di indebito (come era stata qualificata dal Tribunale l'azione proposta dalla M.) presuppone l'assolvimento da parte dell'istante dell'onere della prova sia dell'avvenuto pagamento sia della mancanza di una causa (ovvero del venir meno di questa) che lo giustifichi, ha ritenuto che nella fattispecie la M. non aveva assolto a detti oneri probatori; invero era emerso che l'assegno cui aveva fatto riferimento la M. (prodotto in copia da quest'ultima) attestava un pagamento non già da parte dell'attuale ricorrente alla P., bensì da parte del S., marito della M., a F.G., convivente della P., e che la prova orale non aveva offerto convincenti elementi per ritenere che detto pagamento fosse stato effettuato dal S. in nome e per conto della P., a tal fine essendo evidentemente insufficiente la circostanza che la consegna del predetto assegno era avvenuta alla presenza di quest'ultima; d'altra parte la deposizione del S., favorevole all'assunto della M., era risultata isolata nel contesto della prova orale e documentale, posto che gli altri due testi O.P. e F.M., indifferenti alle parti in causa, avevano fatto riferimento ad un pagamento effettuato dal S. a F.G., circostanza che collimava con i contenuti dell'assegno, ed anche ad accordi intercorsi tra questi ultimi, circostanza quindi che logicamente sembra giustificare la dazione dell'importo oggetto dell'assegno dal primo in favore del secondo; ancora il giudice di appello non ha ritenuto affatto congruente la deposizione del S. nella parte in cui era stata individuata la causale del versamento suddetto nella compravendita di azienda tra le parti in causa, compravendita in ordine alla quale invero il Tribunale aveva rilevato il difetto di prova; infine la sentenza impugnata ha evidenziato che la scrittura privata del 31-10- 1989, nella quale le parti avevano espresso l'impegno di costituire una s.r.l., non conteneva alcuna indicazione sul capitale della futura società, nè un qualsiasi accenno ai conferimenti delle parti, fossero essi in danaro o in quote aziendali.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-12-2012, n. 22826


Al vaglio delle SS.UU. la legittimazione processuale dell'amministratore di condominio


In relazione alla questione sollevata dal Procuratore Generale il Collegio ritiene che, all'interno della giurisprudenza di questa Corte, sussiste un contrasto a proposito della legittimazione processuale dell'amministratore di condominio in generale e di quella passiva, prevista dall'art. 31 cod. civ., comma 2 in particolare, ravvisandosi uno stato di obiettiva incertezza sulla portata della norma citata ovvero sulla individuazione delle controversie aventi a oggetto interessi comuni ai condomini.

a) Secondo un orientamento largamente maggioritario, la giurisprudenza ritiene che ciascun condomino è legittimato a proporre, ai sensi dell'art. 1130 c.c., n. 4, le azioni reali a difesa e a conservazione della proprietà comune, senza che si renda necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti, sul rilievo che il diritto di ciascun condomino investe la cosa comune nella sua interezza sia pure col limite del concorrente diritto altrui (Cass. 22886/2010; 9093/2007; 19460/2005; Cass. 9460/2005; 16327/2002).

Il principio è stato formulato con riferimento a fattispecie in cui il condomino o l'amministratore aveva agito chiedendo l'accertamento o rivendicando la natura condominiale dei beni.

L'esclusione del litisconsorzio necessario nei confronti di tutti i condomini è stata quindi affermata, con riferimento alla legittimazione passiva dell'amministratore, nell'ipotesi in cui un terzo aveva rivendicato la proprietà esclusiva del bene, (Cass. 22886/2010) o ancora nel caso in cui il condomino, convenuto in giudizio dal condominio che aveva rivendicato la condominialità del bene, aveva eccepito l'acquisto per usucapione della proprietà esclusiva (Cass. 9093/2007) o aveva semplicemente dedotto di esserne proprietario (Cass. 9460/2005).

b) Secondo un altro indirizzo ricorre, invece, l'ipotesi del litisconsorzio necessario nei confronti di tutti i condomini, anche nell'ipotesi in cui il convenuto, sia pure soltanto in via di eccezione, deduca di essere proprietario esclusivo della porzione immobiliare in questione (Cass. 4475/1988; 13064/1995; 9715/1997; 8119/1999; 7468/2000; 2925/2001; 8666/2001; 5190/2002): si è in proposito ritenuto che la sentenza, avendo a oggetto un rapporto unico plurisoggettivo ovvero l'accertamento circa la condizione giuridica del bene, sarebbe inutiliter data (sulla natura non conservativa delle azioni aventi a oggetto l'accertamento circa la condizione giuridica del bene cfr. Cass. 23065/2009).

c) Un altro orientamento ancora ravvisa la necessità di integrare il contraddittorio soltanto nel caso m cui il convenuto proponga a sua volta domanda riconvenzionale per 'accertamento della proprietà esclusiva del bene (cfr. 19385/2009; 12439/2000; 7705/1996; 11626/1992); sugli orientamenti indicati sud b) e sub c), v. Cass. 15547/2005 in motivazione.

Di recente, poi, è intervenuta la sentenza n. 6607/2012 che, richiamando Cass. 6056/2006, ha ravvisato il litisconsorzio necessario anche nel caso in cui sia da alcuni condomini proposta domanda per far dichiarare la natura comune di un bene, sul rilievo che l'accertamento della proprietà di un bene non può essere effettuato se non nei confronti di tutti i soggetti a vantaggio o verso i quali esso è destinato ad operare, secondo l'effetto di giudicato richiesto con la domanda.

Oltre a quanto sopra evidenziato, l'incertezza sulla interpretazione del citato art. 1131, comma 2 è ulteriormente rafforzata dal recente arresto di Cass. 11757/2012, secondo cui la impugnazione della delibera di modificazione delle tabelle millesimali, a differenza della impugnazione della tabella millesimale - che è cosa diversa - va proposta nei confronti dell'amministratore, sul rilievo che lo stesso è sempre legittimato a resistere alle de iterazioni assunte dall' assemblea. Peraltro, sarebbe pure da chiarire se, a seguito della decisione delle Sezioni Unite (n. 18477/2010) - secondo cui l'atto di approvazione delle tabelle millesimali, non avendo al pari di quello di revisione delle stesse, natura negoziale, non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136 c.c., comma 2, - non debba ritenersi la legittimazione passiva dell'amministratore anche nei giudizi aventi a oggetto la formazione o la revisione delle tabelle millesimali.

Pertanto, deve disporsi a trasmissione degli atti al Primo Presidente perchè valuti l'opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite.

Cass. civ. Sez. II, Ord., 12-12-2012, n. 22825


Eccesso di potere giurisdizionale


E' noto che l'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è configurabile solo qualora si possa affermare che il giudice abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, ponendo in essere un'attività di produzione normativa che non gli compete. Nulla di tutto ciò sussiste, invece, quando il medesimo giudice si sia attenuto al compito d'interpretazione che gli è proprio, ricercando nell'ordinamento gli elementi da cui desumere la volontà della legge applicabile nel caso concreto (cfr., in argomento, Sez. un 21 novembre 2011, n. 24411; Sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2068; Sez. un., 30 dicembre 2004, n. 24175; e Sez. un., 15 luglio 2003, n. 11091).

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 12-12-2012, n. 22784


Chiamata del terzo - causa inscindibile - interpretazione della domanda


La Corte d'appello ha fatto corretta applicazione del principio per cui "quando il convenuto chiami in causa un terzo per ottenere la declaratoria della sua esclusiva responsabilità e la propria liberazione dalla pretesa dell'attore la causa è unica ed inscindibile, potendo la responsabilità dell'uno comportare l'esclusione di quella dell'altro, ovvero, nella ipotesi di coesistenza di diverse autonome responsabilità, ponendosi l'una come limite dell'altra; e pure ove l'attore non estenda la propria domanda contro il chiamato, la domanda stessa si intende automaticamente riferita anche al terzo, trattandosi di individuare il vero responsabile nel quadro di un rapporto oggettivamente unitario. Ne consegue che non è possibile procedere alla separazione del giudizio principale da quello instaurato con la chiamata in causa del terzo senza incorrere nella violazione del principio del contraddittorio e quindi nella sanzione di nullità di tutte le successive attività processuali ed altresì che i due giudizi devono rimanere uniti anche nelle fasi di impugnazione" (Cass. n. 4529 del 1995; Cass. n. 7039 del 1997; Cass. n. 2219 del 2000; Cass. n. 11366 del 2002; Cass. n. 847 del 2007).

[...]

In proposito, si deve rilevare che nella giurisprudenza di questa Corte è saldo il principio per cui "in tema d'interpretazione della domanda, il giudice di merito è tenuto a valutare il contenuto sostanziale della pretesa, alla luce dei fatti dedotti in giudizio e a prescindere dalle formule adottate" (Cass. n. 19630 del 2011); il giudice di merito, non è tenuto, quindi, "ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte i- stante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un'istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il petitum e la causa pretendi" (Cass. n. 3012 del 2010; Cass. n. 22665 del 2004).

Più in generale, in contrasto con quanto sostenuto dalla ricorrente, deve ricordarsi che "il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) - come il principio del tantum devolutum quantum appellatum (artt. 434 e 437 cod. proc. civ.) - non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti, autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all'applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall'istante, ma implica tuttavia il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita - diverso da quello richiesto (petitum mediato) - oppure di emettere qualsiasi pronuncia - su domanda nuova, quanto a causa petendi - che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo - anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte - ma su elementi di fatto, che non siano, invece, ritualmente acquisiti come oggetto de contraddittorio" (Cass. n. 11039 del 2006; Cass. n. 15496 del 2007;

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 12-12-2012, n. 22776


Art. 2054 cod. civ. e necessità di verifica della guida irreprensibile


Il motivo è infondato.

Secondo questa Corte infatti in tema di responsabilità derivante da circolazione stradale, il giudice che abbia in concreto accertato la colpa di uno dei conducenti non può, per ciò solo, ritenere superata la presunzione posta a carico anche dell'altro dall'art. 2054 c.c., comma 2, ma è tenuto ad accertare in concreto se quest'ultimo abbia o meno tenuto una condotta di guida irreprensibile (Cass., 16 maggio 2008, n. 12444).

Nel caso in esame, l'incerta situazione probatoria non ha consentito di accertare quest'ultimo dato. La doglianza in esame è pertanto infondata alla luce della considerazione che, anche quando possa dirsi certa la responsabilità di uno dei conducenti, trova applicazione la presunzione di cui alla disposizione citata quando dalle risultanze processuali non sia emersa la prova di una colpa esclusiva a carico dello stesso conducente.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-12-2012, n. 22639


Il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante


Il motivo è infondato. A riguardo, torna opportuno premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante non può farsi discendere in modo automatico dall'accertamento dell'invalidità permanente, poichè esso sussiste solo se tale invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. A tal fine, il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere un'attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo l'infortunio, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali (Cass., 27 aprile 2010, n. 10074; Cass., 8 agosto 2007, n. 17397).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-12-2012, n. 22638


Giudizio petitorio subordinato alla definizione del giudizio possessorio


...ai fini dell'applicabilità dell'art. 705 c.p.c., il quale fa divieto al convenuto nel giudizio possessorio di proporre giudizio petitorio finchè il primo non sia stato definito e la sentenza non sia stata eseguita, deve intendersi per giudizio petitorio quello in cui si contenda circa l'appartenenza del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa rispetto alla quale sia stata sollecitata la tutela possessoria, volta a contrastare quest'ultima (cfr., tra le tantissime, Cass. 8 settembre 1994, n. 7701; Cass. 5 novembre 1990, n. 10609);

l'azione di riscatto di un fondo rustico, proposta dal coltivatore diretto pretermesso nella vendita, ai sensi della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, si risolve nell'accertamento del diritto di proprietà dell'immobile ed implica pertanto una controversia (di natura reale) circa l'appartenenza di tale diritto (in termini, ad esempio, Cass. 11 marzo 1992, n. 2928. Sempre nello stesso ordine di idee, altresì, tra le altre, Cass. 31 luglio 2006, n. 17433).

Pertanto, il convenuto nel giudizio possessorio - nel caso in esame il ricorrente L.M. - non può proporre autonoma domanda finchè il primo giudizio non sia definito e la decisione non sia stata eseguita (Cass. n. 3415/07 e Cass. n. 17245/11, anche se in tema di spoglio della servitù di passaggio) e correttamente - quindi - il giudice del merito ha dichiarato improponibile la domanda del L.M., proposta, si noti, alcuni mesi dopo la citazione in possessorio da parte dei coniugi L. (citazione in possessorio dei coniugi L. del 26 giugno 1997; citazione L.M. in riscatto del 9 ottobre 1997).

Deve escludersi, da ultimo - in termini opposti rispetto a quanto invoca la difesa del ricorrente - che nella specie la domanda giudiziaria era proponibile in applicazione della regola di cui a C. cost. 3 febbraio 1992, n. 25 (che, come noto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 705 c.p.c., comma 1, nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria ed all'esecuzione della decisione nel caso che ne derivi, o possa derivarne, un pregiudizio irreparabile al convenuto).

E' sufficiente al riguardo considerare - a prescindere da ogni altra considerazione - che questa Corte regolatrice ha ripetutamente affermato che in tema di prelazione agraria - anche dopo l'entrata in vigore della L. n. 2 del 1979, che costituisce interpretazione autentica della L. n. 590 del 1965 - il diritto di riscatto può essere esercitato in via stragiudiziale (cfr., ad esempio, Cass. 16 giugno 1990, n. 6058 e Cass. 11 febbraio 1989r n. 863, che evidenziano che qualora il retratto venga esercitato, entro l'anno della trascrizione del contratto di compravendita della citata L. n. 590 del 1965, ex art. 8, comma 5, con domanda giudiziale, questa assume anche valore di manifestazione di volontà negoziale, con la conseguenza che la successiva estinzione del processo non toglie efficacia alla dichiarazione medesima e non comporta la decadenza dal diritto di riscatto; Cass. 11 giugno 1987, n. 5084; Cass. 23 giugno 1986, n. 4166; Cass. 2 dicembre 1980, n. 6300).

Potendo il diritto di riscatto essere esercitato in via stragiudiziale è palese che nessun pregiudizio ha subito parte retraente dalla circostanza di dovere attendere, per agire giudizialmente per l'accertamento del proprio diritto in sede petitoria, la definizione di quello possessorio, ex art. 705 c.p.c..

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-12-2012, n. 22628


Il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (c.d. "pacchetto turistico" o package)


I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti, nei termini e limiti di seguito indicati.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (c.d. "pacchetto turistico" o package disciplinato dal D.Lgs. n. 111 del 1995 -emanato in attuazione della Direttiva n. 90/314/CEE-, applicabile ai rapporti come nella specie sorti anteriormente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 206 del 2005 - c.d. Codice del consumo -: v., da ultimo, Cass., 10/9/2010, n. 19283), che si distingue dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio (CCV) di cui alla Convenzione di Bruxelles del 23 dicembre 1970 (resa esecutiva in Italia con L. n. 1084 del 1977), diversamente da quest'ultimo essendo caratterizzato dalla "finalità turistica" che ne connota la causa concreta e assume rilievo come elemento di qualificazione (nonchè relativamente alla sorte) del contratto (v. Cass., 12/11/2009, n. 23941; Cass., 24/4/2008, n. 10651; Cass., 20/12/2007, n. 26958; Cass., 24/7/2007, n. 16315), l'organizzatore e il venditore di pacchetti turistici sono ex art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 c.c. tenuti ad una prestazione improntata alla diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri del rispettivo specifico settore professionale.

Le obbligazioni professionali sono caratterizzate dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il contraente fa affidamento al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato.

Lo specifico settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede pertanto la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell'attività necessaria per l'esecuzione delle attività professionali in argomento.

Come in giurisprudenza di legittimità si è già avuto modo di porre in rilievo, i limiti di tale responsabilità sono quelli generali in tema di responsabilità contrattuale (v. Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533), presupponendo questa l'esistenza della colpa lieve del debitore, e cioè il difetto dell'ordinaria diligenza.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-12-2012, n. 22619


Art. 180 cod. civ.


In tema di regime patrimoniale della famiglia, la disciplina dell'amministrazione dei beni oggetto della comunione legale, di cui all'art. 180 cod. civ., e segg., presuppone, per la sua operatività, che il bene sia già oggetto della comunione, e pertanto non è applicabile alla fase dinamica pregressa dell'acquisto del bene alla comunione legale (ancorchè questo, a tutela della famiglia, sia poi destinato a cadere in comunione ope legis, una volta completatosi l'effetto reale), come nel caso dell'esercizio del diritto di riscatto, che non compete perciò ad entrambi i coniugi in quanto in "regime di comunione legale dei beni, bensì a colui che ha i requisiti di legge, e cioè è proprietario e coltivatore diretto del fondo confinante (salva all'altro la possibilità, a norma dell'art. 181 cod. civ., come modificato dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 60, di ricorrere al giudice per ottenere l'autorizzazione al compimento dell'atto - nella specie esercizio del riscatto - non voluto compiere dal primo e ritenuto necessario nell'interesse della famiglia o dell'azienda comune).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-12-2012, n. 22613


Interrogatorio formale del contumace


Valga considerare che - come affermato proprio in uno dei precedenti richiamati da parte ricorrente (l'altro non rileva, perchè riguarda l'interrogatorio libero) - la mancata osservanza dell'art. 292 c.p.c., nella parte in cui dispone la notificazione al contumace dell'ordinanza che ammette l'interrogatorio, impedisce il verificarsi degli effetti che la legge fa derivare dalla notificazione stessa, e cioè impedisce al giudice di tener conto della mancata risposta, valutandola a norma dell'art. 232 c.p.c., ma non comporta la nullità dell'intero procedimento, la cui regolarità, ai fini del contraddittorio, è assicurata dal rispetto delle disposizioni relative alla dichiarazione di contumacia (Cass. 14 febbraio 1976, n. 478).

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 11-12-2012, n. 22511


Il termine (ordinatorio) per la notifica del ricorso e del decreto


Il motivo di ricorso risulta manifestamente fondato sulla base del principio ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui nel rito del lavoro e, conseguentemente, nel c.d. rito locatizio, al quale 447 bis cod. proc. civ. estende le sue norme in quanto applicabili, il termine di dieci giorni assegnato all'appellante per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione (art. 435 c.p.c., comma 2) non è perentorio e, pertanto, la sua inosservanza non comporta decadenza, sempre che resti garantito all'appellato lo spatium deliberandi non inferiore a venticinque giorni prima dell'udienza di discussione della causa (art. 435 c.p.c., comma 3), perchè egli possa apprestare le proprie difese (Cass. 14 luglio 2011, n. 15590; 15 ottobre 2010, n. 21358).

Invero - come evidenziato in specie nella sentenza n. 21358/2010 - l'art. 435 c.p.c., comma 2, alla stregua del quale "l'appellante, nei dieci giorni successivi al deposito del decreto, provvede alla notifica del ricorso e del decreto all'appellato", deve essere letto ed interpretato in relazione al contenuto del successivo comma 3 del citato articolo, alla stregua del quale "tra la data di notificazione all'appellato e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni. Il che evidenzia come lo stesso legislatore, nel porre il suddetto termine (ordinatorio) di cui al comma 2, abbia disciplinato le conseguenze di una eventuale inosservanza di tale termine, prevedendo, in buona sostanza, al comma 3, che la notifica effettuata mantiene i suoi effetti, anche in caso di mancato rispetto del termine di cui al comma precedente, allorchè tra la data di notificazione e quella dell'udienza permanga un termine non inferiore a venticinque giorni. In altri termini appare chiaro, dal complesso dei due commi della disposizione all'esame, che il legislatore ha regolato normativamente le conseguenze della inosservanza del termine di cui al comma 2, prevedendo in via generalizzata il permanere degli effetti della compiuta notifica nell'ipotesi prevista dal comma 3, in tal modo superando - alla stregua delle stesse previsioni codicistiche - la necessità di uno specifico provvedimento autorizzatorio o di proroga da parte del giudice prima della scadenza del stesso termine.

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 11-12-2012, n. 22508


L'art. 2051 c.c. è applicabile anche agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito


La pronuncia oggetto di impugnazione, infatti, ha affermato - richiamando una giurisprudenza alquanto risalente di questa Corte - che l'art. 2051 cod. civ., non si applica in riferimento alle strade, non solo in ragione della natura demaniale del bene, quanto in considerazione della notevole estensione del bene stesso, il che renderebbe impossibile l'esercizio della custodia da parte dell'ente pubblico a ciò preposto.

La più recente giurisprudenza di questa Corte, invece, ha in numerose occasioni chiarito che la disciplina prevista dall'art. 2051 c.c., è applicabile anche agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito o, comunque, preposti alla loro manutenzione.

Si è detto, a questo proposito, che l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo il fortuito (sentenze 3 aprile 2009, n. 8157, 20 novembre 2009, n. 24529, 18 ottobre 2011, n. 21508, e 6 novembre 2012, n. 19154); e, in riferimento alle autostrade, attesa la loro natura destinata alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, con pagamento del relativo pedaggio, si è ritenuto generalmente configurabile un rapporto di custodia (sentenze 6 luglio 2006, n. 15383, e 19 maggio 2011, n. 11016).

Questa Corte, inoltre, ha anche avuto modo di specificare che è configurabile il caso fortuito, ai fini dell'esonero dalla responsabilità, in presenza di quelle alterazioni repentine e non specificamente prevedibili dello stato della cosa che, nonostante l'attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possono essere rimosse o segnalate per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere (in questi termini v., in aggiunta alle pronunce sopra richiamate, le sentenze 19 novembre 2009, n. 24419, 18 luglio 2011, n. 15720, e 26 giugno 2012, n. 10643).

Ciò in quanto non è configurabile la responsabilità a titolo di custodia ove questa non possa essere ragionevolmente esercitata in considerazione della particolarità dell'evento generatore di danno.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 10-12-2012, n. 22385


Atto redatto dal Pubblico Ufficiale e occasionale percezione sensoriale.


Il giudice di merito si è confrontato con il contenuto delle relazioni di servizio dei militari dell'Arma dei Carabinieri avendo bene in mente il principio, assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, per cui l'atto redatto da pubblico ufficiale fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento da chi figura averlo redatto, delle dichiarazioni rese, nell'occorrenza, dalle parti e dei fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento, laddove la fede privilegiata non può essere attribuita nè ai giudizi valutativi, nè alla menzione di quelle circostanze relative ad accadimenti avvenuti sì in presenza del pubblico ufficiale, ma che inevitabilmente involgano suoi apprezzamenti personali, perchè, svolgendosi così repentinamente da non potere essere verificati e controllati secondo un metro obiettivo, sono mediati dall'occasionale percezione sensoriale del verbalizzante (confr. Cass. civ. 22 giugno 2010, n. 15108; Cass. civ. 29 agosto 2008, n. 21816; Cass. civ. 27 ottobre 2008, n. 25842).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 10-12-2012, n. 22383


Il quesito plurimo in Cassazione - ammissibilità


Esso, difatti, contravviene al consolidato principio più volte affermato dalla (sia pur meno rigorosa) giurisprudenza di questa corte, a mente della quale il quesito plurimo (al quale altro orientamento di legittimità nega tout court ingresso in sede di giudizio di cassazione), per poter superare il vaglio di ammissibilità, deve rappresentare, contenutisticamente, una censura sostanzialmente omogenea ed unitaria, e giammai una plurima, disomogenea e disarticolata doglianza, quale quella di specie, che, da un canto (quesito n. 3, al folio 11 del ricorso) chiede alla corte di affermare se la fattura abbia valore di prova piena del credito e delle altre indicazioni in essa contenute, di talchè la mera dicitura "IVA da riscuotere", su di essa riportata, possa costituire prova del mancato versamento dell'IVA, e dall'altro (quesito n.4, al medesimo folio) formula l'ulteriore interrogativo se, nell'accertamento della comune volontà dei contraenti riguardo alle imputazioni delle somme pagate, siano stati violati, nella motivazione della sentenza, i canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c..

Cass. civ. Sez. III, Sent., 10-12-2012, n. 22366


Lo Studio ben organizzato deve rimediare all'accidente della segretaria


Orbene esattamente alla Commissione dei Ricorsi ha rilevato che l'accidente di una segretaria impedita per una propria ragione personale, oltre a non essere evento eccezionale, al contrario e perciò che in via di principio è utile a delimitare le circostanze che connotano nel quadro reale che il giudice del merito deve osservare, è invece evento del tutto riparabile in astratto con metodi che ben può uno studio internazionale depositario di delicatissimi mandati, che coinvolgono importanti interessi economici, conoscere dentro la propria organizzazione. Mettere al riparo dall'accidente che può prendere improvvisamente un dipendente, in questo caso addirittura di rango esecutivo collaborativo, incaricato di una specifica operazione, è modalità di lavoro che deve appartenere a siffatte organizzazioni e di cui davanti la giudice del merito non si è fatta menzione.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-12-2012, n. 22264


Sentenza nulla se emessa su domanda riconvenzionale non notificata alla contumace


Con l'unico motivo di ricorso si denuncia la violazione di una serie di norme processuali, e in particolare degli artt. 101 e 292 c.p.c., deducendo la nullità della sentenza del Giudice di pace in quanto emessa su domanda riconvenzionale non notificata all'attrice contumace ma semplicemente depositata all'udienza.

Il motivo è fondato, atteso che l'art. 292 c.p.c., secondo cui devono essere notificate alla parte contumace, nel termine fissato dal giudice istruttore con ordinanza, fra l'altro le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte, si riferisce anche all'ipotesi di domanda riconvenzionale proposta dal convenuto contro l'attore rimasto contumace ai sensi dell'art. 290 c.p.c. (Cass. 6522/2011, 14625/2010, 574/2001).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-12-2012, n. 22262


Inefficacia del decreto quale titolo esecutivo


Il motivo è fondato sotto il secondo, assorbente profilo.

Premesso che il vizio individuato dal Tribunale comporta la mera nullità, e non l'inesistenza, della notificazione, essendo comunque presenti elementi sufficienti ad integrare un atto di tale tipo, va ribadito che la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo, anche se causa di inefficacia del decreto quale titolo esecutivo, può essere eccepita dall'intimato solo nel giudizio di cognizione instaurato con l'opposizione ai sensi dell'art. 645 c.p.c., ovvero, se la nullità ha impedito all'opponente di avere tempestiva conoscenza del decreto stesso, con l'opposizione tardiva, ai sensi dell'art. 650 c.p.c., e non anche successivamente alla notificazione del precetto con l'opposizione di cui agli artt. 615 o 617 c.p.c., dinanzi a un giudice diverso da quello funzionalmente competente a giudicare sull'opposizione a decreto ingiuntivo (giurisp. consolidata: cfr. Cass. 8011/2009, 1202/1998, 7694/1995).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-12-2012, n. 22261


Rimessione in termini e art. 291 c.p.c.


La Corte d'appello ha ritenuto non applicabile la rimessione in termini perchè il mancato rinvenimento del fascicolo da parte della cancelleria non era idonea a giustificare l'istanza di rimessione in termini ai sensi dell'art. 184 bis e che, comunque, la stessa era stata presentata solo dieci giorni prima della scadenza del termine di cui all'art. 305 c.p.c..

In realtà come dianzi ricordato nel caso di specie la rimessione in termini non è regolata dall'art. 184 bis c.p.c. ma dall'art. 291 c.p.c..

Questa Corte ha infatti osservato che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine per la riassunzione sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della "vocatio in ius". Ne consegue che il mancato rispetto di quel termine impone al giudice, che rilevi la nullità, di ordinare la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell'art. 291 cod. proc. civ., entro un termine necessariamente perentorio, solo il mancato rispetto del quale determinerà l'eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto del citato art. 291, u.c., e del successivo art. 307, comma 3 (Cass. 14854/06 sez. un.).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-12-2012, n. 22259


Il riconoscimento tacito della scrittura privata opera solo nel processo in cui viene a realizzarsi


Trova pertanto applicazione il principio, enunciato da Cass. civile n. 11460/07, al quale il collegio intende dare continuità, secondo cui il riconoscimento tacito della scrittura privata opera esclusivamente nel processo in cui viene a realizzarsi, esaurendo i suoi effetti nell'ammissione della scrittura come mezzo di prova, con la conseguenza che la parte interessata, qualora il documento sia prodotto in altro giudizio per farne derivare effetti diversi, può legittimamente disconoscerlo, non operando al riguardo alcuna preclusione, diversamente dall'ipotesi in cui - per quanto evincibile anche dal disposto dell'art. 217 c.p.c. , comma 2 - si sia provveduto all'accertamento specifico con valore di giudicato dell'autenticità della scrittura privata prodotta in precedente giudizio, che può, però, configurarsi solo attraverso il riconoscimento espresso della scrittura medesima, ovvero mediante il giudizio di verificazione dell'autenticità della scrittura che sia stata ritualmente disconosciuta.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-12-2012, n. 22252


Revocatoria fallimentare


Il motivo è fondato.

In tema di revocatoria fallimentare, le Sezioni Unite di questa Corte, risolvendo un contrasto di giurisprudenza, hanno da tempo affermato il principio, in seguito costantemente ribadito, secondo cui le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell'imprenditore, poi fallito, non sono revocabili ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, quando risulti che attraverso tali atti il terzo non ha posto la somma nella disponibilità giuridica e materiale del debitore, ma, senza utilizzare una provvista del debitore e senza rivalersi nei suoi confronti prima del fallimento, ha adempiuto l'obbligazione del debitore principale o quella dell'eventuale fideiussore, ovvero ha adempiuto un'obbligazione che, per quanto già gravante sul debitore, incide su di lui, in relazione ad un rapporto in atto con la banca creditrice, per evitare le conseguenze cui l'avrebbe esposto l'inadempimento (cfr., Cass., Sez. Un., 12 agosto 2005, n. 16874; Cass., Sez. 1^, 24 febbraio 2011, n. 4553; 14 febbraio 2011, n. 3583; 22 maggio 2008, n. 13092).

Può quindi ritenersi definitivamente superato il diverso orientamento, richiamato nella sentenza impugnata, secondo cui il principio alla stregua del quale i pagamenti eseguiti dal terzo sono revocabili solo in dipendenza della loro effettuazione con denaro dell'imprenditore o a seguito di esercizio della rivalsa da parte del terzo prima della dichiarazione di fallimento non può trovare applicazione nell'ipotesi in cui il pagamento sia stato effettuato dal terzo sul conto corrente del debitore, dal momento che in tal caso nell'operazione s'inserisce il diaframma del rapporto di conto corrente, nel quale il versamento del terzo resta attratto, venendo a costituire una variazione quantitativa del conto (vale a dire una posta attiva del correntista, nella cui titolarità confluisce l'importo accreditato), con la conseguenza che, ai fini dell'azione revocatoria, le rimesse del terzo sono toni comi equiparabili alle rimesse ed ai versamenti del correntista (Cass., Sez. 1^, 8 aprile 2004, n. 6943; 10 settembre 2002. n. 13159).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-12-2012, n. 22247


Azione di reintegrazione nel possesso


Anche con riferimento all'elemento soggettivo in tema di azione di reintegrazione nel possesso la Corte territoriale si è conformato all'esatto principio (cfr., ad es., Cass. n. 8486 del 2000 e Cass. n. 2957 del 2005) secondo cui "l'animus spoliandi" può ritenersi insito nel fatto stesso di privare del godimento della cosa il possessore contro la sua volontà, espressa o tacita, indipendentemente dalla convinzione dell'agente di operare secondo diritto ovvero di ripristinare la corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di diritto, mentre la volontà contraria allo spoglio da parte del possessore può essere esclusa soltanto da circostanze univoche ed incompatibili con l'intento di contrastare il fatto illecito come il suo consenso, l'onere della cui prova grava sul soggetto autore dello spoglio medesimo (prova, nella specie, sicuramente non offerta dagli attuali ricorrenti, i quali non avevano inteso nemmeno riconoscere il possesso dei P.).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 07-12-2012, n. 22174


Notifica a ditta individuale - inesistenza - irrilevanza


Va dichiarata l'inammissibilità del ricorso che è stato notificato il 13-9-2006 oltre il termine di cui alL'art. 325 cod. proc. civ., tenuto conto che la sentenza impugnata era stata notificata il 15/5/2006 al difensore costituito di S.E. presso il domicilio eletto nel giudizio di appello. Al riguardo, è del tutto infondata l'eccezione sollevata con la memoria dal ricorrente circa la inesistenza della notificazione, perchè effettuata nei confronti di S.E. senza indicazione della qualità della medesima di titolare della ditta Studio Gamma Pubblicità: la mancata indicazione della ditta individuale, che è il segno distintivo dell'impresa e non è un soggetto distinto dal suo titolare, è del tutto irrilevante, non essendovi alcuna incertezza sulla identificazione del destinatario della notificazione nel soggetto che aveva rivestito la qualità di parte nel giudizio (appunto S.E.).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 07-12-2012, n. 22167


13 gennaio 2013

Espromissione


A tal proposito la Corte territoriale ha - in conformità alla giurisprudenza di questa Corte nell'interpretazione dell'art. 1272 c.c. (v., ad es., Cass. n. 609 del 1973; Cass. n. 6935 del 1983; Cass. n. 19118 del 2003 e Cass. n. 2932 del 2004) - evidenziato che l'espromissione è propriamente un contratto che intercorre fra creditore e il terzo, che assume spontaneamente l'obbligazione altrui, nel quale non vengono in considerazione i rapporti interni fra obbligato ed espromittente e nel quale non sono giuridicamente rilevanti i motivi che hanno determinato l'intervento del terzo, mentre la causa è costituita dalla assunzione dell'obbligazione altrui mediante un'attività del tutto svincolata dai rapporti eventualmente esistenti fra terzo e obbligato, anche se non si richiede l'assoluta estraneità dell'obbligato rispetto al terzo, essendo invece necessario che il terzo, presentandosi al creditore, non giustifichi il proprio intervento con un preesistente accordo con l'obbligato. Sulla scorta di tale presupposto ed in virtù della congrua applicazione dei criteri interpretativi (di cui agli artt. 1362 e 1362 c.c.), compatibili con la natura dell'atto in questione (in relazione al disposto di cui all'art. 1324 c.c.), fondata su un percorso argomentativo immune da vizi logici (e, perciò, insindacabile nella presente sede di legittimità: cfr., ad es., Cass. n. 5312 del 1988; Cass. n. 1615 del 1990 e Cass. 2396 del 2002), la Corte distrettuale ha sottolineato come la predetta dichiarazione prevedesse soltanto l'obbligo di fare in modo che venissero rispettati gli impegni assunti di cui alla stipula dei contratti preliminari con il S. ed il F. mediante la realizzazione delle unità immobiliari a schiera da edificare sul terreno di proprietà della s.r.l. Isaurica e, pertanto, non conteneva propriamente alcuna specifica promessa di effettuare un pagamento né il riconoscimento di avere un debito, così come non poteva qualificarsi alla stregua di una promessa rivolta al pubblico (dovendosi, oltretutto, escludere, pacificamente, la configurabilità di un titolo di credito in difetto, peraltro, del requisito essenziale della destinazione alla circolazione). La Corte di appello ha anche adeguatamente rilevato l'insussistenza della configurabilità della fideiussione, che costituisce, anch'essa, una fattispecie contrattuale (il cui patto non può risolversi nell'impegno di estinguere un debito altrui e che presuppone un incontro tra le volontà del fideiussore e del creditore della prestazione garantita), la cui causa è costituita non già dal rischio dell'inadempimento dell'obbligazione principale, ma dalla funzione di garanzia dell'adempimento dell'obbligazione mediante l'allargamento della base soggettiva la quale è del tutto indipendente dall'effettivo "rischio" di inadempimento e, dunque, dall'eventualità che il debitore principale non adempia la propria obbligazione, ovvero che il suo patrimonio (o il bene offerto in garanzia reale) sia insufficiente a soddisfare le ragioni del creditore.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 07-12-2012, n. 22166

Interpretazioni alternative della norma processuale - costituzione in appello e procura


I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi e sono infondati alla luce della decisione assunta dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 18 maggio 2011, n. 10864 (conf. Cass. 20 luglio 2012, n. 12724; Cass. 30 marzo 2010, n. 7628; Cass. 5 giugno 2003, n. 17420; Cass. 5 giugno 2007, n. 13163; Cass. 16 luglio 1997 n. 6841), che ha enunciato i seguenti principi: 1) "dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l'interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell'ambiente processuale o l'emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l'abbandono e consentano, pertanto, l'adozione dell'esegesi da ultimo formatasi"; 2) "il termine per la costituzione dell'attore, nel caso in cui l'atto introduttivo del giudizio venga notificato a più persone, è di dieci giorni decorrenti dalla prima notificazione sia nel giudizio di primo grado che in quello d'appello; tale adempimento, ove entro tale termine l'attore non sia ancora rientrato in possesso dell'originale dell'atto notificato, può avvenire depositandone in cancelleria una semplice copia (cd. "velina")"; 3) "l'art. 347 c.p.c., comma 1, nello stabilire che la costituzione in appello avviene secondo le forme ed i termini per i procedimenti davanti al tribunale, rende applicabili al giudizio d'appello le previsioni di cui agli artt. 165 e 166 cod. proc. civ., ma non quella di cui all'art. 171 cod. proc. civ, (concernente la ritardata costituzione delle parti), la quale è incompatibile con la previsione di improcedibilità dell'appello, se l'appellante non si costituisca nei termini, di cui all'art. 348 cod. proc. civ.. Ne consegue che il giudizio di gravame sarà improcedibile in tutti i casi di ritardata o mancata costituzione dell'appellante, a nulla rilevando che l'appellato si sia costituito nel termine assegnatogli".

A tali principi si può aggiungere, tenendo conto delle specifiche argomentazioni dei ricorrenti, che la conclusione raggiunta dalle Sezioni unite non è in contrasto con la previsione dell'art. 125 c.p.c., comma 2. Infatti, il rilascio della procura in data posteriore alla notificazione ma prima della costituzione può avvenire anche in caso di pluralità di parti alle quali l'atto deve essere notificato, ma soltanto con atto pubblico o scrittura privata autenticata se l'originale dell'atto non viene restituito in tempo utile per l'iscrizione a ruolo. E' vero, infatti, come assumono i ricorrenti, che il rilascio in calce o a margine dell'atto, quando non effettuato prima della notificazione, presuppone che l'atto sia stato restituito e che il notificante sia tornato in possesso dell'originale. La conseguenza, tuttavia, non è quella indicata dai ricorrenti della necessità di una diversa interpretazione dell'art. 165 c.p.c. nel caso di notificazione dell'atto ad una pluralità di parti, sebbene quella di escludere la possibilità del conferimento della procura a margine o in calce ove nel termine di dieci giorni dalla prima notificazione il notificante non sia tornato in possesso dell'originale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-12-2012, n. 21996


Riduzione della penale


Nella giurisprudenza di questa Corte - fermo restando che il criterio cui il giudice deve fare riferimento per esercitare il potere di riduzione della penale non è la valutazione del danno che sia stato accertato o risarcito, ma l'interesse che la parte ha, secondo le circostanze, all'adempimento della prestazione cui ha diritto - possono registrarsi due orientamenti in ordine al momento cui riferire la valutazione. Secondo un primo maggioritario orientamento, deve aversi riguardo all'interesse all'esecuzione del contratto al momento della stipulazione della clausola (Cass. 9 maggio 2007, n. 10626; Cass. 5 agosto 2002, n. 11710; Cass. 25 giugno 1981, n. 4146; Cass. 29 marzo 1976, n. 1130; Cass. 14 febbraio 1974, n. 419); secondo altro orientamento, si deve avere, invece, riguardo all'"incidenza che l'inadempimento ha in concreto avuto sulla realizzazione dell'interesse della parte, riferita non al solo momento della conclusione del contratto, ma a quello in cui la prestazione attesa è stata sia pure in ritardo eseguita o è definitivamente rimasta ineseguita" (Cass. 3 settembre 1999, n. 9298; conf. Cass. 14 luglio 1976, n. 2716). Il Collegio, ritiene di dover seguire tale secondo orientamento benchè la lettera dell'art. 1384 c.c., coniugando al passato il verbo "avere" riferito all'interesse del creditore, offra un indubbio elemento a favore della tesi contraria. L'elemento letterale sembra, infatti, superato dall'elemento sistematico che può trarsi dalla funzione della previsione in capo al giudice del potere di ridurre la penale. In proposito le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che il potere di riduzione ad equità, è attribuito al giudice dall'art. 1384 c.c. a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento e può essere esercitato d'ufficio per ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela (Cass. s.u. 13 settembre 2005, n. 18128). Tale funzione, come rileva la stessa decisione, nasce dalla necessità "di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366 e 1375 cod. civ.)". In questa prospettiva al Collegio non sembra possibile espungere la considerazione della fase attuativa del rapporto ai fini della considerazione dell'interesse del creditore alla prestazione.

Anche in tale fase, infatti, trovano applicazione il dovere costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost., il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) ed il dovere di buona fede (art. 1375 c.c.). 

Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-12-2012, n. 21994


Introduzione del giudizio di 1° grado per determinare la norma applicabile


Osserva il collegio che la Corte di Cassazione da tempo ha dato luogo ad un indirizzo dal quale non vi sono ragioni per dissentire secondo il quale ai sensi della disciplina dettata dalla L. n. 353 del 1990, art. 90 per stabilire se alle cause in corso a tale data trovi applicazione la disposizione antecedente ovvero il regime processuale introdotto dalla legge stessa, si deve far riferimento alla data di introduzione del giudizio di merito, coincidente solitamente con quella di notificazione della citazione davanti al giudice di primo grado(Cass. nn. 11301 del 2007, 13147 del 2003 e n. 16347 del 2004).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-12-2012, n. 21993


Interpretazione della delibera condominiale


Orbene, la doglianza innanzitutto si risolve nella censura dell'interpretazione della delibera condominiale compiuta dai Giudici che - investiti con l'impugnazione della delibera della questione relativa alla debenza o merito da parte dell'attrice delle relative spese - dovevano necessariamente verificare innanzitutto la natura dei lavori deliberati alla stregua di quanto deciso dall'assemblea.

Ciò posto, va ricordato le deliberazioni condominiali vanno interpretate secondo i criteri ermeneutici previsti dall'art. 1362 cod. civ. e segg. ed il relativo compito è assegnato al giudice del merito; poichè tale valutazione costituisce apprezzamento di fatto, è insindacabile in sede di legittimità, purchè sorretto da congrua motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. 12556/02; 4501/12006).

[...]

Ciò posto, avendo accertato - in base all'interpretazione del contenuto della delibera - che le spese avevano oggetto la statica dell'edificio, correttamente le stesse sono state poste anche a carico dell'attrice, atteso il principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui le scale, essendo elementi strutturali necessari alla edificazione di uno stabile condominiale e mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura, conservano la qualità di parti comuni, così come indicato nell'art. 1117 cod. civ., anche relativamente ai condomini proprietari di negozi con accesso dalla strada, in assenza di titolo contrario, poichè anche tali condomini ne fruiscono quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio (Cass. 15444/2007).

D'altra parte, l'attrice non potrebbe lamentare - proprio alla luce del precedente di legittimità dalla medesima richiamato - l'applicazione dei criteri di cui all'art. 1124 cod. civ., che, tenendo conto dell'altezza del piano, rappresenta un correttivo all'integrale applicazione dell'art. 1123 cod. civ. ed è diretto a tutelare proprio i proprietari dei piani inferiori in funzione della diversa utilizzazione.

Cass. civ. Sez. VI - 2, Ord., 05-12-2012, n. 21886