28 dicembre 2012

Il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto per la morte del difensore - decorrenza e conoscenza legale


Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 11162 del 2003; Cass. n. 5348 del 2007 e, da ultimo, Cass. n. 3085 del 2010), a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 139 del 1967, n. 178 del 1970, n. 159 del 1971 e n. 36 del 1976, il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto per la morte del procuratore costituito di una delle parti in causa decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento interruttivo, bensì da quello in cui una delle parti abbia avuto di tale evento conoscenza legale, mediante dichiarazione, notificazione o certificazione, non essendo sufficiente la conoscenza "aliunde" acquisita, con la conseguenza che il termine in questione non decorre contemporaneamente nei confronti di tutte le parti e che l'onere di provare la legale conoscenza dell'evento in data anteriore al semestre precedente la riassunzione o la prosecuzione (nel testo dell'art. 305 c.p.c. "ratione temporis" applicabile nella fattispecie, ovvero nella versione antecedente alla modifica introdotta per effetto della L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 14) incombe sulla parte che ne eccepisce l'intempestività, non potendo farsi carico all'altra dell'onere di fornire una prova negativa. In termini più generali, dunque, la morte del procuratore della parte, anche dopo le richiamate pronunce della Corte costituzionale, produce l'interruzione automatica del processo dal momento del suo verificarsi, indipendentemente dalla conoscenza che dell'evento abbiano le parti o il giudice, ma il termine per la riassunzione, a seguito delle citate pronunce, decorre non più dal momento in cui l'evento si è verificato, bensì da quello della notificazione o dichiarazione dell'evento e cioè dalla conoscenza legale di esso, mentre il provvedimento di interruzione ha natura e funzione meramente dichiarativa e non integrativa della fattispecie interruttiva.

Proprio sulla scorta di tali principi questa Corte, in un precedente specifico (di cui alla citata Cass. n. 11162 del 2003), ha ritenuto che l'effetto della conoscenza legale - come presupposto dalla richiamata giurisprudenza - della morte del difensore, avuta dalla parte per uno dei processi già affidati al procuratore colpito da detto evento e che si sia attivata per la sua riassunzione, è idonea a valere come tale anche per gli altri giudizi in cui siano coinvolte le medesime parti; infatti, derivando l'evento interruttivo, con effetto automatico (senza che, perciò, la relativa ordinanza giudiziale che lo attesti abbia natura costitutiva in proposito), dall'evento naturale della morte (o della radiazione o della sospensione) che colpisce uno dei procuratori delle parti ed essendo la decorrenza del termine per la H riassunzione legata alla conoscenza legale che ne abbia la parte, tale evento è suscettibile di produrre i suoi effetti per tutti i procedimenti già affidati al defunto procuratore e pendenti tra le stesse parti, essendo irrilevante il numero degli stessi e potendo sortire tale eventualità soltanto l'effetto materiale di richiedere alla parte avente interesse di avere una maggiore cura dei propri interessi al fine di non incorrere nella possibile conseguenza dell'estinzione del giudizi.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-11-2012, n. 20744

Vendita a corpo e differenza con quella a misura.


Il motivo è infondato.

Deve premettersi che, ai sensi dell'art. 1538 c.c., nella vendita a corpo - a differenza di quella a misura disciplinata dall'art. 1537 c.c. - il prezzo pattuito è determinato con riguardo all'immobile nella sua entità globale, indipendentemente dalle effettive dimensioni, salvo che la sua misura reale sia inferiore o superiore di un ventesimo a quella indicata in contratto, nel qual caso la norma in esame prevede il rimedio della rettifica del prezzo.

Come è stato chiarito da questa Corte, nel tipo di vendita in esame, l'irrilevanza dell'estensione del fondo vale soltanto in ordine alla determinazione del prezzo e non ai fini della identificazione del bene effettivamente venduto (Cass. 7-6-2000 n. 7720; Cass. 30-3-1987 n. 3042); indagine, quest'ultima, che deve essere svolta in base ai canoni legali di interpretazione della volontà negoziale (Cass. 29/9/2004 n. 19600). In particolare, è stato rilevato che, se nel contratto risultano insieme indicate una certa particella catastale senza limitazioni ed una superficie inferiore alla reale estensione di essa, il fatto che si tratti di vendita a corpo non può indurre il giudice del merito ad identificare "sic et simpliciter" il bene venduto con l'estensione corrispondente alla intera particella, dovendosi, invece, stabilire, con i consueti criteri ermeneutici, se questa sia stata soltanto richiamata come dato catastale entro cui dover intendere ricompresa la minor superficie pattuita, o sia stata indicata come oggetto stesso della vendita, ossia per tutta la sua estensione. (Cass. 30-3-1987 n. 3042). E' stato ulteriormente puntualizzato che, in tema di vendita immobiliare a corpo, l'individuazione del bene alienato va compiuta in base alla complessiva ed oggettiva descrizione fattane dai contraenti, ivi compresa la misura del fondo che -essendo, ai sensi dell'art. 1538 c.c., irrilevante esclusivamente in riferimento alla determinazione del prezzo - costituisce un elemento idoneo a concorrere, con gli elementi topografico-catastali e con i confini menzionati dalle parti, alla identificazione dell'immobile. Pertanto, pur se la misura e le risultanze catastali non possono avere valore prevalente rispetto ai confini, con cui le parti abbiano inteso ulteriormente specificare il bene venduto, deve costituire oggetto di un rigoroso accertamento l'identificazione dei confini, quando sulla base di questi si riscontri una concreta divergenza dell'estensione del fondo rispetto alla misura e ai dati catastali, ai quali le stesse parti hanno fatto riferimento. Ne consegue che in tal caso occorre verificare, sul piano storico, lo stato dei luoghi esistenti e conosciuti dalle parti al momento della stipula dell'atto, costituendo un valido criterio di indagine la presunzione di conformità di tale stato a quello anteriore (Cass. 22-11-2004 n. 22038).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-11-2012, n. 20732


Ipotesi di risoluzione del contratto e restituzioni dei beni con effetto ex lune - risarcimento danni.


Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 1148, 1458 c.c. e art. 112 c.p.c., con motivazione insufficiente e contraddittoria, per essere stata respinta la richiesta di restituzione dei frutti civili degli immobili, ritenendo non proposta la relativa domanda, sull'erroneo presupposto che la stessa sarebbe stata formulata, con esclusivo riferimento ad un'occupazione abusiva e dagli istanti qualificata risarcitoria.

Il motivo è fondato.

Va premesso che,per costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui, all'ipotesi di risoluzione del contratto, quale che sia la parte inadempiente, conseguono comunque con effetto ex lune le restituzioni dei beni, il possesso o la cui detenzione sia stata trasferita in virtù del negozio, poi caducatole dei frutti dallo stesso prodotti o producibili.

E' pur vero che,secondo la stessa giurisprudenza (citata nella sentenza impugnata), tale principio sostanziale va coordinato con quello processuale della necessità di una domanda, ma nel caso di specie, diversamente da quanto ritenuto dalla corte di merito, la richiesta deve considerarsi compresa in quella, formulata fin dal primo grado dagli odierni ricorrenti, che sia pure impropriamente qualificandola di "risarcimento danni" (che possono comunque aggiungersi agli effetti resti tutori, ove l'inadempimento abbia cagionato ulteriori pregiudizi patrimoniali), hanno tuttavia inequivocamente e sostanzialmente chiesto la restituzione del bene consegnato in forza del contratto, poi risolto, indicando quale ragione giustificativa di tale richiesta il fatto sostanziale costituito dalla indebita occupazione dell'appartamento. In altri termini, il fatto costitutivo dedotto a sostegno della richiesta, il cui inquadramento giuridico in ultima analisi ed in base al bimillenario principio processuale da mihi factum, dabo tibi ius, compete al giudice (v. tra le altre Cass. nn. 19630/11, 17457/10, 3012/10, 19090/07, 18513/07, 9087/06), risulta quello della detenzione sine titulo dell'immobile, rispetto alla quale l'ulteriore assunto connotato di illiceità ha costituito un quid pluris, la cui esclusione da parte del giudice,fermo restante il petitum, non avrebbe snaturatola soltanto ridimensionato la causa petendi, da individuarsi, a termini della citata giurisprudenza,nel fatto giuridicamente rilevante addotto a sostegno della richiesta, indipendentemente dalla qualificazione allo stesso attribuita dal deducente.

Conseguentemente il giudice non avrebbe potuto limitarsi a disporre la restituzione dell'immobile, detenuto in virtù del titolo poi risolto,ma anche accogliere ai sensi degli artt. 1458 e 1148 c.c., la domanda accessoria relativa al rimborso dei frutti prodotti, tra la data della consegna e quella del rilascio, dallo stesso, costituente un bene per sua natura redditizio, indipendentemente dalla buona fede dei promissari acquirenti,dovendo costoro essere considerati non possessori, bensì detentori del bene che loro era stato consegnato dai proprietari possessori (v. S.U. n. 7930/08), in virtù di un titolo,la promessa di vendita, poi retroattivamente caducato dalla pronunzia risolutoria.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-11-2012, n. 20714


Condizione unilaterale e autonomia contrattuale.


Le suddette censure - congiuntamente esaminate in quanto strettamente connesse - sono fondate.

Giova in premessa rilevare che, come ritenuto da questa S.C., le parti contraenti, nella loro autonomia contrattuale, possono in effetti pattuire una condizione sospensiva o risolutiva nell'interesse esclusivo di uno soltanto di essi, ma occorre in proposito un'espressa clausola o, quanto meno, una serie di elementi, idonei ad indurre il convincimento che si tratti di una condizione alla quale l'altra parte non abbia alcun interesse.

In mancanza di ciò la condizione dev'essere considerata apposta nell'interesse di entrambe le parti (Cass. n. 10220 del 20.11.96, Cass. n. 5692 del 10/04/2012). Solo in caso di condizione unilaterale la parte contraente, nel cui interesse è posta la condizione, ha la facoltà di rinunziarvi sia prima, sia dopo l'avveramento o il non avveramento di essa, senza che la controparte possa comunque ostacolarne la volontà (Cass. Sez. 2, n. 5692 del 10/04/2012).

Ciò posto si può affermare che la condizione si presume di norma bilaterale per cui l'eventuale sua unilateralità dovrà essere rigorosamente accertata. Nella specie, con la 2^ scrittura privata, il contratto originario di vendita era divenuto permuta e non era stato previsto per l'acquirente una facoltà di pagamento del prezzo, ma la consegna di uno dei costruendi alloggi al posto del rateo di L. 100.000.000 come originariamente previsto.

La precisazione che le rifiniture del nuovo alloggio non dovevano essere inferiori agli altri da costruire, è invero sintomatica che anche la S. avesse un concreto interesse all'avveramento dell'indicata condizione e cioè ad avere dal M. l'alloggio in questione.

Diversamente opinando sarebbe difficilmente giustificabile la previsione della novazione dell'obbligazione in questione operata dalle parti con la seconda scrittura privata.

Si può invero ritenere che quest'ultima non aggiungesse solo una modalità al pagamento del prezzo (che non era facoltativa) ma trasformare la compravendita in una permuta (di cosa presente con cosa futura). Si deve dunque concludere che l'interesse all'avverarsi della condizione fosse comune ad entrambe le parti e non al solo acquirente, come erroneamente ritenuto dal giudice distrettuale. Ciò comporta delle evidente conseguenze giuridiche nell'individuazione della parte inadempiente.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-11-2012, n. 20708


Il comportamento delle parti valutabile ai fini dell'interpretazione del contratto dev'essere bilaterale.


La doglianza non ha pregio, richiamandosi quanto osservato in precedenza circa la prospettazione delle questioni di merito. D'altra parte, il comportamento delle parti valutabile ai fini dell'interpretazione del contratto dev'essere bilaterale. Secondo questa S.C. in tema di interpretazione del contratto, il comportamento tenuto dalle parti dopo la sua conclusione, cui attribuisce rilievo ermeneutico dell'art. 1362 cod. civ., comma 2, è solo quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo la comune intenzione delle parti emergere dall'iniziativa unilaterale di una di esse, corrispondente ai suoi personali disegni" (Cass. Sez. 1, n. 12535 del 19/07/2012; Conf. Cass. N. 415 del 2006).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-11-2012, n. 20707


Il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino.


I primi due commi, art. 907 c.c. dispongono che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, e se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve osservarsi anche dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita. Il comma 3, inoltre, stabilisce che, se si vuole appoggiare la nuova costruzione ai muro in cui sono le dette vedute dirette ed oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia Come è stato già chiarito da questa Corte, per effetto delle limitazioni previste dall'art. 907 e.e, a carico del fondo su cui si esercita una veduta (sia che questa sia stata aperta "jure servitutis" sia che venga esercitata "jure proprietatis"), deve osservarsi un distacco di metri tre, in linea orizzontale, dalla veduta diretta, da rispettare eventualmente anche dai lati della finestra da cui si esercita la veduta obliqua, e, in stretta correlazione strumentale con le finalità cui tendono le limitazioni stabilite nei primi due commi, art. 907 cit., deve osservarsi analogo distacco anche in senso verticale, per una profondità di tre metri al di sotto della soglia della veduta (Cass. 18-2-2000 n. 1832; Cass. 7-1-1992 n. 45; Cass. 25-10-1968 n. 3541).

Va ulteriormente precisato che, nel caso di veduta diretta e obliqua, la distanza minima di tre metri "sotto la soglia", prescritta dall'art. 907 c.c., comma 3 non va considerata solo in linea perpendicolare rispetto al davanzale della finestra, ma si estende in basso anche obliquamente rispetto ai punti estremi di tale davanzale.

Il titolare di una veduta diretta che formi anche una veduta obliqua, in definitiva, ha diritto ad una fascia di rispetto che si estende per tre metri in direzione orizzontale, sia frontalmente che lateralmente rispetto a ciascuno degli stipiti della finestra, e per tre metri in verticale rispetto al piano della facciata dell'edificio corrispondente alla soglia inferiore della finestra medesima, sia perpendicolarmente che lateralmente rispetto ai punti estremi del davanzale; con la conseguenza che la parte della costruzione in appoggio o in aderenza che ricada in tale fascia deve essere considerata illegale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-11-2012, n. 20699


I rapporti tra enti pubblici, soprattutto se di rilievo costituzionale, trovano disciplina esclusiva solo nelle norme contabili e finanziarie - arricchimento senza causa


Gli ultimi due motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, attenendo entrambi alla pretesa violazione di norme del diritto civile, che si è già detto non essere applicabili nei rapporti tra enti pubblici previsti nella Costituzione della Repubblica, che sono parti essenziali dell'ordinamento repubblicano, come la Regione e lo Stato. Le ragioni del rigetto del primo motivo di ricorso già comportano assorbimento degli altri motivi di ricorso, per i quali occorrono solo alcune puntualizzazioni.

In ordine al secondo motivo di ricorso la sentenza impugnata chiarisce che i rapporti finanziari tra Stato e Regione non sono regolati dalle norme del codice civile come quella sulla ricognizione di debito dell'art. 1988 c.c., trovando la loro disciplina in ragione delle funzioni delegate o trasferite dal primo alla seconda, quali non sono, come già chiarito, quelle nel caso provvisoriamente esercitate dalla Regione Umbria all'atto del trasferimento a questa degli uffici statali, per le quali s'è chiesto il rimborso di quanto erogato dalla amministrazione regionale al di fuori della disciplina legislativa e regolamentare dei rapporti finanziari tra le stesse parti della causa (su tali rapporti cfr., tra altre, Cass. 9 dicembre 2004 n. 23007).

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato, restando assorbita ogni questione sulla esistenza di un riconoscimento del debito ai sensi dell'art. 1988 e.e, per le ragioni già richiamate e che si ritrovano pure nella sentenza impugnata che esclude, alle pagg. da 4 a 6, ogni rilievo delle regole del diritto civile nella disciplina dei rapporti finanziari tra Stato e Regioni.

Il ricorso erroneamente richiama, per superare l'osservazione che precede, sentenze di questa Corte relative a rapporti tra privati e P.A. nei quali ovviamente può valere, in casi eccezionali, la ricognizione di debito come fonte di obblighi (con la Cass. n. 8643 del 2003 citata in ricorso cfr. pure Cass. 18 giugno 2008 n. 16576 e 6 dicembre 2007 n. 25435). Quanto detto nei punti che precedono assorbe ogni questione sul preteso arricchimento senza causa che la Regione pone in subordine a base della richiesta di pagamento allo Stato.

E' facile rilevare che le norme sulla applicazione delle regole di cui agli artt. 1988 e 2041 c.c. si sono ritenute applicabili solo alle relazioni tra privati e amministrazioni pubbliche, potendo i primi fondare anche su tali norme del codice civile i crediti da loro azionati dinanzi al giudice ordinario entro i limiti individuati dalla giurisprudenza.

I rapporti tra enti pubblici, soprattutto se di rilievo costituzionale, trovano disciplina esclusiva solo nelle norme contabili e finanziarie, di natura costituzionale e ordinaria con i relativi regolamenti, non potendo per essi trovare applicazione le regole civilistiche inidonee a sostituire le fonti dei crediti tra enti pubblici espressamente regolate da leggi specifiche, anche se su di esse i privati possono fondare i loro diritti verso la P.A., ricorrendo all'art. 1988 c.c. in via principale e in subordine l'art. 2041 c.c. (sul tema cfr. con la citata Cass. n. 25435/2007 anche Cass. 26 maggio 2010 n. 12880).

Non vi può essere un arricchimento senza causa dello Stato per esborsi delle Regioni per l'esercizio di attribuzioni in materie di competenza statale, solo perchè gli stessi sarebbero giustificati dalla esistenza di una fase transitoria di trasferimento alle seconde delle funzioni del primo, in difetto di una norma che regoli in tal senso tali vicende alla luce della riserva di legge dell'art. 97 Cost.. Solo una eventuale parificazione di tali attribuzioni dello Stato a quelle delegate o trasferite alle Regioni e la loro espressa previsione nei capitoli di bilancio statali e regionali, possono giustificare un titolo per il rimborso di tali esborsi alla Regione e attualmente manca detta disciplina e va respinto il ricorso della Regione Umbria.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-11-2012, n. 20676


Art. 140 c.p.c.


Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 140 cod. proc. civ..

Il motivo è fondato.

A seguito della pronunzia della Corte costituzionale dichiarativa dell'illegittimità dell'art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi 10 giorni dalla relativa spedizione (Corte costituzionale 14 gennaio 2010, n. 3), deve ritenersi tempestiva l'opposizione proposta dal P., in proprio e quale liquidatore e legale rappresentante della Rossi Elettromeccanica s.a.s., con atto di citazione notificato il 20 dicembre 2003, avverso la sentenza dichiarativa del fallimento; ponendo come dies a quo del termine di 15 giorni previsto dall'art. 18, L.Fall., nel testo all'epoca vigente, la data del 9 Dicembre 2003, di ritiro presso l'ufficio postale della raccomandata informativa del deposito della copia nella casa del comune.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-11-2012, n. 20669


Grado di responsabilità tra le due banche per colpa del pagamento del titolo alterato.


Quanto al grado di responsabilità tra le due banche, con motivazione altrettanto congrua e non contraddittoria, il giudice di appello precisa che la colpa del pagamento del titolo è imputabile principalmente alla Banca di Romagna, che ha comunque provveduto al pagamento nonostante l'evidenza dell'alterazione: pertanto, - afferma la sentenza impugnata - la sua colpa deve essere determinata nella misura del 60% il restante 40% essendo imputabile alla Banca INTESA SAN PAOLO che, in stanza di compensazione, non rifiutò l'addebito del titolo.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-11-2012, n. 20666


Notifica della sentenza di 1° grado alla PA ai fini del decorso del termine di impugnazione effettuata al dipendente pubblico.


Con l'unico motivo, denunciando violazione di norme di legge (artt. 417 bis e 144 c.p.c.; R.D. n. 1611 del 1933, art. 11; art. 325 c.p.c.), la ricorrente si duole che sia stata ritenuta l'efficacia, ai fini del decorso del termine breve per proporre appello, della notificazione effettuata presso la Corte dei Conti, anzichè presso l'Avvocatura dello Stato.

La questione all'esame è già stata affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte, che l'ha risolta enunciando il principio secondo cui, allorchè l'amministrazione statale sia costituita in giudizio avvalendosi di un proprio dipendente, secondo la previsione di cui all'art. 417 bis c.p.c., la notifica della sentenza di primo grado ai fini del decorso del termine di impugnazione va effettuata allo stesso dipendente; la citata norma, infatti, va interpretata nel senso che essa attribuisce al dipendente di cui l'amministrazione si sia avvalsa tutte le capacità connesse alla qualità di difensore in tale giudizio, ivi compresa quella di ricevere la notificazione della sentenza, ancorchè tale atto si collochi necessariamente in un momento successivo alla conclusione del giudizio stesso (cfr Cass., n. 4690/2008); nello stesso senso, Cass., n. 2528/2009 ha osservato che in tema di notificazione della decisione di primo grado in cui sia stata parte un'Amministrazione dello Stato, laddove l'Amministrazione si sia difesa attraverso proprio personale, la deroga al R.D. n. 1611 del 1933, art. 11, comma 1, sull'obbligatoria notifica degli atti introduttivi di giudizio contro le amministrazioni erariali all'Avvocatura dello Stato, comporta, allorquando l'Autorità convenuta in giudizio sia rimasta contumace ovvero si sia costituita personalmente (o tramite funzionario delegato), anche quella al comma 2 del suddetto art. 11, che prevede la notificazione degli altri atti giudiziari e delle sentenze sempre presso la stessa Avvocatura; con la conseguenza che la notificazione della sentenza che chiude il giudizio di primo grado, ai fini del decorso del termine breve per l'impugnazione, deve essere effettuata alla stessa Autorità che si sia costituita mediante un proprio funzionario e non presso l'ufficio dell'Avvocatura distrettuale dello Stato, territorialmente competente, trovando applicazione i principi generali di cui agli artt. 292 e 285 c.p.c., i quali disciplinano anche le controversie in cui sia parte un'amministrazione dello Stato, in caso di inapplicabilità del predetto art. 11.

Non rileva il precedente di cui a Cass., SU, n. 752/2007, invocato dalla ricorrente, siccome enunciato con riferimento alla diversa fattispecie della notificazione degli atti degli ulteriori gradi o fasi del giudizio.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-11-2012, n. 20619


Causa di non punibilità - risarcimento danni


L'avv. S.G. ha proposto domanda di risarcimento dei danni per diffamazione contro D.M.G. poichè questi - nel corso del processo penale promosso a suo carico davanti al Tribunale di Nola - aveva inviato alla Procura della Repubblica di Nola, al Presidente del Tribunale di Nola ed al Pretore di S. Anastasia, lettere con cui attribuiva al S. - che aveva sporto la denuncia nei suoi confronti - comportamenti maniacali ed in particolare manie di persecuzione, tendenze alla denuncia facile, ed altre espressioni ritenute offensive.

Il D.M. ha resistito alla domanda, proponendo domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Nola ha respinto sia la domanda attrice, ritenendo insussistente l'illecito, sia la domanda riconvenzionale.

Proposto appello dal S., a cui ha resistito il D.M., la Corte di appello di Napoli ha ritenuto sussistente l'illecito, ma lo ha considerato non punibile, ai sensi dell'art. 598 cod. pen., sul rilievo che le espressioni usate dal D.M., pur se oggettivamente offensive, erano attinenti alla propria difesa nel processo penale ed erano state indirizzate solo alle autorità interessate dal processo medesimo.

Il S. propone due motivi di ricorso per cassazione.

Resiste il D.M. con controricorso, illustrato da memoria.

[...]

Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 598 cod. pen. e art. 111 Cost., il ricorrente afferma che la norma in oggetto dispone la non punibilità delle espressioni offensive contenute negli scritti difensivi, ma non esclude l'illiceità del comportamento, nè la colpevolezza dell'autore; tanto è vero che dispone che di tali espressioni si possa chiedere la cancellazione e che all'offeso possa essere attribuita una somma in risarcimento del danno non patrimoniale.

Con il secondo motivo denuncia violazione dell'art. 2697 cod. civ., artt. 112 e 115 cod. proc. civ., nonchè vizi di motivazione, sul rilievo che il D.M. non ha mai eccepito, nel corso del processo, il suo diritto all'immunità e non ha mai chiesto l'applicazione dell'esimente, sicchè la Corte di appello - provvedendo d'ufficio - è incorsa in violazione del principio dispositivo ed in ultra petizione.

I due motivi - che debbono essere congiuntamente esaminati perchè connessi non sono fondati, pur se deve essere modificata la motivazione della sentenza impugnata.

Va premesso che non è stata proposta impugnazione avverso il capo della sentenza di appello che ha qualificato i fatti ed il comportamento del D.M. come attività difensiva, svolta mediante gli scritti presentato dalla parte o dal suo difensore nel processo penale.

La circostanza che la fattispecie rientri nell'ambito di applicazione dell'art. 598 cod. pen., comma 1, e sia in quanto tale coperta dall'esimente ivi prevista è perciò questione coperta da giudicato e non più discutibile.

Se così è, la domanda del ricorrente di risarcimento dei danni avrebbe dovuto essere dichiarata fin dall'inizio improponibile, poichè la competenza a decidere sulla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale per le offese contenute negli scritti presentati nei procedimenti dinanzi alla autorità giudiziaria, scriminabili ai sensi dell'art. 598 cod. pen., spetta solo al giudice della causa nell'ambito della quale furono scritte le frasi offensive, il quale è l'unico idoneo a valutare, a conclusione del giudizio, se la giustificazione di quelle offese debba escludere anche la risarcibilità del danno non patrimoniale eventualmente patito da colui a cui furono rivolte (Cass. pen. Sez. 6, 30 settembre 2005 n. 39934; Cass. pen. Sez. 5, 8 febbraio 2006 n. 6701; Idem, 9 maggio 2008 n. 36627).

Trattasi di principio consolidato, che trova testuale riscontro anche nella disposizione dell'art. 89 cod. proc. civ., comma 2, secondo cui il potere di assegnare una somma in risarcimento dei danni non patrimoniali alla parte offesa da espressioni sconvenienti od offensive pronunciate nel corso della causa spetta al giudice investito della cognizione della causa medesima.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-11-2012, n. 20593


La mancata o incompleta trascrizione nella sentenza delle conclusioni delle parti non è normalmente causa di nullità della sentenza.


La mancata o incompleta trascrizione nella sentenza delle conclusioni delle parti non è normalmente causa di nullità della sentenza medesima, ma costituisce una mera irregolarità formale, salvo il caso in cui l'omissione abbia in concreto inciso sull'attività del giudice, comportando la mancata pronuncia sulle domande o sulle eccezioni non trascritte (Cass. civ. Sez. 2, 5 maggio 2010 n. 10853).

Nella specie la Corte di appello ha preso in esame la domanda di sospensione e l'ha respinta con la motivazione che l'esito negativo della domanda ex art. 2932 è da ritenere irrilevante in quanto "al di là della discutibile qualificazione della contestata scrittura 14.4.2002, la decisione dell'adito Tribunale di Roma sembra essere stata influenzata soprattutto dalla condotta delle parti successiva alla sottoscrizione dell'atto e dalla defatigatoria trattativa da loro intavolata in ordine alle modalità di pagamento, ininfluente a fronte della provata esecuzione dell'incarico da parte del F. ed all'accettazione da parte del S. dell'opera svolta dall'agenzia" (sentenza, pag. 4, ult. capoverso).

Non sussiste pertanto omissione di pronuncia.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-11-2012, n. 20585


La lettera raccomandata o il telegramma costituiscono prova certa della spedizione.


Il giudice di appello si è uniformato al principio più volte enunciato dalla Corte di cassazione, secondo cui "La lettera raccomandata o il telegramma - anche in mancanza dell'avviso di ricevimento - costituiscono prova certa della spedizione, attestata dall'ufficio postale attraverso la ricevuta di spedizione, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico, di arrivo dell'atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 cod. civ. dello stesso, per cui spetta al destinatario l'onere di dimostrare che il plico non contiene alcuna lettera al suo interno, ovvero che esso contiene una lettera di contenuto diverso da quello indicato dal mittente" (Cass. civ. Sez. 3, 27 luglio 2001 n. 10284; Idem, 24 novembre 2004 n. 22133; Cass. civ. Sez. 2, 13 aprile 2006 n. 8649, ed altre).

Il ricorrente non ha contestato che l'indirizzo a cui è stato inviato il telegramma corrisponda a quello della sua abitazione, sicchè la prova dell'invio - fornita dal mittente mediante la produzione della busta e del testo del telegramma, costituisce prova sufficiente a rendere operante la presunzione per cui gli atti e le dichiarazioni recettizie si ritengono conosciuti nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia (art. 1335 cod. civ.).

Il ricorrente non ha fornito la suddetta prova. Le dichiarazioni da lui rese in sede di interrogatorio formale non rivestono efficacia confessoria, trattandosi di dichiarazioni a sè favorevoli; mentre il fatto che la controparte non avrebbe contestato le sue affermazioni è specificamente smentito dal resistente.

Il giudice di appello ha quindi correttamente deciso.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-11-2012, n. 20583


Denunzia dei vizi della cosa venduta.


La doglianza non ha pregio.

Secondo questa S.C. in materia di denunzia dei vizi della cosa venduta, ai fini della decorrenza del termine di decadenza di cui all'art. 1495 c.c., pur dovendosi, di regola, distinguere tra vizi apparenti ed occulti - là dove per i primi detto termine decorre dalla consegna della cosa, mentre per i secondi dal momento in cui essi sono riconoscibili per il compratore - occorre comunque che il "dies a quo" si faccia risalire al momento in cui il compratore acquisisce la certezza obiettiva del vizio, non essendo sufficiente il semplice sospetto (Cass. n. 5732 del 10/03/2011). Nel caso in cui la scoperta del vizio avvenga per gradi ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sull'entità del vizio stesso, occorre fare riferimento al momento in cui si sia completata la relativa scoperta ( Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9515 del 06/05/2005).

Ciò posto la corte territoriale si è mossa secondo i predetti principi e non v'è dubbio che il suo iter argomentativo espresso nella motivazione della sentenza appare lineare e logico e dunque pienamente condivisibile. Il giudicante ha fatto riferimento alla causa dei vizi (difetti di finissaggio), sia alla natura della merce (tessuto) ed al fatto che i particolari difetti in questione evidenziati da CTU (variazione del colore e restringimento) si erano evidenziati solo dopo la lavorazione delle merce stessa, a nulla rilevando che la vendita era avvenuta tra esperti del settore. Si tratta invero di una valutazione di merito come tale incensurabile in questa sede.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20564


Soggetto passivamente legittimato rispetto all'azione giudiziaria dell'amministratore del condominio.


Il ricorso è fondato.

Costituisce principio consolidato della Corte di legittimità quello secondo cui passivamente legittimato rispetto all'azione giudiziaria dell'amministratore del condominio, per il recupero della quota di spese di competenza di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, è il vero proprietario di detta unità e non anche chi possa apparire tale, difettando, nei rapporti fra condominio ed i singoli partecipanti ad esso, le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale, essenzialmente, all'esigenza di tutela dell'affidamento dei terzi di buona fede. Non sussiste infatti, una relazione di terzietà tra il condominio, che è un ente di gestione, ed il condomino e, d'altra parte, il collegamento della legittimazione passiva alla effettiva titolarità della proprietà è funzionale al rafforzamento ed al soddisfacimento de credito della gestione condominiale (Cfr. Cass. S.U. n. 5035/2002; n. 7849/2001; n. 2616/2005; n. 1627/2007).

Il Giudice di Pace, quindi, erroneamente ha fatto riferimento alla circostanza che il M. si fosse comportato come condomino apparente, omettendo di comunicare all'amministratore condominiale la proprietà estraneità al condominio. Nella specie, pertanto, non essendo contestato che l'immobile in questione appartenesse non già al M., ma al coniuge dello stesso in regime di separazione di beni, la sentenza impugnata va cassata e, potendo la causa essere decisa nel merito, ex art. 384 c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, deve accogliersi l'opposizione al decreto ingiuntivo, stante l'infondatezza della pretesa del condominio. Ricorrono giusti motivi per confermare la compensazione delle spese processuali di primo grado, avuto riguardo al comportamento del ricorrente che non aveva mai chiarito all'amministratore la propria estraneità al condominio tanto che, come si legge nella sentenza impugnata, aveva sottoscritto il verbale di assemblea condominiale del 24.12.98 senza indicare la sua qualità di delegato. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo,vanno, invece, poste a carico del Condominio intimato secondo il criterio della soccombenza.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20562

Compossesso dei beni ereditari da parte dei coeredi e usucapione.


Con riferimento in specie alla situazione di compossesso dei beni ereditari da parte dei coeredi, questa S.C. ha statuito che: "Il coerede, il quale dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri coeredi, senza che sia necessaria l'interversione del titolo del possesso (art. 1102, 1141 e 1164 cod. civ.), attraverso l'astensione del possesso medesimo in termini di esclusività ma a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso comune della cosa, occorrendo altresì che il coerede ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziale una inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus"; poichè, peraltro, tale volontà non può desumersi dal fatto che il coerede abbia utilizzato e amministrato il bene ereditario, provvedendo fra l'altro al pagamento delle imposte e alla manutenzione (sussistendo al riguardo una presunzione "iuris tantum" che egli abbia agito nella qualità e che abbia anticipato le spese anche relativamente alla quota degli altri coeredi), il coerede che invochi l'usucapione ha l'onere di provare che il rapporto materiale con il bene si è verificato in modo da escludere, con palese manifestazione del volere, gli altri coeredi dalla possibilità di instaurare analogo rapporto con il medesimo bene ereditario (Cass. Sez. 2, n. 5226 del 12/04/2002: Cass. n. 7221 del 25/03/2009). Ciò precisato, le statuizioni del giudice distrettuale circa l'esclusione di un possesso esclusivo valido ad usucapionem, si risolvono necessariamente in valutazioni di fatto come tali incensurabili in questa sede. Le circostanze predette sono state invero ampiamente valutate dal giudicante per escludere siffatto possesso, con motivazione congrua e lineare, immune da vizi logici ed errori di diritto.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20561


Qualificazione di una dichiarazione liberatoria sottoscritta dalla parte come quietanza o piuttosto come transazione


Occorre poi rilevare che, secondo questa S.C. (Cass. Sez. 3, n. 729 del 20.01.2003): "Ai fini della qualificazione di una dichiarazione liberatoria sottoscritta dalla parte come quietanza o piuttosto come transazione, occorre considerare che la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale, laddove nella dichiarazione liberatoria sono ravvisatali gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto soltanto quando, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l'abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti." Nella fattispecie la corte distrettuale ha escluso tale evenienza sulla base di un'attenta analisi delle emergenze istruttorie; si tratta dunque di un accertamento di fatto incensurabile in questa sede stante la correttezza della motivazione.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20560


In tema di successioni mortis causa.


Il motivo è inammissibile perchè nessuna domanda a titolo ereditario era stata in precedenza proposta e mancando comunque la dimostrazione dell'effettiva qualità d'erede del ricorrente.

Invero, secondo questa S.C. "in tema di successioni mortis causa, la delazione che segue l'apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sè sola sufficiente all'acquisto della qualità di erede, essendo a tale effetto necessaria anche, da parte del chiamato, l'accettazione, mediante aditio oppure per effetto di pro herede gestio oppure per la ricorrenza delle condizioni di cui all'art. 485 cod. civ.. Ne consegue che, in ipotesi di giudizio instaurato nei confronti del preteso erede per debiti del de cuius, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., l'onere di provare l'assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, la quale non può desumersi dalla mera chiamata all'eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all'accettazione dell'eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta, quindi, un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella predetta qualità" (Cass. n. 10525 del 30/04/2010 613476). Ciò posto, deve dichiararsi inammissibile il motivo in esame.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20559


La proprietà e le categorie dei c.d. diritti "autodeterminati".


In relazione all'azione di rivendicazione, proposta originariamente dagli attori, non è configurabile il divieto dello "ius novorum", ex art. 345 c.p.c., con riferimento alla ulteriore domanda di usucapione dei beni in questione, avanzata in sede di appello.

La proprietà, infatti, appartiene alla categoria dei c.d. diritti "autodeterminati", individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, sicchè nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la "causa petendi" si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda. Ne consegue che l'allegazione, nel corso del giudizio di rivendicazione, di un titolo diverso (nella specie, usucapione) rispetto a quello (nella specie, contratto), posto inizialmente a fondamento della domanda, costituisce solo un'integrazione delle difese sul piano probatorio e non determina, quindi, la novità della domanda nè la rinuncia alla valutazione del diverso titolo dedotto in precedenza (Cfr. Cass, n. 22598/2010;n. 15915/2007; n. 3192/2003; n. 18370/2002; n. 5894/2001).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20558


Vendita di "aliud prò alio"


Ciò posto, secondo questa S.C., la vendita di "aliud prò alio" configura una ipotesi di inadempimento contrattuale, diversamente dalle ipotesi di vendita di cosa affetta da vizi o mancante delle qualità promesse, che integrano la fattispecie dell'inesatto adempimento; nel primo caso al compratore spetta l'azione generale di risoluzione contrattuale per inadempimento, svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c. (Cass. n. 7561 del 30/03/2006; Sez. 2, Sentenza n. 686 del 16/01/2006). Ora la qualificazione dell'una o dell'atra ipotesi è compito precipuo del giudice di merito, in base al generale principio tura novit curia, di talchè non è configuratale la pretesa violazione di legge (art. 112 c.p.c.). D'altra parte va rimarcato che l'ipotesi di cui all'art. 1497 c.c., è pur sempre compresa nella più ampia fattispecie di cui all'art. 1453 c.c., della risoluzione per inadempimento, soggiacendo solo al regine di decadenza e prescrizione stabilito dall'art. 1495 c.c. (art. 1497 c.c., u.c.).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20557


prova richiesta per l'accertamento dell'esatto confine tra due fondi


Il motivo è privo di fondamento.

Con riferimento alla prova richiesta per l'accertamento dell'esatto confine tra due fondi (art. 950 c.c., comma 2), questa Corte ha più volte avuto modo di affermare che solo la mancanza o la insufficienza di indicazioni specifiche, desumibili dai rispettivi titoli di provenienza, giustifica il ricorso ad altri mezzi di prova, rivestendo, nella relativa indagine, importanza fondamentale il tipo di frazionamento allegato ai singoli atti di acquisto ed in essi richiamato con valore negozialmente vincolante (Cass. 5-7-2006 n. 15304; Cass. 15-7-2002 n. 10234; Cass. 17-5-2001 n. 6770). In materia di regolamento di confini, pertanto, l'elemento primario di prova per l'individuazione dei confine è rappresentato dal tipo di frazionamento allegato ai contratti, che, quale elemento interpretativo della volontà negoziale, non lascia margini di incertezza nella determinazione della linea di confine tra i fondi (Cass. 1-12-2000 n. 15386). In particolare, è stato puntualizzato che le schede di accatastamento fatte redigere appositamente da un tecnico e riproducenti planimetricamente in scala, nella sua consistenza ed estensione, un immobile non ancora censito in catasto, sono, di norma, dirette ad individuare il bene compravenduto o assegnato e, pertanto, se assunte quali parti integranti dell'atto contrattuale cui vengono allegate, sono da considerare non come semplici dati catastali con valore soltanto indiziario e sussidiario, ma come fonti dei dati medesimi, come tali idonee a determinare l'oggetto materiale del negozio (Cass. 28-11-1996 n. 10611).

Nella specie, la Corte di Appello si è attenuta agli enunciati principi, avendo proceduto alla determinazione del confine tra i fondi delle parti sulla base di elementi desunti dai rispettivi titoli di provenienza (derivati dalla suddivisione dell'originario appezzamento appartenente alla comune venditrice Parco Aurora s.r.L.) e, in particolare, dalle denunce al catasto edilizio urbano fatte in data 13-12-1976 e dalle piante ad esse allegate, che, in quanto richiamate negli atti di acquisto di entrambe le parti, assumono valore negoziale vincolante per le stesse.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2012, n. 20556


21 dicembre 2012

La denunzia dei gravi difetti dell'opera prevista dall'art. 1669 cod. civ.


Va premesso che la denunzia dei gravi difetti dell'opera prevista dall'art. 1669 cod. civ., ha lo scopo, non diversamente da quella prevista dal precedente art. 1667, di porre il destinatario (appaltatore o soggetti concorrenti, quali il progettista ed il direttore dei lavori), nella condizione di compiere le opportune verifiche al fine di accertare e dimostrare che il pericolo di rovina non deriva da sua colpa. Per il proprietario dell'opera l'onere di denunzia scatta, pertanto, nel momento in cui egli acquista un ragionevole grado di grado di conoscenza dell'entità del vizio costruttivo e della sua riferibilità causale, elementi che, ai fini della configurabilità della denunzia, deve rappresentare al destinatario (Cass. n. 4622 del 2002; Cass. n. 1993 del 1999), restando poi alla valutazione del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, scrutinare se tale informativa era sufficiente portare a conoscenza dell'altra parte la sussistenza dei difetti lamentati. La denunzia, in relazione al suo scopo, si perfeziona in virtù della comunicazione al soggetto responsabile dei gravi difetti che si sono manifestati nella costruzione, senza necessità che in essa vengano indicate le sue cause specifiche, il cui addebito implicito alla controparte risiede nella stessa natura di obbligazione di risultato che questi ha assunto, e il cui accertamento tecnico in termini di certezza risulta incompatibile con la stessa esigenza perseguita dalla legge attraverso gli istituti della decadenza e della prescrizione, di consentire all'appaltatore di compiere gli accertamenti necessari per verificare l'esistenza effettiva dei difetti lamentati e la loro imputabilità.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 15-11-2012, n. 20004

In tema di notificazione alle società di capitali - persone giuridiche


Come hanno, infatti, statuito le sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. n. 8091 del 4 giugno 2002) "in tema di notificazione alle società di capitali, e, più in generale, alle persone giuridiche, se la notificazione non può essere eseguita con le modalità di cui all'art. 145 cod. proc. civ., comma 1 - ossia mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa - e nell'atto è indicata la persona fisica che rappresenta l'ente, si osservano, in applicazione del comma 3 del medesimo art. 145, le disposizioni degli artt. 138, 139 e 141 cod. proc. civ.; se neppure l'adozione di tali modalità consente di pervenire alla notificazione, si procede con le formalità dell'art. 140 cod. proc. civ. (nei confronti del legale rappresentante, se indicato nell'atto e purchè abbia un indirizzo diverso da quello della sede dell'ente; oppure, nel caso in cui la persona fisica non sia indicata nell'atto da notificare, direttamente nei confronti della società); ove neppure ricorrano i presupposti per l'applicazione di tale norma (come nel caso in cui l'indirizzo della società, a seguito di cambiamento della numerazione civica, non reso conoscibile ai terzi nelle debite forme pubblicitarie, risulti riferito ad un luogo nel quale essa non abbia - e mai abbia avuto - sede), e nell'atto sia indicata la persona fisica che rappresenta l'ente (la quale tuttavia risulti di residenza, dimora e domicilio sconosciuti), la notificazione è eseguibile, nei confronti di detto legale rappresentante, ricorrendo alle formalità dettate dall'art. 143 cod. proc. civ." (In senso conforme v. anche Cass. sez. 2, n. 9447 del 21 aprile 2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 15-11-2012, n. 20014

Riassunzione del processo interrotto, fissazione dell'udienza e comunicazione relativa


Con l'unico motivo del ricorso principale viene dedotta la violazione o falsa applicazione dell'art. 305 c.p.c., perchè il giudice di appello, nel ritenere la tardività della richiesta, in data 25.5.00, di proroga del termine già concesso (fino al 30.5.00) per provvedere alla notifica del ricorso riassuntivo e del pedissequo decreto presidenziale, non avrebbe considerato che il primo, del 7.10.00 era stato depositato tempestivamente, entro il semestre dalla dichiarazione di interruzione del processo, ed il secondo, del 10.10.00, comunicato al ricorrente dalla cancelleria soltanto in data 29.4.00, quando ormai non sarebbe stato più possibile esercitare il legittimo diritto di richiesta di proroga del termine semestrale, venuto a scadenza il 13.4.00; sicchè il ritardo non sarebbe stato imputabile al ricorrente.

Il motivo è infondato, partendo dalla premessa erronea secondo cui il decreto ex art. 303 c.p.c. con il quale il giudice, a seguito del ricorso della parte che intenda riassumere il processo interrotto, abbia fissato un'udienza per la prosecuzione del giudizio, ed assegnato un termine a tal fine, debba essere comunicato dalla cancelleria alla parte istante.

Tale adempimento non è previsto da alcuna norma del codice di rito o delle relative disposizioni di attuazione, come è stato già chiarito, con argomentazioni che il collegio condivide e fa proprie, dalla giurisprudenza di questa Corte (v. sent. nn. 3431/06, 14371/05, 5856/00) con la conseguenza che era onere della parte istante attivarsi presso la cancelleria ai fini della conoscenza del provvedimento in questione e della tempestiva ottemperanza allo stesso.

Anche per il resto il mezzo d'impugnazione è resistito dalla giurisprudenza di legittimità (oltre alle pronunzie citate nella sentenza impugnata, nn. 2285/04, 9504/02, 1364/00, 8314/97, 5548/94, v. le più recenti nn. 14371/05, 11260/11), da ritenersi ormai consolidata nell'affermazione del principio nella specie osservato dalla corte territoriale, a termini del quale la prorogabilità prima della relativa scadenza del termine ordinatorio, quale è quello assegnato per la notificazione dei decreti ex artt. 302 e 303 c.p.c., va coordinata con la improrogabilità di quello, semestrale e perentorio, di cui all'art. 305 c.p.c., entro il quale deve avvenire la prosecuzione o riassunzione, con la conseguenza che, ove la proroga sia richiesta dopo la relativa scadenza, risolvendosi l'istanza nell'elusione dell'anzidetta perentorietà, il processo deve essere dichiarato estinto.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-11-2012, n. 20213

20 dicembre 2012

Rivalutazione della somma da liquidare a titolo di risarcimento danni e interessi sulla somma rivalutata


Merita, invece, accoglimento il quarto motivo, la Corte di merito ha rilevato che la statuizione del primo giudice "in merito al riconoscimento degli interessi legali sulla somma rivalutata" era inammissibile in quanto generica, non considerando che avrebbe dovuto, anche di ufficio, applicare il principio affermato in materia dalla Suprema Corte, secondo cui la rivalutazione della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento del danno e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono a funzioni diverse, perchè la prima tende a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale essa era prima del fatto illecito mentre i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che questi ultimi sono compatibili con la rivalutazione e vanno liquidati anno per anno sulla somma via via rivalutata ovvero su tale somma rivalutata in base ad un indice medio, con decorrenza dal giorno in cui si è verificato l'evento dannoso (Cfr. Cass. n. 7692/2001; n. 2745/97; n. 18028/2010).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-11-2012, n. 20353

Quando un muro può essere qualificato come muro di cinta ?


D'altro canto le caratteristiche che l'interpretazione giurisprudenziale desume dall'art. 878 c.c., perchè un muro possa essere qualificato come muro di cinta - l'essere essenzialmente destinato a recingere una determinata proprietà onde separarla dalle altre, il non superare un'altezza di tre metri, l'emergere dal suolo ed avere entrambe le facce isolate da altre costruzioni - sono richieste ai soli fini dell'applicabilità della norma stessa, id est dell'esenzione dal rispetto delle distanze legali imposte dall'art. 873 c.c., e dalle norme di esso integrative, ad un muro che, altrimenti, vi sarebbe tenuto al pari delle altre costruzioni identificabili come muri di fabbrica. In sostanza la ricorrenza delle caratteristiche indicate dalla norma è richiesta perchè al manufatto possa essere riconosciuta la funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo e possano, quindi, essere applicati criteri di distanza legale diversi dalle altre costruzioni (v., in tal senso, Cass. 7 agosto 1992 n. 9375; Cass. 11 marzo 1992 n. 2940; Cass. 20 luglio 1973 n. 2129).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-11-2012, n. 20351

l'obbligo indennitario dell'assicuratore nei confronti dell'assicurato.


Il ricorso merita accoglimento.

La questione all'attenzione della Corte concerne, in riferimento al contratto di assicurazione della responsabilità civile, l'estensione dell'obbligo indennitario dell'assicuratore nei confronti dell'assicurato, quando questi sia obbligato in solido con altro soggetto non assicurato e, quindi, sulla base della solidarietà passiva, sia tenuto, a richiesta del danneggiato, a pagare l'intero, salvo il successivo regresso nei confronti del coobbligato.

Rispetto alle spese processuali va preliminarmente chiarito che rilevano quelle al cui pagamento l'assicurato, in solido con il coobbligato, venga condannato in favore del danneggiato vittorioso.

Spese che - distinte da quelle sopportate dall'assicuratore per resistere alla domanda del danneggiato regolate dal comma 3 del medesimo articolo - costituiscono, secondo la giurisprudenza costante della Corte, un accessorio dell'obbligazione risarcitoria, ai sensi dell'art. 1917 cod. civ., e gravano sull'assicuratore se e nei limiti in cui non comportino superamento del massimale di polizza (tra le tante, Cass. 15 marzo 2004, n. 5242).

Pertanto, la questione si pone negli stessi termini: sia in riferimento alle spese processuali al cui pagamento, in favore del danneggiato vittorioso, l'assicurato venga condannato, in solido con il corresponsabile non assicurato; sia in riferimento al risarcimento del danno al cui pagamento, in favore del danneggiato, l'assicurato venga condannato in solido con il corresponsabile non assicurato, ferme restando le diverse quote rispetto alla misura della responsabilità dei corresponsabili.

Sulla questione, la Corte si è di recente pronunciata, affermando il seguente principio di diritto "In tema di assicurazione della responsabilità civile, nel caso in cui l'assicurato sia responsabile in solido con altro soggetto, l'obbligo indennitario dell'assicuratore nei confronti dell'assicurato non è riferibile alla sola quota di responsabilità dell'assicurato operante ai fini della ripartizione della responsabilità tra i condebitori solidali, ma si estende potenzialmente a tutto quanto l'assicurato deve pagare a terzo danneggiato nei limiti del massimale, atteso che una diversa interpretazione contrasterebbe con il tenore letterale dell'art. 1917 cod. civ. e priverebbe di concreta tutela l'assicurato rispetto alla quota di responsabilità posta a carico del condebitore solidale, nel caso in cui quest'ultimo sia insolvibile o di difficile solvibilità" (Cass. 31 maggio 2012, n. 8686).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20322

Fattispecie del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni


La Corte di merito ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità, in sede penale, che, ai fini della integrazione della fattispecie del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, richiede la perfetta corrispondenza tra la pretesa arbitrariamente attuata dall'agente e l'oggetto della tutela apprestata dall'ordinamento giuridico, essendo il reato caratterizzato dalla sostituzione, da parte dell'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato (Cass. pen. n. 1456 del 1983; n. 7483 del 1988; n. 9436 del 1997).

Corrispondenza, all'evidenza mancante nella specie, dove il comportamento dell'agente consiste nella smagnetizzazione di una card legata alla titolarità del posto barca, a fronte di un diritto di credito per erogazioni di servizi ricondotti, con statuizione del giudice di merito non censurata, a un diverso rapporto giuridico, e solo indirettamente connessi con la fruizione del posto barca.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20321

La nozione di soccombenza reciproca


Peraltro - considerato che il Tribunale ha motivato la compensazione delle spese del grado con il "limitato accoglimento del gravame" - la statuizione si rivela conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2) sottende - anche in relazione al principio di causalità - una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero (come nel caso di specie) anche l'accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, allorchè essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell'accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (Cass. 21 ottobre 2009, n. 22381).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20312

La natura e l'entità del credito oggetto dell'assegnazione si desumono dal tenore e dal contenuto dell'ordinanza di assegnazione.


Orbene, l'individuazione del credito oggetto di assegnazione è fatta nell'ordinanza di assegnazione; con questa, il giudice dell'esecuzione, valutate l'idoneità del titolo esecutivo e la pretesa del creditore (cfr. Cass. n. 5510/03 cit.), gli trasferisce il credito vantato dal debitore esecutato nei confronti del terzo pignorato, tenendo conto della dichiarazione resa da quest'ultimo. In particolare, spetta al giudice dell'esecuzione, non solo il potere- dovere di delibare sommariamente il titolo esecutivo e la correttezza della quantificazione operata dal creditore nel precetto, ma anche quello di interpretare la dichiarazione del terzo e trarne le dovute conseguenze quanto al credito oggetto dell'assegnazione (cfr., da ultimo, Cass. n. 5529/11, in tema di compensazione). La natura e l'entità del credito oggetto dell'assegnazione si desumono dal tenore e dal contenuto dell'ordinanza di assegnazione: se questa abbia assegnato un credito come sottoposto a termine o a condizione allora l'obbligo del terzo nei confronti del creditore assegnatario diventerà attuale nel momento in cui il credito sarà divenuto esigibile ovvero sarà venuto ad esistenza; se, invece, l'ordinanza ex art. 553 cod. proc. civ., abbia assegnato il credito senza alcuna limitazione, in conseguenza dell'interpretazione della dichiarazione del terzo come positiva e come riferita ad un credito certo, determinato nell'ammontare ed esigibile, il terzo pignorato sarà immediatamente obbligato nei confronti del creditore,, che potrà avvalersi di tale ordinanza (cfr. Cass. n. 3581/11).

L'ordinanza di assegnazione, pur contenendo un accertamento che si esaurisce in ambito esecutivo (cfr., tra le altre, Cass. n. 5510/03 e Cass. n. 11404/09), costituisce titolo esecutivo contro il terzo pignorato (cfr. Cass. n. 3976/03 e n. 19363/07) e vincola quest'ultimo nei confronti del creditore assegnatario (cfr. Cass. n. 17367/03), qualora non sia stata tempestivamente opposta ovvero qualora sia stata opposta e l'opposizione sia stata rigettata.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20310

Opposizione all'esecuzione e sospensione feriale


Trattandosi di causa di opposizione all'esecuzione introdotta ai sensi dell'art. 615 cod. proc. civ., comma 1, va fatta applicazione delle norme della L. n. 742 del 1969, artt. 1 e 3 e dell'art. 92 ord. giud., per le quali la sospensione feriale dei termini processuali non si applica alle opposizioni esecutive. Tale disciplina regola il processo di opposizione all'esecuzione in ogni sua fase, compreso il giudizio di cassazione (cfr. Cass. n. 10874/05, 6103/06, 12250/07, 14591/07, 4942/10) ed a prescindere dal contenuto della sentenza e dai motivi di impugnazione (cfr. Cass. n. 20745/09, Cass. ord. n. 9997/10).

Nel caso di specie, il termine per proporre ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 327 cod. proc. civ., va computato a decorrere dal 5 ottobre 2005, senza tenere conto della sospensione dei termini dal 1 agosto al 15 settembre, sicchè il termine annuale era già scaduto alla data del 17 novembre 2006, quando il ricorso venne spedito per le notifiche all'intimato.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20309

L'impugnazione tardiva di cui all'art. 327 c.p.c. per difetto di notifica


Per poter proporre l'impugnazione tardiva di cui all'art. 327 c.p.c., comma 2, la parte rimasta contumace è tenuta a dimostrare non solo la causa di nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio, ma anche il fatto che, a causa di quel vizio, essa non ha potuto acquisire conoscenza dell'atto e del conseguente processo.

Solo nei casi in cui la notificazione sia da ritenere del tutto inesistente la mancata conoscenza della pendenza della lite da parte del destinatario si presume "iuris tantum", ed è onere dell'altra parte dimostrare che l'impugnante ha avuto comunque conoscenza del processo (Cass. civ. S.U. 22 giugno 2007 n. 14570; Cass. civ. Sez. 5, 5 febbraio 2009 n. 2817). La notificazione è da ritenere inesistente, fra l'altro, nei casi in cui sia priva dei requisiti minimi per poter produrre un qualunque effetto, sostanziale o processuale, fra cui rientra il caso in cui la copia dell'atto sia rilasciata in luogo ed a persona che non presentino alcun collegamento con il destinatario (Cass. civ. 26 novembre 2004 n. 22293; Cass. civ. 11 giugno 2007 n. 13667. fra le tante).

Nella specie l'atto è stato indirizzato all'effettivo difensore della ricorrente, avv. Ernesto Graziani, pur se in luogo diverso da quello corrispondente al domicilio eletto per il giudizio di primo grado, ed è stato ritirato da certo D.F., qualificatosi come "collaboratore di studio" dell'avv. Graziani.

La stessa ricorrente ha ammesso che il D. aveva svolto la pratica forense presso il Graziani, pur se alla data della notificazione non frequentava più lo studio (Ricorso, pag. 9), e che all'indirizzo in Atessa, ove è stata richiesta ed eseguita la notificazione, vi era "un mero recapito telefonico" (Ricorso, pag. 5): recapito dell'avv. Graziani, è da ritenere, altrimenti la frase non avrebbe senso. Tali circostanze, unite alla dichiarazione resa da colui che ha ritirato l'atto, qualificatosi come collaboratore di studio, inducono a concludere che nella specie vi era un collegamento fra il luogo in cui la notificazione è stata eseguita e la persona del destinatario; che è da presumere che il D., pur se non più collaboratore (contrariamente a quanto ha dichiarato nel ritirare l'atto), fosse in grado di avvertire l'interessato dell'avvenuta notifica e che quindi il difensore sia venuto a conoscenza dell'atto di appello e del conseguente giudizio. La ricorrente avrebbe dovuto fornire la prova del contrario. Non avendovi provveduto, la notificazione dell'atto di appello è da ritenere regolare e l'impugnazione tardiva inammissibile.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20307

Locazione e l'art. 1263 cod. civ.


Con il primo motivo, denunciando violazione della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 36 ed omessa o carente motivazione.

I ricorrenti censurano la sentenza di appello nella parte in cui ha dichiarato privo di legittimazione passiva l'originario conduttore.

Rilevano che, a norma dell'art. 36 cit., il conduttore che abbia ceduto il contratto di locazione non è liberato dagli obblighi derivanti dal contratto medesimo, ma rimane obbligato all'adempimento nei confronti del locatore, qualora quest'ultimo non abbia espressamente dichiarato di volerlo liberare.

Una tale dichiarazione nella specie è del tutto mancata e sarebbe stato onere del conduttore dimostrarne l'esistenza. I ricorrenti denunciano l'erroneità della motivazione della Corte di appello, la quale ha ritenuto che nella specie la responsabilità del cedente è da escludere perchè i proprietari - avendo acquistato l'immobile in data successiva alla cessione - non hanno avuto occasione di fare affidamento sulla solvibilità del cedente.

Richiamano il disposto dell'art. 1263 cod. civ., secondo cui il credito ceduto si trasferisce al cessionario, con tutte le garanzie personali ad esso inerenti, senza alcuna distinzione fra le fattispecie di cessione negoziale e di cessione ex lege e senza alcuna considerazione dell'atteggiamento o dell'affidamento del proprietario.

Richiamano altresì la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il locatore che non abbia liberato il conduttore cedente e che richieda l'adempimento degli obblighi contrattuali può agire anche contro il solo conduttore-cedente, la cui responsabilità è subordinata all'inadempimento del cessionario (Cass. n. 13927/2002).

Il motivo è fondato.

La responsabilità del conduttore cedente per l'adempimento degli obblighi derivanti dal contratto, qualora il locatore non lo abbia espressamente liberato, è dalla legge collegata alla situazione tipica, astrattamente considerata; nel senso che si vuole comunque garantire al locatore la possibilità di fare affidamento sulla responsabilità del conduttore originario, in concorso con quella del cessionario del contratto, a maggior tutela della posizione e dei diritti del locatore medesimo.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20305

Distinzione tra contratto di appalto e contratto di vendita



Ora la giurisprudenza di questa Corte ha affermato in numerose occasioni che, ai fini della distinzione tra contratto di appalto e contratto di vendita, quando la prestazione consista tanto in un dare quanto in un fare, occorre avere riguardo alla volontà dei contraenti; per cui si ha appalto quando la prestazione della materia costituisce un mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio, mentre si ha vendita quando la fornitura riguarda manufatti che rientrano nella normale attività produttiva dell'imprenditore, anche se è necessario apportare modifiche di forma, misura e qualità espressamente richieste dalla controparte (S.U., sentenza 9 giugno 1992, n. 7073, nonchè, fra le altre, le sentenze 29 aprile 1993, n. 5074, 30 marzo 1995, n. 3807, e 21 maggio 2001, n. 6925). Occorre, in altre parole, valutare se sia prevalente o meno il lavoro rispetto alla materia (sentenza 24 luglio 2008, n. 20391), sulla base degli accordi intercorsi e del tipo di prestazione oggetto del contratto.

Nel caso di specie, è corretta la decisione della Corte d'appello circa la qualificazione del contratto in questione come appalto; è evidente, infatti, che la costruzione di un capannone di 8.000 metri cubi, commissionato ad un'impresa che svolge professionalmente l'attività di costruzione di prefabbricati, non può considerarsi una vendita. Un manufatto di tali dimensioni non può essere costruito ed installato come se fosse un oggetto già pronto, trattandosi di un qualcosa da realizzare "su misura" per le specifiche esigenze del committente (si veda la fattispecie, analoga, di cui alla citata sentenza n. 3807 del 1995); sicchè l'obbligazione di facere che contraddistingue il contratto di appalto assume rilevanza prevalente e decisiva rispetto a quella di dare che è tipica della compravendita.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20301

La natura residuale dell'azione generale di arricchimento.


I due motivi, per l'intima connessione delle censure con gli stessi proposte, sono esaminati congiuntamente.

Essi sono fondati per le ragioni e nei termini che seguono.

Il ricorrente censura l'erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 2041 c.c., evidenziando, da un lato, la natura residuale dell'azione generale di arricchimento, tale da giustificarne la promovibilità soltanto quando non vi è un'azione tipica sperimentabile contro l'arricchito; dall'altro l'impossibilità di ricorrere a questa azione in assenza dei tassativi requisiti normativi della sussidiarietà e del riconoscimento dell'utilitas.

La Corte di cassazione si è già pronunciata, in fattispecie analoga, con la sentenza del 26.3.2012, n. 4818, alla quale il Collegio ritiene di aderire.

In particolare deve sottolinearsi che il carattere sussidiario dell'azione di indebito arricchimento, previsto dall'art. 2042 c.c., comporta che tale azione non possa essere promossa, non soltanto quando sussista un'altra azione tipica proponibile dal danneggiato nei confronti dell'arricchito, ma anche quando vi sia originariamente un'azione sperimentabile contro persone diverse dall'arricchito, che siano obbligate per legge o per contratto (Cass. 5.7.2003, n. 11067; Cass. 27.6.1998, n. 6355).

Lo stesso requisito non è escluso dall'avere esperito, con esito negativo, altra azione tipica, qualora la relativa domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ab origine dell' azione stessa (nel caso esaminato, ex contractu) per difetto del titolo posto a suo fondamento, e che l'azione di natura contrattuale esperita dal F. nei confronti dei concessionario era stata rigettata con sentenza passata in giudicato sull'inesistenza del titolo.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20298

Impugnazione della cartella esattoriale


Il motivo è fondato.

E' principio pacifico nella giurisprudenza della Corte di cassazione che in relazione alla cartella esattoriale od all'avviso di mora emessi ai fini della riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie è possibile esperire, oltre all'opposizione di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22, ed all'opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell'art. 617 c.p.c., anche l'opposizione all'esecuzione di cui all'art. 615 c.p.c, ove si contesti la legittimità dell'iscrizione a ruolo per la mancanza di un titolo legittimante o si adducano fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo.

L'opposizione all'esecuzione, peraltro, si pone come strumento autonomo ed alternativo all'opposizione di cui alla L. n. 689 del 1981 (v. per tutte Cass.22.10.2010 n. 21793; v. anche Cass. 17.11.2009 n. 24215).

Ora, la sentenza impugnata, nella parte espositiva, da atto che l'attuale ricorrente propose opposizione all'esecuzione, convenendo il Comune di Roma, avverso la cartella esattoriale notificata il 21.7.2005 "con la quale veniva richiesta la somma di Euro 481,54 per violazioni al Codice della Strada commesse in data 23 gennaio 1996, 16 aprile 1996, 8 maggio 1996 / e 10 settembre 1996".

Si rileva ulteriormente che "dalla cartella...non risultano notificati entro il termine previsto dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 201 i relativi verbali e poichè alla data di ricezione del provvedimento (in oggetto) erano trascorsi più di cinque anni dalle avvenute trasgressioni, l'attrice nei propri scritti difensivi eccepiva l'intervenuta prescrizione del diritto a riscuotere la somma di Euro 481,54 ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 28, da parte del convenuto, in quanto "medio tempore" nessun atto interruttivo le veniva inviato".

E', quindi, di tutta evidenza, che - contrariamente a quanto affermato dal giudice di pace che ha ritenuto trattarsi di opposizione a cartella esattoriale con l'applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 22 e segg. e con la conseguente tardività dell'opposizione proposta - l'opposizione proposta dall'attuale ricorrente era, invece, da qualificarsi quale opposizione all'esecuzione, finalizzata a far valere il fatto estintivo sopravvenuto alla formazione del titolo esecutivo, della maturata prescrizione.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20295

Danno biologico trasmesso iure haeredidatis: danno tanatologico


Quanto al danno biologico direttamente riconducibile alla persona del defunto (e dunque, in ipotesi, trasmesso agli eredi iure haereditatis) la sentenza impugnata si conforma al consolidato insegnamento di questa corte regolatrice (da ultima, funditus, Cass. 6754/2011) che esclude la configurabilità del c.d. "danno tanatologico" (o da morte) qualora la morte coincida sostanzialmente (come nel caso di specie: folio 6 ss. della pronuncia della corte potentina) con il momento dell'incidente.

Quanto al pregiudizio biologico iure proprio, questa categoria di danno, alla luce di un inequivoco formante legislativo, oltre che giurisprudenziale, non può che consistere in una "lesione medicalmente accertabile" della salute fisio-psichica del danneggiato, lesione che, nella specie, non è stata nè allegata nè tempestivamente rappresentata in sede di merito, se soltanto con l'atto di appello gli odierni ricorrenti sembrano essersi orientati nel senso di ipotizzare, oltre alla sofferenza morale conseguente al gravissimo lutto subito, anche traumi fisici o psichici permanenti (senza peraltro specificarne l'esatta natura: così, correttamente, la sentenza impugnata al folio 8).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-11-2012, n. 20292


Filiazione


Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (v., ex plurlmis, Cass. n. 12198 del 2012, n. 14976 del 2007, n. 6694 del 2006), la corretta interpretazione dell'art. 269 c.c., commi 2 e 4, conduce ad escludere che possa sussistere un ordine gerarchico delle prove riguardanti l'accertamento giudiziale di paternità e maternità. Il secondo comma stabilisce espressamente che la prova può essere data con ogni mezzo, con l'unico limite, indicato nel comma 4, costituito dal fatto che il quadro probatorio non può consistere nelle sole dichiarazioni della madre e nella sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all'epoca del concepimento. All'interno di questo perimetro, il giudice può liberamente valutare le prove, non sussistendo al riguardo limiti legali (art. 116 c.p.c., comma 1), e può trarre argomenti di prova dal contegno processuale delle parti (art. 116 c.p.c., comma 2).

Deve, pertanto, escludersi che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla prova ematologica possa essere valutato solo se sia stata provata aliunde l'esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la madre naturale. In proposito, questa Corte, con la sentenza n. 6694 del 2006, ha espressamente affermato che, in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall'art. 269 c.c., comma 2, non tollera surrettizie limitazioni, nè mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, nè, conseguentemente, mediante l'imposizione al giudice di merito di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del "tipo" di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge.

E la successiva sentenza n. 14976 del 2007, nel confermare integralmente il principio sopraesposto, ha aggiunto che "una diversa interpretazione si risolverebbe in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 Cost., in relazione ad un'azione volta alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status". Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce, dunque, un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell'art. 116 c.p.c., anche in assenza di prove dei rapporti sessuali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi assolutamente certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l'effettivo concepimento a determinare l'esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, potendosi trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all'esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 19-11-2012, n. 20235


Cassazione e Consiglio di Stato: omessa pronuncia

Secondo l'orientamento espresso da questa Corte a Sezioni Unite, il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato con il quale si deduce l'omessa pronuncia sulla domanda può integrare motivo inerente alla giurisdizione, denunciabile ai sensi dell'art. 362 cod. proc. civ., solo se il rifiuto della giurisdizione sia giustificato dalla ritenuta estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali del giudice amministrativo, e non quando, come nella specie, si prospettino come omissioni dell'esercizio del potere giurisdizionale errori in iudicando o in procedendo (v. Cass. SS.UU., n. 1853 del 2009). Più in generale, è pacifico il principio secondo il quale i motivi inerenti alla giurisdizione, in relazione ai quali soltanto è ammesso il sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, vanno identificati o nell'ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato, in positivo o in negativo, l'ambito della giurisdizione in generale (come quando abbia esercitato la giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, quando abbia negato la giurisdizione sull'erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale), o nell'ipotesi in cui abbia violato i cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione (ipotesi, questa, che ricorre quando il Consiglio di Stato abbia giudicato su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad un'altra giurisdizione speciale, oppure abbia negato la propria giurisdizione nell'erroneo convincimento che essa appartenga ad altro giudice, ovvero ancora quando, in materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo sindacato sulla legittimità degli atti amministrativi, abbia compiuto un sindacato di merito). E' pertanto inammissibile il ricorso con il quale si denunci sostanzialmente un cattivo esercizio da parte del Consiglio di Stato della propria giurisdizione, vizio che, attenendo all'esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge al giudice amministrativo, non è deducibile dinanzi alle Sezioni Unite (v., ex plurimis, Cass. SS.UU., n. 8325 del 2010; n. 13176 del 2006; n. 14211 del 2005).

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 19-11-2012, n. 20220

Condominio: beni comuni installati in proprietà esclusiva


Invero, nel caso in cui, in un edificio condominiale, alcuni impianti comuni (la centrale termica, l'autoclave e l'impianto di sollevamento delle acque luride) si trovino installati nel piazzale e nei locali di proprietà esclusiva del singolo condomino, proprietario esclusivo anche della rampa, utilizzata per l'accesso con automezzi per le necessarie verifiche periodiche degli impianti e per la manutenzione e riparazione degli stessi, si ha una servitù con i caratteri della apparenza, suscettibile di costituzione per destinazione del padre di famiglia, ai sensi dell'art. 1062 cod. civ., se tale era la situazione di fatto posta o lasciata dall'unico proprietario dell'edificio allorchè, con la vendita frazionata dei piani o delle porzioni di piano, è sorto il condominio.

Del tutto fuori luogo appare il richiamo del ricorrente all'art. 843 cod. civ., atteso che qui non si è di fronte ad una limitazione legale del diritto del titolare del fondo per una utilità occasionale e transeunte del vicino che ha per contenuto la prestazione del consenso all'accesso e al passaggio, ma ad una servitù di accesso carraio attraverso la rampa, costituita a titolo originario, a carico della proprietà esclusiva del singolo condomino ed a vantaggio del condominio per il compimento, con la necessaria regolarità e frequenza, di tutte le operazioni di rifornimento, regolazione, controllo e manutenzione degli impianti comuni.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-11-2012, n. 20218


la domanda di liquidazione dei compensi per una prestazione di lavoro autonomo - domanda nuova in appello


Il motivo è infondato.

Questa Corte ha più volte avuto modo di chiarire che si ha mutamento della causa petendi, con conseguente introduzione di una domanda nuova preclusa in appello, quando il fatto costitutivo della pretesa sia modificato nei suoi elementi materiali, con la prospettazione di circostanze precedentemente non dedotte, e non anche quando sia modificato il profilo giuridico o la norma alla stregua della quale il fatto costitutivo venga dedotto; con la conseguenza che, ove siano rimasti immutati i presupposti di fatto già prospettati, anche per implicito, in primo grado, al giudice di appello è consentito di accogliere la domanda in base ad una norma giuridica diversa da quella indicata dalla parte al giudice di primo grado (Cass. 10-7- 1981 n. 4495; Cass. 3-7-1984 n. 3896).

In particolare, è stato puntualizzato che la domanda di liquidazione dei compensi per una prestazione di lavoro autonomo, secondo i criteri previsti dall'art. 2233 c.c., non modifica i presupposti di fatto e l'oggetto della domanda di liquidazione del compenso originariamente proposta per la medesima prestazione con esclusivo riferimento alla tariffa professionale, ma solo il profilo giuridico o, più propriamente, il quadro normativo di riferimento, della domanda (Cass. 19-8-1994 n. 7438). E infatti, in tema di compenso per l'attività svolta dal professionista, il giudice, indipendentemente dalla specifica richiesta del medesimo, a fronte di risultanze processuali carenti sul "quantum" ed in difetto di tariffe professionali e di usi, non può rigettare la domanda di pagamento del compenso, assumendo l'omesso assolvimento di un onere probatorio in ordine alla misura del medesimo, ma deve determinarlo, ai sensi degli artt. 1709 e 2225 c.c., con criterio equitativo, ispirato alla proporzionalità del corrispettivo con la natura, quantità e qualità delle prestazioni eseguite e con il risultato utile conseguito dal committente (Cass. 18-9-1995 n. 9829).

Alla stregua degli enunciati principi, deve escludersi che, proposta in primo grado dal professionista domanda di condanna al pagamento del compenso sulla base di asserite pattuizioni intercorse tra le parti, costituisca domanda nuova, inammissibile in appello ex art. 345 c.p.c., quella di liquidazione del compenso professionale sulla scorta dei criteri sussidiari di cui all'art. 2233 c.c..

Nella specie, pertanto, in difetto di prova del dedotto accordo delle parti sul quantum, il giudice di appello ha legittimamente verificato il fondamento della pretesa azionata alla stregua degli altri criteri legali di determinazione del compenso.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-11-2012, n. 20217


Obbligazioni di mezzo e di risultato


Secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzo e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, s'impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato e non a conseguirlo. Ne consegue che l'inadempimento del medesimo non può essere desunto senz'altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale ed in particolare al dovere di diligenza, per la valutazione del quale trova applicazione, in luogo del criterio tradizionale della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall'art. 1176 c.c., comma 2, il quale deve essere commisurato alla natura dell'attività esercitata (Cass. 13-1- 2005 n. 583; Cass. 9-11-2006 n. 23918); sicchè la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso essa è attenuata, configurandosi, secondo l'espresso disposto dell'art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave (tra le tante v. Cass. 7-4-2006 n. 8291; Cass. 8-8-2000 n. 10431; Cass. 14-8-1997 n. 7618). La violazione del dovere di diligenza comporta inadempimento contrattuale e determina, in applicazione del principio di cui all'art. 1460 c.c., la perdita del diritto al compenso (cfr. Cass. 22- 10-2007 n. 22087; Cass. 23-4-2002 n. 5928; n. 499 del 2001).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-11-2012, n. 20216


la sottoscrizione delle parti nei rogiti notarili e effettiva di causa impeditiva.


In detto quadro normativo, la sottoscrizione delle parti nei rogiti notarili, ai sensi della L. 16 novembre 1913, n. 89, art. 51, n. 10, si configura come requisito essenziale per la validità dell'atto, che in caso di carenza è da considerare senz'altro nullo (cfr., in tal senso, Cass. 8 novembre 1974 n. 3424), e, però accedendo ad atto che è del pubblico ufficiale che lo redige (art. 2699 c.c.), e non delle parti che vi intervengono, assume valenza e significato non già di strumento indispensabile di appropriazione della dichiarazione documentata e di presupposto della validità di questa, ma di elemento di completamento dell'iter procedimentale finalizzato alla formazione dell'atto, che, come tale, nell'ambito di detto iter, è surrogabile, in particolare, dalla dichiarazione che la parte renda formalmente al notaio, e che da costui venga espressamente menzionata nel rogito, dell'esistenza di una impossibilità o di una seria e grave difficoltà a sottoscrivere.

La funzione surrogatoria della sottoscrizione normativamente riconosciuta alla dichiarazione di impedimento a firmare della parte, con la menzione di tale dichiarazione nell'atto da parte del notaio, tuttavia si applica incondizionatamente soltanto nella riscontrata effettiva esistenza della causa impeditiva, integrando la falsità della relativa prospettazione un elemento ben suscettibile, da solo, o più spesso in concorso con altri, di evidenziare la mancanza nel dichiarante di un'effettiva volontà di negoziare corrispondente alla manifestazione di intento resa al notaio e un sostanziale diniego di approvare il contenuto del documento da questo formato (cfr., per riferimenti; Cass. 27 luglio 1950 n. 2101; Cass. 15 novembre 1968 n. 535; Cass. 22 maggio 1969 n. 1809; Cass. 23 maggio 1978 n. 4781; Cass. 5 novembre 1990 n. 10605; Cass. 11 novembre 1992 n. 1073; Cass. 6 novembre 1996 n. 9674; Cass. 30 gennaio 1998 n. 950; Cass. 10 agosto 2004 n. 15424, tutte riguardanti vertenze relative a validità di testamenti pubblici). Di conseguenza, allorchè venga contestata la veridicità della cennata dichiarazione di impedimento a sottoscrivere, il giudice non può ritenere, ed affermare, l'indiscutibile validità dell'atto pubblico che detta dichiarazione contiene e, soprattutto, dei negozi nello stesso documentati sulla base del solo dato della formale presenza nell'atto medesimo del cennato surrogato della sottoscrizione, ma deve accertare in concreto, sulla base delle prove offerte dalle parti interessate, se la dedotta falsità della causa impeditiva sussista, se la stessa costituisca, di per sè sola o in concorso con altre circostanze, indice di un rifiuto di approvare il contenuto negoziale del documento, estendendo l'indagine alla verifica di ogni ulteriore elemento ricavabile dalle peculiarità della fattispecie che possa rivelare l'esistenza, o l'insussistenza, di quel rifiuto, stabilire, infine, se ed in quali limiti la falsità della dichiarazione contestata sia opponibile alla controparte e possa determinare l'invalidità degli accordi con questa conclusi.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-11-2012, n. 20209


Nullità della sentenza e riesame ex novo e funditus de merito della controversia.


La Corte d'Appello, pur avendo chiaramente, e correttamente, ritenuto nella parte iniziale della motivazione, che la sentenza di primo grado fosse affetta da nullità, in quanto emessa ancor prima della scadenza dei termini concessi alle parti ex art. 190 c.p.c. (così vanificando le garanzie di difesa e pieno contraddittorio tra le parti), non solo ha omesso, nel dispositivo, di dichiarare tale nullità, ma, ponendosi in palese contrasto con il pur enunciato ed altrettanto corretto principio, secondo cui, non versandosi in ipotesi di regressione del processo in primo grado la dichiarata nullità avrebbe imposto il riesame ex novo e funditus de merito della controversia, è incorsa nel duplice errore: a) di recuperare una parte della sentenza di primo grado, pur ritenuta nulla, affermandone il relativo passaggio in giudicato; b) di esaminare i thema decidenda non come proposti dalle parti al primo giudice, bensì alla stregua di giudice di secondo e sulla scorta "delle doglianze di merito avanzate dall'appellante" (v. pag. 3,secondo periodo della motivazione), per poi concludere per l'inammissibilità del gravame, nella parte ritenuta preclusa dal "giudicatole per l'infondatezza dello stesso, sia pur nell'ottica delibativa imposta dalla "cessazione della materia del contendere" (peraltro non condivisa dalla stessa corte, v. pag., 4 1^ cpv., secondo periodo) ed ai fini della soccombenza virtuale, pervenendo infine, con evidente schisi logica, al "rigetto" del "proposto gravame".

Dal groviglio delle argomentazioni poste a base di tale pronunzia, balza evidente l'intima contraddittorietà ed erroneità dell'impianto decisionale, considerato che, una volta accertata la nullità della sentenza, in presenza di un radicale vizio che ne aveva inficiato la validità nel suo complesso, nessuna parte della stessa avrebbe potuto sopravvivere ed assurgere al rango di cosa giudicata, tanto meno ove si fosse considerato che l'appellante, deducendo quella nullità, aveva investito della relativa censura l'intera sentenza, ivi compreso quel capo nel quale la stessa aveva, a torto o ragione, dichiarato "cessata la materia del contendere".

In siffatto contesto, il giudice di appello, una volta dichiarata (correttamente e come non viene contestato dalle parti in questa sede), la nullità della gravata sentenza, avrebbe dovuto riesaminare le questioni dedotte dalle parti, accertare se effettivamente la materia del contendere fosse cessata, o ancora persistesse, sia pure in parte, e pronunziarsi nel merito della controversia, ai fini della soccombenza, virtuale nel primo caso, effettiva nel secondo, e regolare di conseguenza le spese.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 15-11-2012, n. 20009


Il procedimento di rendiconto, disciplinato dagli artt. 263-265 cod. proc. civ.


Il procedimento di rendiconto, disciplinato dagli artt. 263-265 cod. proc. civ., è fondato sul presupposto dell'obbligo di una parte, derivante dalla legge o dall'accordo delle parti ed accertato dal giudice, di rendere il conto all'altra parte, facendo conoscere il risultato della propria attività in quanto rifluente nella sfera di interessi patrimoniali altrui o, contemporaneamente, in quella altrui e nella propria: pertanto, ove vi sia controversia in ordine alla situazione od al negozio da cui si fa discendere quell'obbligo, l'ordine del giudice di presentazione del conto deve essere preceduto dal positivo accertamento dell'esistenza di detta situazione o negozio, che ne costituiscono la base imprescindibile (Cass., 28 febbraio 2007, n. 4765).

[...]

E' pur vero infatti che la sottoscrizione di colui che renda il conto, consistendo questo in una esposizione analitica di somme necessariamente racchiusa in un documento da depositare in tempo utile perchè la controparte possa esaminarlo, deve considerarsi requisito essenziale del medesimo, con la conseguenza che il documento che ne risulti privo non può ritenersi idoneo a fondare il legittimo instaurarsi del procedimento di cui agli artt. 263 e successivi c.p.c. (Cass., 6 agosto 1997, n. 7284).

Dall'impugnata sentenza non emerge tuttavia alcuna contestazione sulla firma, nè la mancanza della firma stessa può essere denunciata per la prima volta in cassazione.

E comunque, come nella fattispecie, l'obbligo di rendiconto può legittimamente dirsi adempiuto quando il mandatario abbia fornito la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto della somma incassata e dell'entità causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi di fatto funzionali alla individuazione ed al vaglio delle modalità di esecuzione dell'incarico, onde stabilire se il suo operato si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione (Cass., 23 novembre 2006, n. 24866).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 14-11-2012, n. 19991


Le delibere dell'assemblea generale del supercondominio


Le delibere dell'assemblea generale del supercondominio hanno efficacia diretta ed immediata nei confronti dei singoli condomini degli edifici che ne fanno parte, senza necessità di passare attraverso le delibere di ciascuna assemblea condominiale (Cass. 15476/01). In particolare, laddove esiste un supercondominio, devono esistere due tabelle millesimali: a). La prima riguarda i millesimi supercondominiali, e stabilisce la spartizione della spesa non tra i singoli condomini, ma tra gli edifici che costituiscono il complesso.

Per esempio, 400 millesimi all'edificio A, 320 all'edificio B e 280 all'edificio C. La seconda tabella è quella normale interna ad ogni edificio. Una volta stabilito che all'edificio A tocca il 40% della spesa, questo 40% sarà suddiviso tra i suoi condomini in proporzione alla tabella millesimale interna a quel particolare edificio condominiale. 3) L'esistenza del supercondominio, costituendosi, questo, "ipso iure et facto" può essere escluso o dal titolo o dal Regolamento condominiale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-11-2012, n. 19939


Procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali


Il motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.

E' esatto il presupposto da cui muove la sentenza impugnata, che cioè, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo emesso ai sensi dell'art. 63 disp. att. cod. civ. per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale ma solo questioni riguardanti l'efficacia della medesima: tale delibera, infatti, costituisce titolo di credito del condominio e, di per sè, prova l'esistenza di tale credito e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel giudizio di opposizione che quest'ultimo proponga contro tale decreto (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2007, n. 4421; Cass., Sez. 2, 20 luglio 2010, n. 17014; Cass., Sez. 2, 18 settembre 2012, n. 15642).

In altri termini, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative delibere assembleare, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo questa attività riservata al giudice davanti al quale dette delibere siano state impugnate (Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2009, n. 26629).

Ora, nella specie il Giudice di pace, nel rigettare l'opposizione a decreto ingiuntivo, ha sottolineato che presso il Tribunale di Roma pendeva, promosso dalla P., il giudizio di impugnazione della deliberazione condominiale del 14 maggio 2001 che aveva approvato lo stato di ripartizione delle spese e che era stato posto a fondamento della domanda in via monitoria del condominio, ma ha rilevato che l'opponente a decreto ingiuntivo non aveva riferito di alcun provvedimento di sospensione della deliberazione impugnata emesso da quel giudice.

Sennonchè, proponendo il ricorso per cassazione, la P. ha dimostrato - attraverso idonea produzione documentale - che, nella pendenza del termine per l'impugnazione, è sopravvenuta la sentenza del Tribunale di Roma (la n. 6129 del 15 marzo 2006) , la quale, accogliendo la domanda della condomina, ha annullato la delibera approvata dall'assemblea nella seduta del 14 maggio 2001.

Ritiene il Collegio che se al giudice dell'impugnazione della delibera condominiale è dato il potere di sospendere cautelarmente, ai sensi dell'art. 1137 c.c., comma 2, l'esecuzione della delibera, con ciò determinandosi la sopravvenuta perdita di efficacia del titolo posto a base della pretesa avanzata in sede monitoria, a maggior ragione detta perdita di efficacia del titolo consegue alla pronuncia di merito a cognizione piena che, accogliendo l'impugnazione della delibera esperita dal condomino, dichiari l'invalidità della delibera assembleare. Nè è a ciò di ostacolo il fatto che si tratti di sentenza ancora soggetta ad impugnazione, giacchè detta sentenza, ancor prima ed indipendentemente dal suo passaggio in giudicato, in virtù della sua intrinseca imperatività, esplica un'efficacia di accertamento al di fuori del processo in cui è stata pronunciata (cfr. Cass., Sez. Un., 19 giugno 2012, n. 10027).

Da tanto consegue che, proposta opposizione a decreto ingiuntivo per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve accogliere l'opposizione qualora la relativa delibera condominiale abbia perduto la sua efficacia, per essere stata l'esecuzione del provvedimento dell'assemblea condominiale sospesa dal giudice dell'impugnazione, ex art. 1137 c.c., comma 2, o per avere questi, con sentenza, ancorchè non ancora passata in giudicato, dichiarato l'invalidità della delibera.

Tale principio opera anche quando la sentenza di annullamento resa dal giudice dell'impugnazione della delibera assembleare sopravvenga alla decisione di merito nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Il divieto dell'art. 372 cod. proc. civ., infatti, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli, successivi, comprovanti il venir meno dell'efficacia della deliberazione posta a base del provvedimento monitorio opposto.

Tale soluzione - che si pone sulla scia dell'indirizzo giurisprudenziale che ammette la produzione di documenti nuovi dai quali si ricavi la sopravvenuta cessazione della materia del contendere (Cass., Sez. 2, 5 agosto 2008, n. 21122; Cass., Sez. lav., 23 giugno 2009, n. 14657; Cass., Sez. 1, 10 giugno 2011, n. 12737) o la successiva formazione del giudicato esterno (Cass., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916) - si giustifica perchè la sentenza che dichiara invalida la delibera condominiale posta a fondamento del decreto ingiuntivo opposto, sebbene non sia rilevante per le specifiche questioni di rito indicate nell'art. 372 cod. proc. civ. (nullità della sentenza impugnata; ammissibilità del ricorso e del controricorso), ma abbia un'incidenza sul merito, comprova la sopravvenuta formazione di una regula iuris operante in relazione alla decisione del caso concreto.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-11-2012, n. 19938