30 luglio 2012

Nuovo indirizzo dello Studio Legale Storti

Via Carlo Fea, 9, RMLo Studio Legale Storti cambia indirizzo.

Dal 1.8.2012 la nuova sede sarà in
Via Carlo Fea, 9 - 00161 - Roma

I contatti rimarranno sempre gli stessi:

Tel. 06.44235810 e Fax 06.64220035


27 luglio 2012

Giustizia Amministrativa - ottemperanza - condizioni e limiti



Giudizio di ottemperanza: condizioni e limiti

Il T.A.R. Palermo chiarisce le condizioni cui è sottoposto il giudizio di ottemperanza con particolare riferimento al ricorso per l'esecuzione di una sentenza del tribunale sezione lavoro di Palermo.

T.A.R. / T.A.R. Sicilia - Palermo / Sentenza 18 luglio 2012 da NORMA

26 luglio 2012

C.A.S.E. a L'Aquila in comodato gratuito e.. di comodo!

Nella sezione "sentenza del mese" la pronuncia del Consiglio di Stato (per esteso) sull'impugnazione promossa contro la sentenza del TAR Abruzzo: una famiglia deteneva i prefabbricati C.A.S.E. solo per mero comodo a danno delle famiglie che ne avevano realmente bisogno.
Palazzo Spada dà ragione al Commissario Delegato per la Ricostruzione.


Consiglio di Stato, sent. del 25-7-2012 n. 4222

Studio medico convenzionato, ma senza dipendenti e IRAP


"la disponibilità, da parte dei medici di medicina generale convenzionati con il SSN, di uno studio dotato delle attrezzature indicate nell'art. 22 dell'Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, reso esecutivo con D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, essendo obbligatoria ai fini dell'instaurazione e del mantenimento del rapporto convenzionale, non integra, di per sè, in assenza di personale dipendente, il requisito dell'autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo dell'IRAP" (cfr. da ultimo l'ordinanza n. 4934 del 27 marzo 2012)."

Cass. civ. VI - 5, Ord., 24-07-2012, n. 13061

Segnalazione alla Centrale rischi per crediti in sofferenza


"La trasmissione del nominativo per un credito "in sofferenza" della Banca alla predetta Centrale rischi non richiede una formale costituzione in mora, ma sicuramente un'informazione preventiva al cliente e una richiesta di "rientro": nella specie, come chiarisce la sentenza impugnata, non si trattava di concessione di fido, che avrebbe dovuto essere revocata, ma di uno scoperto del conto corrente, tollerato per un certo periodo e successivamente oggetto di richiesta di rientro, con pagamento della somma capitale "e degli accessori" (la relativa documentazione - precisa la sentenza impugnata - era stata prodotta proprio dal L., che dunque era ben consapevole della richiesta della Banca).


Va altresì considerata la continuità nel tempo della posizione debitoria dell'odierno ricorrente, come ancora chiarisce il giudice a quo: egli pagò, a seguito della richiesta della banca, la somma capitale, ma non gli accessori, e dunque del tutto legittimamente la banca effettuò la predetta segnalazione.


E' appena il caso di precisare che l'argomentazione del ricorrente circa una maliziosa dilazione della banca, nella sua richiesta, per far crescere l'ammontare degli interessi, rimane una pura asserzione, e non si forniscono ulteriori e circostanziate precisazioni: sul punto quindi il motivo presenta pure qualche profilo di non autosufficienza."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-07-2012, n. 12978

Condominio e installazione dell’ascensore esterno che pregiudica la proprietà esclusiva dei singoli condomini


"Sotto altro profilo, si osserva che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'azione proposta dall'attore, essendo diretta a far valere la nullità delle due delibere del 1997, non era soggetta al termine di decadenza previsto dall'art. 1137 c.c., comma 3; e che, come evidenziato dalla Corte di Appello, la nullità delle delibere condominiali può essere dedotta anche dal condomino che in assemblea si sia dimostrato consenziente all'esecuzione di opere poi rivelatesi lesive del suo diritto individuale.


Deve premettersi che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, debbono qualificarsi nulle le delibere dell'assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito, le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto; debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto (Cass. S.U. 7-3-2005 n. 4806; Cass. 9-12-2005 n. 27292; Cass. 20-7-2010 n. 17014).


Nella specie, pertanto, correttamente la Corte di Appello ha ritenuto la nullità delle due delibere impugnate, derivando dalle stesse la lesione del diritto dominicale esclusivo dell'attore e una indebita invasione nella sua sfera giuridica primaria.


Ai sensi dell'art. 1120 c.c., comma 2, infatti, devono ritenersi vietate non solo le innovazioni che, ancorchè adottate con le maggioranze qualificate di cui all'art. 1136 c.c., compromettano il pari uso e il concorrente diritto degli altri partecipanti nell'utilizzazione della cosa comune, ma anche quelle che pregiudichino la proprietà esclusiva dei singoli condomini.


In tali sensi si è già pronunciata questa Corte, rilevando, in particolare, che la L. 9 gennaio 1989, n. 13, art. 2, (recante norme per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati), dopo aver previsto la possibilità per l'assemblea condominiale di approvare le innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze indicate nell'art. 1136 c.c., commi 2 e 3 - così derogando all'art. 1120 comma 1, che richiama l'art. 1136, comma 5, e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate -, dispone, al comma 3, che resta fermo il disposto dell'art. 1120 comma 2, il quale vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità secondo l'originaria costituzione della comunione. Ne deriva che, a maggior ragione, sono nulle le delibere che, ancorchè adottate a maggioranza al fine indicato, siano lesive dei diritti di altro condomino sulla porzione di sua proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito i quali avevano dichiarato la nullità della deliberazione adottata a maggioranza in base alla L. n. 13 del 1989, art. 2, cit. di installazione di un ascensore volto a favorire le esigenze di un condomino portatore di handicap, che comportava un sensibile deprezzamento dell'unità immobiliare di altro condomino sita a piano terra) (Cass. 25-6-1994 n. 6109).


Per le stesse ragioni, deve ritenersi la nullità della delibera di installazione dell'impianto di ascensore adottata nell'interesse comune, se da essa consegua la violazione dei diritti di un condomino sulle parti di sua proprietà esclusiva; con la conseguenza che tale causa di invalidità non è soggetta ai termini di impugnazione di cui all'art. 1137 c.c., u.c., ma può essere fatta valere in ogni tempo da chiunque dimostri di averne interesse e, quindi, anche dal condomino che abbia espresso voto favorevole (cfr. Cass. 19-3-2010 n. 6714, Cass. 24-5-2004 n. 9981; Cass. 18-4-2002 n. 5626)."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 24-07-2012, n. 12930

L’avvocato e il compenso per l’attività stragiudiziale non connessa alla mera assistenza processuale


"Appare invece meritevole di accoglimento la seconda censura.


L'art. 2 delle Disposizioni Generali in materia stragiudiziale dispone che "i rimborsi e i compensi previsti per prestazioni stragiudiziali sono dovuti dai cliente anche se il professionista abbia avuto occasione di prestare nella pratica la sua opera in giudizio, in quanto tali prestazioni non trovino adeguato compenso nella tariffa per le prestazioni giudiziali".


Tale norma è stata costantemente interpretata da questa Corte nel senso che, affinchè il professionista che stia prestando assistenza giudiziale al cliente possa avere diritto ad un distinto compenso per prestazioni stragiudiziali, è necessario che tali prestazioni non stano connesse e complementari con quelle giudiziali. Ove sussista tale connessione, gli compete solo il compenso per l'assistenza giudiziale, eventualmente maggiorato sino al quadruplo (art. 5, commi 2 e 3, della tariffa giudiziale), in relazione alle questioni giuridiche trattate ed all'importanza della causa, tenuto conto dei risultati del giudizio, anche non patrimoniali, e dell'urgenza richiesta (Cass. Sez. Un. 24-7-2009 n. 17357; Cass. 29-5-2008 n. 14443; Cass. 12-6- 2007 n. 13770; Cass. 23-5-1992 n. 6214; Cass. 23-7- 1979 n. 4411).


Nella specie, pertanto, il giudice di appello avrebbe dovuto accertare se le attività stragiudiziali dedotte dal professionista dovessero o meno ritenersi connesse e complementari rispetto a quelle giudiziali rese in favore dell'A.P.I., e in caso negativo liquidare un compenso distinto per tali prestazioni. Il Tribunale, al contrario, ha proceduto alla liquidazione dell'onorario unico previsto dalla tariffa professionale in materia di prestazioni giudiziali, senza verificare se vi fosse connessione tra le attività stragiudiziali e quelle giudiziali."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 24-07-2012, n. 12928

25 luglio 2012

Giustizia Amministrativa - esecuzione di giudicato




Esecuzione del giudicato in assenza di risorse finanziarie

Sull'esecuzione del giudicato in assenza di risorse finanziarie comunali da destinarsi al pagamento delle somme oggetto di titolo esecutivo e in presenza di provvedimenti adottati dall'ente locale ai sensi dell'articolo 159 del Decreto Legislativo n. 267/2000.

T.A.R. / T.A.R. Sicilia - Palermo / Sentenza 10 luglio 2012 da NORMA


GIUDIZIO DI CONTO - Responsabilità amministrativa o contabile - Diritti della personalità


La diffusione di dati personali deve avvenire, ai sensi dell'art. 9 della legge n. 675 del 1996, in modo lecito e secondo correttezza ed, in ogni caso, con modalità pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per cui i dati stessi sono raccolti o successivamente trattati. Ne deriva che la Pubblica Amministrazione commette un illecito nell'ipotesi in cui effettui il trattamento di un dato che risulti eccedente le finalità pubbliche da soddisfare. Ciò detto, se è lecito indicare nelle deliberazioni adottate dal Consiglio comunale il nominativo di un pubblico dipendente nei cui confronti è stato disposto un pignoramento dello stipendio, in virtù dell'art. 183 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti Locali) che prevede, per l'adozione degli impegni di spesa che debba essere specificata, oltre alla somma da pagare ed al soggetto creditore, anche la ragione di tale impegno, non è di certo rispettoso dei criteri di pertinenza e proporzionalità di cui all'art. 9 della citata legge, il riportare i dati personali del dipendente in questione in un avviso di convocazione del Consiglio comunale e, specificatamente, nella voce dell'ordine del giorno concernente il riconoscimento di un debito fuori bilancio. Ed infatti, in tale caso, è sufficiente il solo riferimento all'oggetto ed al numero della sentenza di esecuzione, la cui indicazione è necessaria per il riconoscimento del predetto debito, in ossequio all'art. 10, comma 1, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti Locali) che prevede il bilanciamento dell'esigenza di trasparenza e pubblicità degli atti dell'Amministrazione comunale con quella connessa alla loro diffusione con pericolo di pregiudizio del diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o delle imprese.

Cass. civ. Sez. I, 20-07-2012, n. 12726

TARSU: esercizio alberghiero e civile abitazione - regolamento comunale


"La CTR ha annullato l'atto impositivo, ritenendo che lo stesso fosse stato emesso sulla base di un regolamento comunale illegittimo e, come tale, da disapplicare.


Segnatamente, alla base di tale opinamento era la considerazione che la norma regolamentare che aveva consentito una diversificazione tariffaria, ritenuta irragionevole e rilevante, tra i locali ad uso abitativo (Euro 1,12 mq) e quelli destinati ad esercizi alberghieri (Euro 4,24 mq), risultava essere illegittima in quanto confliggente con il disposto del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 65 e 68.


Tale decisione sembra fare malgoverno del principio secondo cui "In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), è legittima la delibera comunale di approvazione del regolamento e delle relative tariffe, in cui la categoria degli esercizi alberghieri venga distinta da quella delle civili abitazioni, ed assoggettata ad una tariffa notevolmente superiore a quella applicabile a queste ultime; la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce infatti un dato di comune esperienza, emergente da un esame comparato dei regolamenti comunali in materia, ed assunto quale criterio di classificazione e valutazione quantitativa della tariffa anche dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, senza che assuma alcun rilievo il carattere stagionale dell'attività, il quale può eventualmente dar luogo all'applicazione di speciali riduzioni d'imposta, rimesse alla discrezionalità dell'ente impositore; i rapporti tra le tariffe, indicati dal D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 69, comma 2, tra gli elementi di riscontro della legittimità della delibera, non vanno d'altronde riferiti alla differenza tra le tariffe applicate a ciascuna categoria classificata, ma alla relazione tra le tariffe ed i costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica" (Cass. n. 5722/2007).


Il ricorso può, quindi, essere definito in camera di consiglio, proponendosene l'accoglimento, per manifesta fondatezza, ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c.."

Cass. civ. VI - 5, Ord., 23-07-2012, n. 12859

Il mandato alle liti firmato solo dalla moglie: l’avvocato-creditore non può pignorare l’auto al marito


"...propone il seguente quesito di diritto: "Dica la Cassazione se per le obbligazioni contratte da uno solo dei coniugi nell'interesse dei figli ex art. 147 c.p.c. (rectius: c.c.) e relative a conferimento di un mandato giudiziale, debba rispondere anche il coniuge non firmatario del predetto mandato, in quanto coobbligato in solido".


L'illustrazione, poi, si sviluppa nella pagina quattordici e all'inizio della quindici e, quindi, enuncia un altro quesito in questi termini: "Dica la Cassazione se il titolo esecutivo ottenuto nei confronti di uno dei coniugi per il mancato adempimento di un'obbligazione assunta nel'interesse dei figli da esso soltanto spieghi i suoi effetti anche nei confronti dell'altro coniuge, in quanto coobbligato in solido".


Tanto la prima parte dell'illustrazione, quanto la seconda ignorano la motivazione con cui il Tribunale ha argomentato, facendo riferimento alle norme degli artt. 110, 111 e 478 c.p.c., all'art. 2909 c.c. e all'art. 477 c.p.c., perchè il titolo esecutivo sulla base del quale il ricorrente iniziò l'esecuzione nei riguardi del L. non spiegava effetti nei suoi riguardi, essendo stato ottenuto nei confronti della moglie.


Delle argomentazioni desunte da dette norme il ricorrente si disinteressa e, quindi, nuovamente il motivo è inammissibile in base al principio di diritto di cui a Cass. n. 359 del 2005, sopra citata.


Sia nella prima che nella seconda parte l'illustrazione si risolve, infatti, nella postulazione che, essendo stata la prestazione eseguita sulla base del conferimento del mandato alle liti dalla B. finalizzata alla tutela contro uno sfratto intimato alla medesima dalla locatrice riguardo ad un immobile destinato a casa familiare, tale finalizzazione giustificherebbe la qualificazione dell'obbligazione assunta con il conferimento del mandato alle lite come assunta anche per conto del marito. Senonchè, pur concedendo che tale prospettazione, che il ricorrente giustifica evocando le norme degli artt. 143, 144 e 147 c.c. e citando giurisprudenza di questa Corte (per lo più evocativa della conseguenza dell'estensione dell'obbligazione sull'altro coniuge quando ricorra una situazione di c.d. apparenza giuridica del potere di rappresentanza), non si spiega in alcun modo come la sua applicazione possa comportare che il titolo esecutivo che il creditore comune si sia formato nei confronti di uno solo dei coniugi possa essere utilizzato per procedere esecutivamente nei confronti dell'altro. La prospettazione del ricorrente riguarda il modo di essere del diritto sostanziale inerente le obbligazioni assunte nell'interesse della famiglia da uno solo dei coniugi e, quindi, le ragioni che possono giustificare che l'obbligazione possa gravare sull'altro. Altro è, invece, come l'applicazione di tale diritto sostanziale possa concretarsi in un tiolo esecutivo nei riguardi di quest'altro coniuge.


Problema che la sentenza impugnata ha correttamente risolto escludendo che il titolo esecutivo giudiziale che il ricorrente ottenne nei riguardi della B. potesse spiegare effetti nei riguardi del marito.


Esclusione che, una volta supposto che il coniuge non agente è solidalmente obbligato verso il terzo con quello agente, se questi compie atti che ineriscono l'interesse familiare, è determinata anche, se si resta sul piano dell'obbligazione solidale, dall'applicazione della norma dell'art. 1306 c.c., comma 1, non potendo in base ad essa ritenersi che il titolo esecutivo formatosi contro la B. spiegasse effetti in danno del L..


Il motivo, se non fosse inammissibile, sarebbe, dunque, manifestamente infondato."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 23-07-2012, n. 12793

24 luglio 2012

Giustizia Amministrativa - dies a quo dell'interdizione annuale a seguito di annotazione AVCP



Appalti pubblici: da quando decorre l'interdizione annuale a seguito dell'annotazione nel casellario dell'AVCP?

In caso di false dichiarazioni circa i requisiti di partecipazione e conseguente segnalazione all'Autorità di Vigilanza sui Contratti pubblici, il Collegio amministrativo della Capitale chiarisce il dies a quo dell'interdizione annuale dalle gare pubbliche, sottolineando l'autonoma lesività dell'annotazione.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 16 luglio 2012 da NORMA

In cassazione vanno esposti i fatti e non riprodotti gli stralci dell'avviso


IMPOSTE E TASSE IN GENERE - Ricorso per Cassazione

Il Fisco, nel proporre ricorso, deve esporre chiaramente i fatti contestati non potendosi limitare alla semplice riproduzione fotostatica di stralci dell'avviso di accertamento. La Corte, infatti, deve poter verificare che quanto è affermato dal ricorrente trova effettivo riscontro negli atti, atti nei quali, tuttavia, la Corte non può cercare il rilievo.

Cass. civ. VI - 5, 19-07-2012, n. 12580

Procedimento ex L. n. 794 del 1942: in Tribunale in composizione collegiale


"Con sentenza n. 4967 del 2004, si è infatti statuito che il procedimento previsto dalla L. n. 794 del 1942, per la liquidazione degli onorari di avvocato "si svolge in camera di consiglio e deve essere trattato dal tribunale in composizione collegiale, atteso che l'art. 50 bis c.p.c., comma 2, (introdotto dal D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante l'istituzione del giudice unico di primo grado) prevede per i procedimenti in camera di consiglio disciplinati dall'art. 737 c.p.c. e ss., una riserva di collegialità dalla quale restano esclusi soltanto quelli, tra i procedimenti camerali, per i quali sia diversamente disposto" (v. in tal senso, anche C. Cass. 13927 del 2002 e 12249 del 2006).


Con sentenza n. 1312 del 2003 (cui adde C. Cass. 10271 del 2005), la Corte ha invece affermato che il procedimento di cui alla L. n. 794 del 1942, non rientra fra quelli disciplinati dall'art. 737 c.p.c. e ss., cosicchè dev'essere trattato dal tribunale in composizione monocratica, non vigendo per esso la riserva di collegialità di cui all'art. 50 bis c.p.c., comma 2.


Tale interpretazione è stata seguita dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in materia di opposizione al decreto di pagamento dei compensi dovuti agli ausiliari del giudice. Preso atto che il D.P.R. n. 105 del 2002, art. 170, richiamava, per tali opposizioni, la procedura prevista dalla L. n. 794 del 1942, precisando, però, che il tribunale avrebbe dovuto giudicare in composizione monocratica, la Corte ha invero rilevato che tale ultima previsione non confliggeva con l'art. 50 bis, comma 2, in quanto il procedimento regolato dalla L. n. 794 del 1942, non rientrava fra quelli di cui all'art. 737 c.p.c. e ss., "essendo a tal fine sufficiente considerare che il provvedimento (conclusivo) non è impugnabile, mentre l'art. 739 c.p.c., prevede espressamente il reclamo" (sent. n. 53 del 2005). Malgrado l'autorevolezza dell'avallo così ricevuto, la tesi propugnata da C. Cass. n. 1312 del 2003 non può essere condivisa.


A questo proposito giova rammentare che, secondo la L. n. 794 del 1942, art. 29, una volta presentato il ricorso il presidente del tribunale doveva fissare la data della comparizione davanti al tribunale in camera di consiglio. Non era obbligatorio il ministero di un difensore ed il collegio, sentite le parti, doveva tentarne innanzitutto la conciliazione e solo se questa non riusciva (o qualcuno non compariva) procedere alla liquidazione con ordinanza non impugnabile, che costituiva titolo esecutivo anche per le spese del procedimento.


Nell'istituire il giudice unico di primo grado, il D.Lgs. n. 51 del 1998, ha stabilito che il tribunale decide in composizione monocratica tranne che nei casi contemplati dall'art. 50 bis c.p.c., che al secondo comma impone al tribunale di giudicare in composizione collegiale anche nei procedimenti in camera di consiglio disciplinati dall'art. 737 c.p.c. e ss..


Gli artt. da 737 a 742 c.p.c., prevedono, a loro volta, che il tribunale può assumere informazioni e, salvo che la legge disponga altrimenti, provvede con decreto reclamabile dalle parti e sempre revocabile o modificabile dal giudice che lo ha emesso.


Il successivo art. 742 bis c.p.c., stabilisce, infine, che le disposizioni degli articoli che lo precedono si applicano a tutti i procedimenti in camera di consiglio.


Discende da quanto sopra che la decisione con decreto reclamabile non costituisce una caratteristica imprescindibile dei procedimenti di cui all'art. 737 che, come si è visto, fa salva la contraria previsione di legge.


Un procedimento in camera di consiglio, perciò, potrebbe essere assimilato a quelli disciplinati dai predetti articoli anche nel caso in cui debba essere deciso con ordinanza non impugnabile, quale quella prevista dalla L. n. 794 del 1942, che, d'altro canto, non disciplina il relativo procedimento in maniera talmente dettagliata da escludere ogni necessità d'integrazione.


Considerato che in base all'art. 742 bis, gli spazi vuoti dei procedimenti in camera di consiglio debbono essere riempiti con le disposizioni di cui al capo 6^ del titolo 2^ del libro 4^ del codice di procedura civile, risulta, quindi, fondata la tesi secondo la quale anche il procedimento di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28 e ss., sarebbe riconducibile nel novero di quelli disciplinati dall'art. 737 c.p.c. e ss., e, per l'effetto, nell'ambito di quelli destinati ad essere trattati dal tribunale in composizione collegiale.


Con questo convincimento si è evidentemente mosso anche il Legislatore, che nell'estendere la procedura di cui alla L. n. 794 del 1942, anche alle opposizioni ai decreti di liquidazione dei compensi agli ausiliari del giudice, ha sentito il bisogno di precisare espressamente che le stesse avrebbero dovuto essere trattate e decise dal tribunale in composizione monocratica (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170).


Se una conclusione del genere fosse già stata insita nel richiamo della disciplina di cui alla L. n. 794 del 1942, la puntualizzazione sopra indicata non avrebbe avuto alcuna utilità se non quella di fare chiarezza in materia.


Mancando, però, qualsiasi accenno ad una finalità latamente interpretativa della previgente disciplina (che, peraltro, non aveva fino ad allora dato vita a significativi contrasti in dottrina nè a discordanti pronunce nella giurisprudenza di legittimità), essa appare piuttosto da riguardare come il frutto di una visione chiaramente impostata sul presupposto della necessità di trattare in composizione collegiale le controversie in materia di liquidazione degli onorari di avvocato.


Che proprio questo sia stato il convincimento del Legislatore è d'altronde ulteriormente (ed inequivocabilmente) comprovato dalla successiva produzione normativa.


Con la L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 54, il Governo è stato delegato ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientravano nella giurisdizione ordinaria ed erano regolati dalla legislazione speciale.


Con il medesimo art. 54, comma 4, sono stati poi fissati i principi direttivi cui il Governo avrebbe dovuto attenersi, prescrivendosi, fra l'altro, che avrebbero dovuto restare "fermi i criteri di competenza nonchè i criteri di composizione dell'organo giudicante previsti dalla legislazione vigente".


In attuazione della predetta delega è stato emanato il D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che con l'art. 14 (applicabile ai giudizi promossi dopo la sua entrata in vigore) ha ridisciplinato le cause in materia di liquidazione degli onorari di avvocato, disponendo che "le controversie previste dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28.. sono regolate dal rito sommario di cognizione.. E' competente l'ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera. Il tribunale decide in composizione collegiale".


Nella relazione di accompagnamento è stato chiarito che le controversie in questione sono state ricondotte al rito sommario di cognizione per ragioni di semplificazione e che "in ossequio alla delega si è mantenuta ferma la competenza funzionale dell'ufficio giudiziario di merito.. nonchè la composizione collegiale dell'organo giudicante".


Il messaggio in tal modo lanciato non lascia nessun margine d'incertezza: i "nuovi" processi dovranno essere trattati dal tribunale in composizione collegiale perchè questo avveniva per i "vecchi", questa era la regola vigente per il passato.


A fronte di una così chiara indicazione, insistere sulle posizioni di C. Cass. n. 1312 del 2003 significherebbe porsi in contrasto sia con l'oggettiva portata della previgente normativa che con la lettura di essa ripetutamente fatta dal Legislatore, creando rispetto alla disciplina dei 2011 una frattura destinata a provocare un inutile spezzettamento capace solo di complicare ulteriormente il già complesso panorama processuale.


Tenuto conto di ciò e non dimenticato che l'interpretazione deve tendere, per quanto possibile, all'armonizzazione del sistema mediante il superamento delle sue distonie o criticità, va di conseguenza affermato il principio di diritto secondo il quale le controversie, previste dalla L. n. 794 del 1942, art. 28 e ss., in tema di liquidazione dei compensi dovuti agli avvocati per l'opera prestata nei giudizi davanti al tribunale rientrano fra quelle da trattare in composizione collegiale in base alla riserva di cui all'art. 50 bis c.p.c., comma 2."

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 20-07-2012, n. 12609

23 luglio 2012

Corte di Giustizia - trattamento acque reflue - Italia condannata



Il mancato trattamento delle acque reflue urbane: è giunta la condanna per l'Italia

La Corte di Giustizia condanna l'Italia per il mancato trattamento delle acque reflue urbane: al più presto si corra ai ripari, per evitare le eventuali sanzioni economiche derivanti dall'ulteriore inadempimento.

Corte di Giustizia / Sentenza 19 luglio 2012 da NORMA

I trattamenti pensionistici vanno liquidati sulla base della disciplina normativa vigente al momento della loro liquidazione


"La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza del 12.1 - 9.8.2006, rigettò il gravame proposto dalla Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti (qui di seguito, per brevità, indicata anche come Cassa) avverso la sentenza di prime cure che, accogliendo la domanda proposta da C.E. e N.W., titolari di pensione liquidata con decorrenza anteriore al 1.1.1991, aveva dichiarato competere ai ricorrenti, a decorrere da tale data, la pensione riliquidata sulla base dei redditi rivalutati nella misura prevista dal D.M. 18 settembre 1990, con conseguente condanna della Cassa al pagamento delle differenze pensionistiche.


[...]


Le questioni sollevate sono state peraltro già oggetto di disamina da parte della giurisprudenza di questa Corte nei termini che seguono.


In un primo tempo, affrontando la tematica del presente giudizio (cfr, in particolare, Cass., n. 15231/2000), così come quella, implicante la soluzione di questioni sostanzialmente analoghe, relativa al parimenti intervenuto aumento del coefficiente di rivalutazione della media decennale del reddito professionale dall'1,75% al 2% (cfr, Cass., nn. 12675/1995; 9265/1997; 8267/2003; 15191/2003; 1228/2004), questa Corte ha affermato il principio secondo cui le disposte variazioni dovevano ritenersi applicabili anche per le pensioni già liquidate.


Tale orientamento ermeneutico è stato tuttavia oggetto di successivo ripensamento (cfr, in particolare, Cass., nn. 9255/2009; 24804/2010), con enunciazione del difforme principio secondo cui, in difetto di espressa disposizione di contrario segno, i trattamenti pensionistici devono essere liquidati sulla base della disciplina normativa vigente al momento della loro liquidazione, cosicchè la variazione della percentuale di rivalutazione dei redditi, disposta, in applicazione della L. 20 ottobre 1982, n. 773, art. 15, u.c., dal D.M. 18 settembre 1990, per il calcolo delle prestazioni pensionistiche a favore degli iscritti alla Cassa italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti, non è applicabile alle pensioni liquidate anteriormente alla prevista decorrenza della variazione stessa, rappresentando il fluire del tempo idoneo elemento diversificatore della disciplina delle situazioni giuridiche e non potendo ritenersi l'illogicità di tale elemento diversificatore in considerazione del suo collegamento all'esigenza di rispetto degli equilibri della gestione finanziaria della Cassa.


A sostegno di tale più recente orientamento è stato in particolare evidenziato che:


- il meccanismo rivalutativo previsto dalla normativa di riferimento deve essere applicato al momento del calcolo da effettuarsi per la liquidazione della pensione (in particolare contemplando tale meccanismo gli aumenti Istat intercorsi tra l'anno di produzione dei redditi e quelli dell'ultimo anno anteriore alla maturazione della pensione); al contempo la legge non contiene alcuna previsione in ordine alla possibile futura revisione, successivamente alla maturazione del diritto alla pensione, di tale meccanismo rivalutativo;


- ciò risulta coerente con il generale principio secondo cui le prestazioni pensionistiche vengono liquidate facendo applicazione della disciplina normativa vigente al momento della liquidazione stessa, salva l'esistenza di espresse disposizioni in senso contrario;


- attraverso la previsione della variazione della rivalutazione dei redditi mediante il ricorso alla ricordata decretazione ministeriale, a quest'ultima è stata attribuita la potestà di modificare, sul punto, il precedente assetto normativo, senza tuttavia che sia stata contemplata la possibile retroattività della variazione stessa;


- coerentemente al dettato legislativo, il dm 18.9.1990 si è limitato a prevedere l'aumento della percentuale di che trattasi "a decorrere dall'1.1.1991";


- l'esplicita previsione legislativa (L. n. 773 del 1982, art. 15, u.c.) secondo cui la variazione di che trattasi può essere disposta "tenuto conto dell'andamento finanziario della Cassa", pone l'accento sul rispetto dell'equilibrio di gestione finanziaria dell'Ente sotto il profilo del necessario rapporto tra contributi versati e pensioni erogabili e, quindi, sull'esigenza di considerare l'incidenza della disposta rivalutazione in relazione ai trattamenti pensionistici di futura liquidazione e non già anche rispetto a quelli ormai liquidati sulla base della pregressa disciplina;


- dal che discende come non possa essere condiviso l'argomento secondo cui sarebbe da considerarsi illogica la previsione legislativa di una (possibile) differenziazione del trattamento pensionistico a seconda dell'epoca del collocamento in pensione;


- non sussistono dubbi di incostituzionalità (sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza) in relazione all'opzione ermeneutica che, ritenendo l'applicabilità della variazione dei criteri di computo della pensione solo per i trattamenti non ancora liquidati, condurrebbe ad una disparità di trattamento fra pensionati a seconda del momento della liquidazione, essendo insegnamento consolidato della Corte Costituzionale che il fluire del tempo costituisce (anche in materia previdenziale) idoneo elemento diversificatore della disciplina delle situazioni giuridiche (cfr, ex plurimis, Corte Costituzionale, nn. 311/1995; 409/1998; 108/2002; 121/2003; 216/2005).


Ritenendo il Collegio di dover seguire il suddetto più recente orientamento interpretativo, dal quale si è discostata la sentenza impugnata, i motivi all'esame appaiono fondati, con conseguente assorbimento degli altri."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 19-07-2012, n. 12511

Parcheggi condominiali: se sono pochi, si fa a turno, anche se alcuni l'auto non ce l'hanno.

"Con sentenza n. 23966/2001 il Tribunale di Roma rigettava l'impugnazione proposta da M.G. avverso la delibera dell'assemblea del Condominio di (OMISSIS) del 3-2- 1999 che, disciplinando l'uso del garage comune a tutti i 12 condomini ma dotato di 11 posti macchina, aveva stabilito che i condomini potevano parcheggiare non più di un'auto per ogni unità abitativa, rinviando ad altra assemblea per la regolamentazione della turnazione e disponendo che, una volta regolamentato l'utilizzo dei posti auto, nessun condomino avrebbe potuto occupare lo spazio a lui non assegnato, anche nel caso in cui il condomino avente diritto non occupasse in quel momento l'area parcheggio a lui riservata.


Tale decisione veniva appellata dal M., il quale, nel premettere che alcuni condomini non erano proprietari di autovetture, denunciava la violazione dell'art. 1102 c.c., che consente ad ogni comunista - salve le previste limitazioni, non sussistenti nel caso di specie - l'uso intensivo della cosa comune, e dell'art. 1138 c.c., che vieta al regolamento condominiale e, a maggior ragione, all'assemblea, di menomare i diritti dei condomini quali risultano dagli atto di acquisto.


Con sentenza depositata il 10-5-2006 la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame.


[...]


Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, in tema di condominio, è legittimo, ai sensi dell'art. 1102 c.c., sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purchè nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa, purchè non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (Cass. 19-1-2006 n. 972; Cass. 9-11-1998 n. 11268).


Nella specie, come è stato esattamente rilevato nella sentenza impugnata, non può ritenersi legittima la pretesa del M. di occupare più di un posto macchina, pur essendo titolare di una sola quota del bene comune; e ciò in quanto, anche in ragione della non coincidenza del numero dei condomini con quello dei posti macchina, l'uso più intenso del ricorrente verrebbe a menomare il pari diritto degli altri condomini all'utilizzazione della cosa comune.


Di conseguenza, la delibera assembleare che, in considerazione dell'insufficienza dei posti auto in rapporto al numero dei condomini, ha previsto l'uso turnario e stabilito l'impossibilità, per i singoli condomini, di occupare gli spazi ad essi non assegnati anche se i condomini aventi diritto non occupino in quel momento l'area parcheggio loro riservata, non si pone in contrasto con l'art. 1102 c.c., ma costituisce corretta espressione del potere di regolamentazione dell'uso della cosa comune da parte dell'assemblea.


Infatti, se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento (Cass. 3-12-2010 n. 24647; Cass. 4-12-1991 n. 13036).


Pertanto, l'assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione (Cass. 11-1-2012 n. 144; Cass. 22-3-2007 n. 6915), ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune, nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, non sia possibile l'uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti auto condominiali.


L'essenza stessa del turno, d'altro canto, richiede che, nel corso del suo svolgimento, il comunista che ne beneficia, abbia l'esclusività del potere di disposizione della cosa, senza che vi sia sostanziale interferenza degli altri compartecipi con mezzi e strumenti che ne facciano venire meno l'avvicendamento nel godimento o inducano alla incertezza del suo avverarsi (Cass. 10-1-1981 n. 243). Pertanto, la volontà collettiva, regolarmente espressa in assemblea, volta ad escludere l'utilizzazione, da parte degli altri condomini, degli spazi adibiti a parcheggio eventualmente lasciati liberi dai soggetti che beneficiano del turno, non si pone in contrasto con il diritto dei singoli condomini all'uso del bene comune e non comporta una violazione dell'art. 1138 c.c.. Nella specie, infatti, non si tratta di impedire il godimento individuale di un bene comune, ma di evitare che, attraverso un uso più intenso da parte di singoli condomini, venga meno, per gli altri, la possibilità di godere pienamente e liberamente della cosa comune durante i loro turni, senza subire alcuna interferenza esterna."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 19-07-2012, n. 12485

20 luglio 2012

Calamità naturali e copertura assicurativa - legislazione



Casa assicurata contro le calamità naturali? No, grazie

La legge di conversione sopprime la disposizione contenuta nel D.L. sulla protezione civile con la quale si intendeva avviare un sistema per la copertura dei rischi derivanti da calamità naturali sui fabbricati.

Legislazione Nazionale / Legge Nazionale 12 luglio 2012 da NORMA

Reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11 - reato di pericolo


"Con fa sentenza Impugnata la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Torino in data 19/01/2010, con la quale B.M. era stato dichiarato colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, a lui ascritto per avere, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte erariali iscritte a ruolo, scadute e non pagate, per l'importo di Euro 104.872,67, alienato simulatamene ad O.A. la proprietà di un immobile sito in (OMISSIS) con rogito del 04/03/2005, e condannato alla pena di mesi otto di reclusione.


[...]


Per completezza di esame si osserva che correttamente la sentenza impugnata ha affermato che, ai fini del perfezionamento del reato, non è richiesta la sussistenza di una procedura di riscossione in atto, trattandosi di reato di pericolo (cfr. di recente sez. 3, Sentenza n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251076).


Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., u.c., con le conseguenze di legge."

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-06-2012) 17-07-2012, n. 28567

Art. 700 cpc e sospensione di pagamento con lettera di credito

"Premesso che Ca. S.p.A. ha chiesto l'emissione inaudita altera parte di un provvedimento ex art. 700 c.p.c. che inibisca al Mo. S.p.A. il pagamento di una lettera di credito con scadenza il 31 ottobre 2011 alla società cinese Zh.Zh. Il ricorrente ha esposto di aver acquistato da quest'ultima una partita di stoffe, che si è rivelata difforme dal campione quanto pattuito, per la differenza di colore, tale da renderla inidonea all'uso pattuito.


Il requisito del fumus boni iuris è presente, alla luce della cognizione sommaria richiesta in fase cautelare. La ricorrente ha infatti prodotto una serie di e-mail con le quali sono stati contestati i vizi del tessuto acquistato, nonché perizia giurata che attesta la difformità dei colori del tessuto su quello del campione. È pertanto fondata, prima facie, l'exceptio inadimpleti contractus sollevata dalla parte acquirente nei confronti della parte venditrice.


Il pagamento della merce è stato disposto mediante lettera di credito irrevocabile presso il Mo. S.p.A. in favore della Zh. In tal modo è stata predisposta una forma di garanzia a prima richiesta, che impone alla banca il pagamento dell'importo risultante dalla lettera di credito, senza poter opporre eccezioni. Tale meccanismo, seppure improntato a favorire gli scambi ed il commercio internazionale, non può essere esente dal limite costituito dal principio di buona fede, che assume valenza di ordine pubblico e che non può, di conseguenza, non trovare applicazione nel caso di specie. Deve quindi ritenersi ammissibile la richiesta volta a chiedere la sospensione del pagamento della lettera di credito alla banca, in presenza del fumus dell'inadempimento del suo beneficiario, che escuta la garanzia nella consapevolezza dell'inadempimento della propria controprestazione. In tal senso, oltre al principio di buona fede, viene in rilievo anche il principio di causalità, che presiede agli spostamenti patrimoniali. Nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive infatti l'inadempimento costituisce un vizio sopravvenuto del nesso di interdipendenza funzionale tra le reciproche prestazioni. Ciò significa che la possibilità di svincolare l'adempimento di una prestazione (come il pagamento della merce) dalla possibilità di sollevare eccezioni collegate all'inesatto inadempimento della controprestazione è ammissibile solo se non viene superato il limite invalicabile della buona fede. Ammettere sempre e comunque l'escussione della garanzia a prima richiesta del pagamento della merce difettosa, anche a fronte della consapevolezza della controparte del proprio inadempimento, significherebbe elidere il nesso di interdipendenza funzionale tra la prestazione del venditore e quella del compratore, trasformando, di fatto, un contratto di scambio, quale è la compravendita, in un contratto aleatorio.


Nel caso in esame risulta, alla luce della cognizione necessaria e sufficiente a fini cautelari, che la società cinese abbia avuto piena conoscenza dei vizi contestati, facendo sia delle ammissioni rispetto ai colori, sia delle promesse in merito alla concessione di sconti riguardanti non la partita di merce che la ricorrente assume viziata, ma un eventuale ordinativo futuro. Tali e-mail, alla luce di quanto stabilito dell'art. 21 D.Lgs. n. 82/2005 ("il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità") sono liberamente valutabili dal giudice e possono essere ritenute attendibili in tale fase anche alla luce di quanto risultante dalla perizia giurata prodotta.


Nella specie ricorre altresì il requisito del periculum in mora, considerata l'enorme difficoltà di ripetere in un paese straniero, fuori dal territorio dell'Unione Europea (con la conseguente inapplicabilità delle normative comuni), il pagamento effettuato, nonostante i vizi riscontrati sulla merce e di mettere quindi in esecuzione un eventuale statuizione giudiziale di condanna.


In considerazione dell'urgenza evidenziata dall'imminente scadenza del termine di pagamento, il provvedimento viene emesso inaudita altera parte, con la conseguente fissazione di termini per la notificazione e la comparizione delle parti.


Visto l'art. 700 c.p.c.;


visto l'art. 669 sexies c.p.c.


P.Q.M.


Ordina al Mo.Pa. S.p.A., filiale di Prato, Viale (...) e di sospendere il pagamento delle lettera di credito n. (...) con scadenza il 31/10/2011;


fissa per la comparizione delle parti l'udienza del 12 dicembre 2011 ore 12.00, con termine per la notifica secondo la Convenzione dell'Aja del 1965 fino al 19 novembre 2011."

Trib. Prato, Ord., 22-06-2012

19 luglio 2012

Edilizia e urbanistica - in genere - questioni di legittimità costituzionale


Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, lett. a) e b), del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (“Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, promosse dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 97, 114, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione. La norma gravata ha modificato i commi 4 e 6 bis dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990, già modificato dall'art. 49, comma 4 bis, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 122 del 2010, con cui, in luogo dell'istituto della denuncia di inizio attività (DIA), si è introdotto quello della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). Stante tali interventi normativi, la norma censurata potrebbe essere interpretata nel senso che, esaurito il termine di trenta giorni concesso dall'art. 19, comma 3, per vietare la prosecuzione dell'attività conseguente ad una SCIA, e non ricorrendo alcuno dei casi tassativi presi in esame dal successivo comma 4, l'Amministrazione non possa in alcun modo intervenire in presenza di un abuso edilizio, neppure per mezzo del potere di autotutela di cui agli artt. 21 quinquies e 21 nonies della legge n. 241 del 1990, che le è attribuito dal comma 3 dell'art. 19. Invero, siffatto dubbio interpretativo non ha alcun nesso logico e giuridico con l'art. 6, comma 1, lett. a), del citato decreto legge, con cui il legislatore ha semplicemente coordinato il comma 4 del citato art. 19, come introdotto dall'art. 49, comma 4 bis, del decreto legge n. 78 del 2010, con la previsione normativa sopraggiunta, secondo cui, per la sola materia edilizia, il termine concesso all'Amministrazione per vietare l'attività è di 30 giorni, anziché di 60. Altresì, l'art. 6, comma 1, lett. b), del decreto legge n. 138 del 2011 può e deve essere letto nel senso che esso non esclude il ricorso, da parte dell'Amministrazione, al potere di autotutela previsto dal art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in aggiunta all'ulteriore potestà di intervento configurata dal successivo comma 4. Il suo significato, infatti, non può essere compreso se la norma non viene inserita nel più ampio contesto costituito dalla configurazione normativa dei poteri amministrativi di repressione dell'abuso edilizio con cui il legislatore ha inteso accompagnare e completare la riforma dei titoli abilitativi all'edificazione, culminata con l'introduzione della segnalazione certificata di inizio attività. Di talché, deve escludersi che la norma censurata abbia l'effetto di privare, nella materia edilizia, l'Amministrazione del potere di autotutela, che, viceversa, persiste congiuntamente all'intervento ammesso in caso di pericolo di danno per gli interessi indicati nel comma 4 dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990.

Corte cost., 16-07-2012, n. 188

Studi di settore


"...alla luce dei principi affermati da questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009) secondo cui la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è "ex lege" determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli "standards" in sè considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest'ultimo ha l'onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli "standards" o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello "standard" prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L'esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l'applicabilità degli "standards" al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l'Ufficio può motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli "standards", dando conto dell'impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all'invito."

Cass. civ. VI - 5, Ord., 17-07-2012, n. 12346

Mancanza di agibilità: il conduttore non può invocare il 1460 cc se, di fatto, usufruisce dell'immobile


"Con il terzo motivo l'impugnante denunciando violazione degli artt. 1418, secondo comma, e 1346 cod. civ., critica la ritenuta, mancata operatività nella fattispecie del principio inadimplenti non est adimplendum, in presenza di immobili mancanti delle condizioni minime di agibilità e di abitabilità prescritte da norme inderogabili, con conseguente nullità dei contratti di locazione per impossibilità/illiceità dell'oggetto, nullità rilevabile in ogni stato e grado del procedimento.


Le censure sono, per certi aspetti inammissibili, per altri infondate.


Mette conto evidenziare che il giudice di merito si è occupato della pretesa inagibilità dell'immobile locato nello scrutinio sull'operatività, nella fattispecie, del disposto dell'art. 1460 c.c., in base al quale, nei contratti a prestazioni corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria. E sul punto il decidente ha ampiamente argomentato la sua negativa valutazione, evidenziando come le carenze manutentive lamentate non avessero impedito alla conduttrice di continuare a usufruire degli immobili secondo la destinazione convenuta e come le stesse fossero, in realtà, solo in parte sopravvenute rispetto allo stato in cui vennero accettati i locali.


In tale contesto la questione della nullità del contratto per impossibilità ovvero per illiceità dell'oggetto, è eccentrica rispetto al thema decidendum del giudizio di appello, e al postutto nuova.


In ogni caso, anche a volere intendere i rilievi critici come volti a censurare la ritenuta insussistenza dei presupposti per la sospensione del pagamento dei canoni, non par dubbio che il giudizio di comparazione dei comportamenti di ambedue le parti che, nei contratti a prestazioni corrispettive, in caso di inadempienze reciproche, si impone ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento, è accertamento riservato al giudice di merito, come tale incensurabile in sede di legittimità se, come nella fattispecie, congruamente motivato (confr. Cass. civ., 9 giugno 2010, n. 13840; Cass. civ. 8 giugno 2006, n. 13365)."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 17-07-2012, n. 12230

18 luglio 2012

Giustizia Amministrativa - accesso agli atti



Accesso agli atti amministrativi: atti "riservati" e... atti "riservatissimi"!

Il diritto alla difesa dei propri interessi giuridici di cui è titolare chi richiede l'accesso ad atti dell'Amministrazione non può in linea di principio ritenersi recessivo rispetto alla natura "riservata" di questi ultimi.

Consiglio di Stato / Sentenza 12 luglio 2012 da NORMA

Il "guarda che ti faccio causa" (pur con dubbie finalità) non integra gli estremi del reato di estorsione


"Con due ragioni di doglianza, la prima demandante la violazione dell'art. 629 c.p., la seconda l'omessa considerazione di circostanze decisive per riscontrare la strumentalità dell'esercizio della azione civile, la parte civile contesta la giustezza del discorso giustificativo giudiziale. In particolare si osserva dalla difesa che in tema di estorsione, una minaccia dall'esteriore apparenza di legalità, come quella di convenire in giudizio il soggetto passivo, formulata, però, non già con l'intenzione di esercitare un diritto, ma con lo scopo di coartare l'altrui volontà e di attingere risultati non conformi a giustizia - può costituire una illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di cui all'art. 629 c.p.. Ed a sostegno si allega la sentenza civile del 29.12.2010 emessa dal giudice istruttore del tribunale di Bassano del Grappa, di rigetto della domanda del D.R. volta a far riconoscere il suo diritto di superficie, con espressioni giudiziali quali" dagli atti di causa emerge in modo inequivocabile che nessun diritto di superficie è stato trasferito...., dall'"univoco tenore letterale del contratto di locazione e dalla successiva convenzione si desume pianamente ....." Ancora la parte ricorrente segnala l'impegno del suo "estortore" a indurla alla vendita del terreno a prezzi stracciati, fidando sulla lunghezza del procedimento civile, con la possibilità della attore di allungarne a dismisura i tempi, nella considerazione della età- di 90 anni - della convenuta in sede civile.


Ma avverso le argomentazioni difensive si pongono numerosi precedenti giurisprudenziali di questa stessa Sezione dai quali il collegio non intende discostarsi: in tema di violenza o minaccia l'effettivo esercizio di un'azione civile, mediante la notificazione di un atto di citazione o il deposito di un ricorso, non integra gli estremi della violenza o minaccia penalmente rilevante, quand'anche risulti motivato da ragioni strumentali rispetto al diritto vantato, dovendosi distinguere la concreta attivazione del sistema giudiziario attraverso la formulazione di una domanda proposta dinanzi all'autorità giudiziaria, dalla prospettazione di un'azione, civile o penale, con lo scopo di coartare l'altrui volontà ed ottenere un beneficio od un vantaggio non conformi a giustizia (Sez.6, 12.1/11.2.2011, Moschella,Rv. 249475)."

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 27-06-2012) 04-07-2012, n. 25830

Non è detto che la gelosia possa essere un futile motivo atto ad aggravare i maltrattamenti in famiglia


"Il profilo di doglianza oggetto del primo motivo di ricorso deve essere accolto, rilevandosi al riguardo come questa Suprema Corte abbia da tempo chiarito, sulla base di una pacifica linea interpretativa, i presupposti per la configurabilità della circostanza aggravante dei futili motivi di cui all'art. 61 c.p., n. 1, che ricorre quando la determinazione criminosa sta stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (ex multis, v. Sez. 1, n. 39261 del 13/10/2010, dep. 05/11/2010, Rv. 248832). La spinta al reato, dunque, deve risultare priva di quel minimo di consistenza che la coscienza collettiva esige per operare un collegamento logicamente accettabile con l'azione commessa, in guisa da risultare assolutamente sproporzionata all'entità del fatto e rappresentare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto, un'occasione per l'agente di dare sfogo al suo impulso criminale (Sez. 1, n. 4453 del 11/02/2000, dep. 12/04/2000, Rv. 215806; Sez. 1, n. 35369 del 04/07/2007, dep. 21/09/2007, Rv. 237686).


Entro tale prospettiva ermeneutica, tuttavia, è pur sempre necessario che il giudizio sulla futilità del motivo non sia riferito ad un comportamento medio, stante la difficoltà di definire i contorni di un simile astratto modello di agire, ma sia più opportunamente ricondotto agli elementi concreti del caso, tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, del contesto sociale e del particolare momento in cui il fatto si è verificato, nonchè dei fattori ambientali che possono avere condizionato la condotta criminosa (Sez. 1, n. 42846 del 18/11/2010, dep. 02/12/2010, Rv. 249010).


A tale rigoroso quadro di principi non si è attenuta l'impugnata pronuncia, che, da un lato, ha correttamente escluso che il motivo della gelosia possa integrare la contestata aggravante (v., Sez. 5, n. 35368 del 22/09/2006, dep. 23/10/2006, Rv. 235008), dall'altro lato ha tuttavia affermato, ricorrendo ad una locuzione del tutto generica, che i futili motivi "sfumano in una confusa reattività", imputandola, contraddittoriamente, alla stessa gelosia, ovvero alla volontà di non assumersi le responsabilità paterne, così omettendo di identificare in concreto la natura e la portata della ragione giustificatrice della condotta delittuosa posta in essere, quale univoco indice di un istinto criminale più spiccato e di un più elevato grado di pericolosità dell'agente. Così come configurata, dunque, la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 1, deve essere esclusa."

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 02-07-2012) 13-07-2012, n. 28111

17 luglio 2012

Giustizia Amministrativa - RAI e oscuramento della programmazione



RAI in the Sky... with diamonds!

In pubblicazione oggi la sentenza con la quale il Tribunale amministrativo di Roma ha dichiarato l'illegittimità dell'oscuramento, da parte della RAI, della programmazione di servizio pubblico sulla piattaforma satellitare Sky.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 11 luglio 2012 da NORMA

Decreto di espulsione: valido solo se tradotto in lingua conosciuta dal destinatario


"Il Giudice di pace di Potenza ha respinto il ricorso del sig. Z.B.H., alias A.Z., avverso il decreto prefettizio 27 luglio 2010 con cui era stata disposta la sua espulsione.


Il ricorrente aveva dedotto: l'omessa traduzione del decreto nella sua lingua (l'arabo); che Z.B.H. altri non era che A.Z.; che non poteva essere espulso essendo padre di un figlio minorenne avuto da una cittadina italiana e residente in Italia.


Il Giudice di pace ha osservato che il provvedimento di espulsione deve essere portato a conoscenza dell'interessato con modalità che ne garantiscano in concreto la conoscibilità, e nella specie non era stato leso il diritto di difesa dell'espulso, il quale aveva dichiarato a verbale, nel ricevere la notifica del provvedimento dalla Polizia penitenziaria, di essere perfettamente a conoscenza del contenuto del provvedimento stesso; che non era stata provato che Z.B.H. e A.Z. erano la stessa persona; che era stato dimostrato che il minore indicato dal ricorrente era figlio di Z.B.H. e non di A.Z., destinatario del decreto di espulsione.


L'interessato ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in otto motivi, cui l'autorità intimata ha resistito con controricorso.


Il primo motivo di ricorso, con cui, denunciando violazione di norme di diritto, si censura il mancato annullamento del decreto di espulsione per omessa traduzione nella lingua del destinatario o in lingua da lui conosciuta, è fondato.


Ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, e D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 3, comma 3, come interpretati dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, la traduzione in lingua conosciuta dal destinatario è requisito formale indispensabile, a pena di nullità, della comunicazione del decreto di espulsione, cui può derogarsi soltanto nel caso di impossibilità di tale traduzione per indisponibilità - espressamente dichiarata nell'atto - di personale idoneo alla traduzione, e sempre che si provveda, in tal caso, alla traduzione in una delle cd. lingue veicolari, ossia quella inglese, quella francese o quella spagnola (ex multis, Cass. 17572/2010, 17558/2010, 6978/2007).


Nella specie, invece, non è stata effettuata la traduzione in lingua conosciuta dall'espulso, nè è stata attestata dall'amministrazione l'impossibilità di provvedervi.


Il Giudice di pace ha ritenuto di poter giustificare tali omissioni con la dichiarazione, resa a verbale dall'interessato nel ricevere la notifica dell'espulsione, di essere a conoscenza del contenuto del provvedimento. Dichiarazione che, però, non equivale ad ammissione della conoscenza della lingua italiana (o di una delle lingue veicolari in cui il provvedimento sia stato tradotto) e non può dunque valere a surrogare la traduzione mancante.


Restano assorbiti gli altri motivi";"

Cass. civ. VI - 1, Ord., 13-07-2012, n. 12065

Il vincolo di stretta dipendenza tra sanzione principale ed accessoria - L. 689/1981


"La fattispecie oggetto di cognizione è quella della contestazione della violazione di cui alla L. n. 386 del 1990, art. 2, - per emissione di assegno senza provvista - cui è seguita, da parte del prefetto territorialmente competente, l'emissione di ordinanza - ingiunzione di pagamento di sanzione pecuniaria, con contestuale irrogazione della sanzione accessoria del divieto di emettere assegni bancari per un periodo di due anni, ai sensi della stessa L. n. 336, art. 5.


L'adito giudice di pace ha accertato che l'atto di contestazione all'interessato è stato notificato 92 giorni dopo la ricezione da parte del prefetto dell'informativa proveniente dalla Banca d'Italia, cosi da reputare applicabile la L. n. 386 del 1990, art. 8 bis, comma 3, il quale dispone, in riferimento a persona residente nello Stato, che "entro novanta giorni dalla ricezione del rapporto o dell'informativa il prefetto notifica all'interessato gli estremi della violazione a norma della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 14".


Da ciò lo stesso giudice ha correttamente ritenuto estinta l'obbligazione di pagamento irrogata come sanzione principale al F., posto che la L. n. 689 del 1981, art. 14, richiamato dal predetto art. 8 bis, prevede, all'ultimo comma, che l'"obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione si estingue per la persona nei cui confronti è stata omessa la notificazione nel termine prescritto".


L'impugnata sentenza è, però, errata allorchè ha reputato che non fosse venuta meno anche la sanzione accessoria comminata con la stessa ordinanza-ingiunzione, adducendosi che la L. n. 689 del 1981, art. 14, "non prevede anche l'estinzione della sanzione accessoria", nella specie rilevando quella di cui alla L. n. 386 del 1990, art. 5.


Invero, il citato art. 14, nel disciplinare la fase del procedimento sanzionatorio relativa alla contestazione e notificazione della violazione, ha riguardo alle sanzioni di carattere pecuniario, come si evince chiaramente già dalla sua formulazione, in quanto tale è la tipologia di sanzioni assunta a modello di riferimento dalla legge n. 689, che, nel suo capo I, le configura come sanzioni di carattere principale rispetto a quelle ad esse accessorie, pur contemplate nella stessa legge del 1981 e cosi definite dagli artt. 20 e 21.


In tal senso, la disposizione di cui all'ultimo comma del medesimo art. 14 non fa altro, però, che mettere in evidenza - questa volta in guisa di principio più generale come la mancata o intempestiva notificazione della violazione determini l'estinzione stessa della relativa obbligazione sanzionatoria, che si incentra, in primo luogo, su quella principale (nel sistema della L. n. 689, di norma, a carattere pecuniario).


Il silenzio della legge, nel caso dell'art. 14 (potendo il legislatore disporre diversamente in ipotesi specifiche), sulla sorte delle sanzioni accessorie - in quanto misure che effettivamente si aggiungono, in relazione di secondarietà e complementarità, ad una sanzione principale, condividendone il carattere punitivo (Cass., sez. un., 3 agosto 2000, n. 52 6; Cass., sez. un., 13 febbraio 1999, n. 59) - non sta a significare, dunque, che l'obbligazione sanzionatoria rimane in vita per quest'ultime, giacchè la mancanza di contestazione della violazione, in cui si traduce il vizio di notificazione tempestiva della violazione stessa, cosi come, a monte, estingue, per decadenza, la potestà sanzionatoria dell'amministrazione di irrogare la sanzione principale per tale violazione, precludendo l'accertamento dell'illecito amministrativo e la conseguente adozione della relativa ingiunzione di pagamento, del pari non può non travolgere anche la sanzione che soltanto si aggiunge alla principale.


Del resto, il vincolo di stretta dipendenza tra sanzione principale ed accessoria è confermato anche dalla specifica disciplina che la stessa L. n. 689 del 1981, art. 20, detta in tema di sanzioni amministrative accessorie, le quali non si rendono applicabili in via provvisoria e, dunque, finchè sia pendente il giudizio di impugnazione sulla sanzione principale, salvo che la legge espressamente disponga in modo diverso (come nel caso della confisca obbligatoria di cui al comma 4 dello stesso art. 20).


Nella specie, l'accessorietà delle sanzioni amministrative di cui alla L. n. 386 del 1990, art. 5, a quelle principali pecuniarie stabilite dalla medesima L. n. 386, art. 2, è espressamente predicata dallo stesso legislatore, il quale, inoltre, opera, come visto, un rinvio alla L. n. 689 del 1981, art. 14, ed alle altre disposizioni delle sezioni I e II del capo I di detta L. n. 689, "in quanto compatibili", senza derogare espressamente, quanto al profilo che viene in rilievo in questa sede, alla relativa disciplina.


Giova, pertanto, enunciare il seguente principio di diritto: "Salvo che la legge non disponga diversamente, la mancata o intempestiva notificazione della violazione punita con sanzione amministrativa determina, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 14, u.c., l'estinzione della sanzione prevista come principale e con essa, per il vincolo di dipendenza che le lega, la sanzione accessoria relativa; con la conseguenza, nel caso di specie, che - mancando una diversa previsione legislativa - le sanzioni accessorie contemplate dalla L. 15 dicembre 1990, n. 386, art. 5, si estinguono anch'esse per effetto della tardiva notificazione, ai sensi del combinato disposto della citata L. n. 386 del 1990, art. 8 bis, e L. n. 689 del 1981, art. 14, della violazione di cui alla medesima L. n. 286, art. 2, concernente l'emissione di assegni senza provvista"."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-07-2012, n. 11847

Verifica degli Ordini professionali sul divieto di svolgere pubblicità sui servizi offerti


"Con il primo motivo l'impugnante denuncia violazione degli artt. 42 e 49 del Trattato UE, della Direttiva n. 123 del 2006, nonchè vizi motivazionali.


Ricordato che le disposizioni comunitarie risultano ispirate alla massima liberalizzazione possibile delle prestazioni di servizi (ivi comprese quelle di tipo professionale); che la Corte di Giustizia ha ribadito anche in tempi recentissimi, nella sentenza del 5 aprile 2011 (causa C-119/09), l'obbligo, sancito per gli Stati membri della Comunità dall'art. 24 della direttiva n. 123 del 2006, di sopprimere tutti i divieti in materia di comunicazioni commerciali delle professioni regolamentate; che, in tale contesto, l'anacronistica disciplina dettata dalla L. n. 175 del 1992 deve ritenersi inapplicabile, sostiene l'esponente che sia l'Ordine dei Medici, sia la Commissione, avrebbero apoditticamente affermato che le informazioni contenute nel volantino contrastavano con i doveri di correttezza e trasparenza, senza specificare in che modo esse potessero ledere l'indipendenza, la dignità, l'integrità nonchè il segreto professionale, e cioè gli unici valori legittimanti limitazioni a siffatto tipo di comunicazioni. Assume che la Commissione si sarebbe limitata a ribadire la legittimità del proprio potere di controllo, senza chiarire le ragioni per le quali la condotta ascritta al Dott. R. fosse deontologicamente scorretta, così di fatto perseguendo in maniera surrettizia il fine di vietare la pubblicità professionale.


Con il secondo mezzo il ricorrente lamenta violazione del D.L. n. 223 del 200, art. 2 e della relativa L. di Conversione 4 agosto 2006, n. 248, nonchè, ancora una volta, erroneità o insufficienza della motivazione. Ricorda che la predetta fonte ha sancito, dalla data della sua entrata in vigore, l'abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedono, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni, le caratteristiche del servizio offerto, nonchè il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Nè, rileva, in tale contesto normativo, la motivazione della sanzione irrogata consentirebbe di identificare i connotati censurabili dell'opuscolo di Dentale Coop. 6. Entrambi i motivi appaiono fondati.


Le argomentazioni addotte dalla Commissione a sostegno della scelta decisoria adottata sono speciose e tautologiche.


L'assunto dell'ambiguità e, in definitiva, del carattere ingannevole del riferimento a una tariffa ormai abrogata è all'evidenza viziato da un'insopprimibile insofferenza verso il ricorso al messaggio pubblicitario da parte dell'esercente la professione sanitaria. Non si vede, infatti, come quel richiamo, che necessariamente presuppone, piuttosto che smentire, il carattere puramente orientativo della tariffa, possa configgere con la trasparenza e la veridicità della comunicazione. Nè ha troppo senso la valorizzazione, in chiave di addebito, della genericità della promessa riduzione, in quanto non riferita a singole prestazioni, potendo ciò incidere solo sulla capacità di persuasione del messaggio, che è profilo certamente estraneo alla sfera di intervento degli organi disciplinari.


In tale contesto, la riaffermazione dei poteri di verifica degli Ordini professionali, malgrado l'indiscutibile eliminazione del divieto di svolgere pubblicità sui servizi offerti, sui prezzi e sui costi complessivi delle prestazioni professionali (L. n. 248 del 2006, art. 2), è del tutto inidonea a giustificare la decisione.


Quei poteri - la cui sopravvivenza è fuori discussione - sono funzionali alla verifica della trasparenza e della veridicità del messaggio. Ma si è già visto che le ragioni addotte dalla Commissione a sostegno della negativa valutazione formulata al riguardo sono giuridicamente scorrette e logicamente inappaganti"."

Cass. civ. VI - 3, Ord., 12-07-2012, n. 11816

16 luglio 2012

Spese della mediazione ripetibili contro il soccombente



Le spese di "avvio del procedimento" sono a carico di ciascuna parte che aderisce alla mediazione nella misura di euro 40, oltre ad Iva (art. 16 D.M. 18 ottobre 2010, n. 180), spese che ciascuna parte ha sopportato anticipatamente. Le "spese di mediazione" invece sono dovute in solido da ciascuna parte, secondo "l'importo indicato nella tabella allegata al decreto" (art. 16, 3° comma, D.M. cit.). Stante la riconducibilità eziologica del procedimento di composizione della lite all'accertato inadempimento del convenuto, in forza del principio di causalità le spese sostenute per l'obbligatoria mediazione sono recuperabili dal vincitore, in quanto esborsi (art. 91 c.p.c.). Il convenuto va perciò condannato pure al rimborso della somma complessiva sostenuta per espletamento della mediazione.

Tribunale di Modena, sentenza 9 marzo 2012 Da: "paolonesta.it"