30 aprile 2012

Licenziamento - Per la Cassazione eroina, crak, mariuana o hascish non fa differenza: si mina il rapporto fiduciario


"Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se violi l'art. 115 c.p.c., comma 2, e l'art. 2697 c.c., la sentenza impugnata nella parte in cui qualifichi come fatto notorio:


l'insussistenza di alcuna dipendenza derivante dall'uso di sostanze stupefacenti quali l'hashish e la marijuana;


che l'utilizzo di sostanze stupefacenti (hashish e marijuana) non modifichi la personalità dell'individuo;


che l'hashish e la marijuana hanno un costo di molto inferiore a quello di altre droghe;


che l'uso di hashish e di marijuana determinerebbe un disvalore sociale minore rispetto all'uso di altre droghe, anche con riferimento al danno all'immagine per la Banca.


[...]


Va rilevato anzitutto che, in ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass., n. 5095 del 2011) che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, il giudice investito della legittimità di tale recesso deve comunque valutare alla stregua dei parametri di cui all'art. 2119 c.c., l'effettiva gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, con l'ulteriore precisazione secondo cui la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (Cass., n. 16260 del 2004, Cass., n. 5103 del 1998).


E' stato altresì precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicchè l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).


[...]


In tema di ambito dell'apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato condivisibilmente affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.


[...]


Il giudice di appello ha affermato che "la detenzione di sostanze stupefacenti non va condivisa, socialmente può destare scalpore, ma, da un lato, va diversamente valutata la condotta di colui che la detiene per uso personale e colui che invece la detiene a funi di spaccio, possesso che evidentemente comporta frequentazioni di gente diversa, l'inserimento in un ambiente ben più pericoloso, che certo può costituire una giusta causa del venir meno del rapporto fiduciario, anche tenuto conto della qualità di istituto di credito del datore di lavoro. Si tratta dunque di una condotta molto meno grave, il che non può non avere riflessi anche sulla valutazione disciplinare.


E che questa sia la esatta ricostruzione della vicenda, tenuto conto degli elementi emersi in sede penali nessun dubbio può esservi, la detenzione non era a fine di spaccio.


La natura della sostanza stupefacente detenuta pure ha un peso non irrilevante, sempre dal punto di vista della compromissione dell'elemento fiduciario. Difatti, diverso è detenere eroina o crak, dal detenere mariuana e hascish, notoriamente diversi essendo gli effetti dell'uso dell'una e dell'altra, che nel fumo non danno assuefazione, nè inducono modifiche della personalità, sostanze che hanno un costo modesto, che verosimilmente chiunque può permettersi di affrontare, senza perciò, anche in questa ipotesi costituire pericolo per l'istituto di credito datore di lavoro e tenuto conto del disvalore sociale diverso, anche della sua immagine. Vero che un discorso diverso può esser fatto per la cocaina, ma la quantità rinvenuta al possesso al C. non fa certo presumere che ne fosse un abituale consumatore, poichè se tale fosse stato non si sarebbe accontentato di merce di qualità così infima e di una così scarsa dose". 


Il giudice di secondo grado ha affermato, altresì, "dunque si può affermare che l'episodio che ha visto coinvolto il C. attiene alla sua sfera rigorosamente privata, atteso che è accaduto in piena estate, in zona di mare e la notte tra sabato e domenica, non è, nella sua materialità molto più grave di quello del dipendente che viene trovato nella notte tra sabato e domenica, ubriaco, e abbia acquistato una massiccia dose di alcolici, non consente di affermare la qualità di tossicodipendente dell'appellante, che è comunque difficilmente ipotizzabile per sostanze come quelle detenute, nè quella di spacciatore, e se è pure astrattamente idoneo a fondare una sanzione disciplinare, non potendo essere condiviso, non certo quella espulsiva, ovvero la più grave", anche in ordine alla ritenuta pubblicità negativa, che sarebbe stata risolvibile col trasferimento ad altra sede.


La sentenza della Corte d'Appello di Sassari si articola in una valutazione non adeguatamente motivata, nè coerente sul piano logico, e non rispettosa dei principi giuridici in precedenza indicati.


Le considerazioni del giudice di secondo grado, in ordine agli effetti complessivi delle sostanze stupefacenti in questione, anche in relazione agli effetti delle sostanze alcoliche, alle condizioni di tempo e luogo, ai riflessi sociali, poste come presupposto della valutazione sulla gravità della condotta del lavoratore, nel giudizio di proporzionalità, sono assertive, non fondate su prove, e non possono essere ricondotte ai canoni giuridici delle massime di esperienza, o dei fatti notori, come precisati dalla giurisprudenza di questa Corte, sicchè non risulta estrinsecato il complessivo percorso logico-motivazionale."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-04-2012, n. 6498

27 aprile 2012

Infortuni sul lavoro - efficacia probatoria CTP del PM - il potere-dovere istruttorio del G.U.L.


"Occorre premettere che in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Cass., n. 16123 del 2010, n. 10741 del 2009, Cass., S.U., n. 576 del 2008). A tali principi si è attenuta la Corte d'Appello nel valutare la sussistenza del concorso causale della condotta del lavoratore e del datore di lavoro nella determinazione dell'evento dannoso, come messo in evidenza dall'articolata e logica motivazione.


E' giurisprudenza costante di questa Corte che il disposto dell'art. 2087 c.c. - avente una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore - abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi, così come è stato posto in rilievo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 399 del 1996 (cfr. Cass., n. 4840 del 2006). Con detta pronuncia, il Giudice delle Leggi ha affermato che non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, in quanto numerose altre disposizioni, assumono in proposito una valenza decisiva.


Nel richiamare, in proposito, il contenuto precettivo dell'art. 2087 c.c. - disposizione fondata sul generico dovere di prudenza, diligenza, osservanza delle norme tecniche e di esperienze, parallela all'art. 43 c.p. - che stabilisce che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, la Corte costituzionale ricordava l'interpretazione datane dalla Cassazione (Cass., n. 5048 del 1988), che aveva ritenuto che tale disposizione "come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica" e pertanto "vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di adeguamento di essa al caso concreto".


Le norme specifiche antinfortunistiche rappresentano, dunque, lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, sicchè a tal fine, vanno - proprio per la natura di "norma di chiusura" dell'art. 2087 c.c. - adottate tutte quelle misure che la specificità del rischio cui egli sia esposto impongono. La sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art. 41 Cost., comma 2, che espressamente impone limiti all'iniziativa privata per la sicurezza) che impone - a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione - di anteporre al proprio (legittimo) profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda (Cass., n. 17314 del 2004).


[...]


Con il sesto motivo d'impugnazione, assistito dal prescritto quesito di diritto, è dedotto il vizio di violazione di legge in riferimento al combinato disposto degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nonchè agli artt. 101 e 116 c.p.c., in relazione all'efficacia probatoria attribuita, nella decisione impugnata, alla consulenza di parte disposta dal PM nel corso delle indagini preliminari, e senza contraddittorio delle parti, in un procedimento penale definito con sentenza di patteggiamento.


Il ricorrente, dato il rilievo attribuito alla CTP disposta dal PM, dalla Corte d'Appello, con il suddetto motivo introduce il tema della valenza probatoria delle prove assunte in un diverso giudizio, pendente tra le stesse parti o tra parti diverse, prospettando la lesione del principio del contraddittorio.


Il motivo non è fondato. Ed infatti, occorre rilevare che la Corte d'Appello poneva alla base della ritenuta violazione delle disposizioni antinfortunistiche, oltre alla cognizione del CT, anche la diretta valutazione dei luoghi di causa attraverso l'esame delle fotografie scattare, nell'immediatezza dei fatti, dai Carabinieri.


Nè è ravvisabile la dedotta violazione del principio del contraddittorio, poichè il giudice di merito può legittimamente tenere conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, anche di natura penale ed anche se celebrato tra altre parti, atteso che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile, le parti di quest'ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione giudiziale su di essa (Cass., n. 28855 del 2008), come avvenuto nella fattispecie in esame.


[...]


Con il settimo motivo di ricorso è prospettato il vizio di violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con riferimento al mancato esercizio da parte del giudice di appello, dei poteri istruttori di cui all'art. 437 c.p.c., in relazione all'art. 134 c.p.c., e art. 111 Cost..


La Corte d'Appello, in particolare, avrebbe omesso di pronunciare sulle istanze tendenti a sollecitare l'esercizio dei poteri ex artt. 437 e 134 c.p.c., e art. 111 Cost., (art. 360 Cost., comma 1, n. 3).


La censura, si precisa nella mancata ammissione di prove e CTU e nella deduzione della mancata audizione da parte del giudice di primo grado, in quanto ritenuta superflua, del teste G.C., unico testimone oculare dell'evento mortale.


Il motivo non è fondato.


Occorre rilevare che il motivo d'impugnazione, da un lato non soddisfa il requisito di autosufficienza del ricorso, in quanto genericamente il ricorrente fa riferimento a "prove richieste", a "CTU dedotta nel ricorso in appello", senza le necessarie specificazioni con riguardo alla fase processuale e al relativo contenuto degli atti processuali in cui sarebbero stati dedotti (nè riporta i capitoli di prova su cui avrebbe dovuto deporre il teste G., e non precisa se interponeva appello in proposito).


Nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 c.p.c., l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere - dovere, sicchè il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo l'obbligo - in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c., ed al disposto di cui all'art. 111 Cost., comma 1, sul "giusto processo regolato dalla legge" - di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d'ufficio una prova diretta a sminuirne l'efficacia e la portata (Cass., S.U., n. 11353 del 2004)."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-04-2012, n. 6337

Giustizia Amministrativa



Nel giudizio cautelare la sospensione feriale si calcola o non si calcola? Questo è il problema!

In fase cautelare la scadenza dei sei mesi prescritti dall'art. 92 c.p.a. per proporre appello deve essere calcolata considerando la sospensione feriale del decorso dei termini?

Consiglio di Stato / Sentenza 23 aprile 2012 da NORMA

Corte dei Conti



Troppe tasse soffocano l'economia italiana

Il Presidente della corte dei conti sollecita il legislatore a ridurre la pressione fiscale con i proventi ottenuti dalla lotta all'evasione. Necessari anche sgravi alle imprese e al lavoro.

Corte dei Conti / Sez. Riunite in sede di controllo / Deliberazione 23 aprile 2012 da NORMA

26 aprile 2012

Notifica ex art. 143 c.p.c. e la normale diligenza nelle ricerche


"Deduce il ricorrente che la notificazione dell'avviso di vendita sarebbe inesistente perchè compiuto ai sensi dell'art. 143 c.p.c., in difetto dei presupposti richiesti da tale norma, atteso che il destinatario della notificazione sarebbe stato residente nel comune di Genova, dove la notifica risultava tentata all'indirizzo di (OMISSIS), con indicazione, sulla relata dell'ufficiale giudiziario, di "irreperibilità assoluta... non più ivi" in data 20 settembre 2005, senza alcuna indicazione delle notizie raccolte ex art. 148 c.p.c.; assume il ricorrente che, in tale data, egli sarebbe stato residente alla via (OMISSIS), vale a dire proprio nell'appartamento acquistato dall'A.R.T.E. e messo in vendita da Equitalia Sestri, poi aggiudicato ad R.A.. A sostegno di tale assunto fa menzione di prove documentali prodotte in sede di merito e lamenta la mancata ammissione della prova testimoniale; aggiunge che il giudice a quo nulla avrebbe detto in sentenza in merito all'inesistenza della notificazione dell'avviso di vendita, in particolare, e comunque sarebbe incorso in errore, laddove non avrebbe considerato che lo stato di irreperibilità, per gli effetti dell'art. 143 c.p.c., non potrebbe essere desunto dalle sole risultanze anagrafiche, ma dovrebbe risultare dalle ricerche effettuate dall'agente notificatore.


Il motivo è fondato.


La motivazione della sentenza relativamente al vizio di nullità delle notificazioni è riferita genericamente agli "atti impugnati", senza quindi distinzione alcuna tra le notificazioni relative agli atti di intimazione ed agli avvisi di mora e la notificazione relativa all'avviso di vendita.


Inoltre, dopo aver dato atto dell'effettuazione della notifica ex art. 143 c.p.c., ed aver richiamato il principio espresso da questa Corte nel precedente n. 540/00, il Tribunale non ne ha fatto corretta applicazione, poichè si è limitato ad affermare che l'irreperibilità dell'attore risulterebbe "dalle visure anagrafiche"; la sentenza non contiene motivazione alcuna in merito alla verifica, nel caso concreto, da parte dello stesso Tribunale, della normale diligenza nelle ricerche che il notificante avrebbe dovuto compiere sulla reperibilità del destinatario della notificazione. A tale omissione corrisponde quella della relazione di notificazione, il cui contenuto è riportato in ricorso ed è tale che risulta che le ricerche vennero fatte soltanto presso l'ultima residenza anagrafica nota, senza la raccolta di notizie ulteriori sulla reperibilità del destinatario.


Orbene, le condizioni legittimanti la notificazione a norma dell'art. 143 c.p.c., non sono rappresentate dal solo dato soggettivo dell'ignoranza da parte del richiedente o dell'ufficiale giudiziario circa la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario dell'atto, nè dal possesso del solo certificato anagrafico dal quale risulti che il destinatario è trasferito per ignota destinazione. E' richiesto anche che la condizione di ignoranza non possa essere superata attraverso le indagini possibili nel caso concreto, che il mittente deve compiere usando l'ordinaria diligenza (così Cass. n. 6462/07; cfr. anche n. 14618/09, n. 2909/08, n. 8077/07, n. 8955/06);


l'apprezzamento di tale sforzo diligente è rimesso al giudice di merito, che, a tale fine, deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto (cfr. Cass. n. 7964/08) e darne atto in motivazione. Sul punto, la motivazione della sentenza impugnata è insufficiente, comunque inadeguata a dar conto della corretta applicazione dei principi di cui sopra.


Essa pertanto va cassata, con rinvio al Tribunale di Genova, in diversa composizione, affinché verifichi se, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, l'irreperibilità del B. fosse effettiva e tale che l'Agente della riscossione notificante non avrebbe potuto conoscere, con riguardo alla notificazione dell'avviso di vendita, la nuova residenza dell'esecutato, pur effettuando le ricerche secondo la normale diligenza."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-04-2012, n. 6280

Competenza e Giurisdizione - Notaio - foro consumatore e domanda riconvenzionale - limiti


"I notai sono, altresì, compresi fa i "pubblici ufficiali, che hanno redatto, ricevuto o autenticato l'atto", cui allude l'art. 57 del D.P.R. nell'individuare i soggetti obbligati al pagamento dell'imposta.


L'ambito di applicazione dell'art. 58 in relazione all'art. 57 e segnatamente l'essere limitato all'imposta principale e l'essere dovuto in relazione alla liquidazione di essa fatta dall'amministrazione (liquidazione che spetta ad essa e non al notaio) è stato già chiarito da questa Corte nella sentenza n. 2644 del 1994, la quale ha anche individuato la ratio della surrogazione di cui all'art. 58.


Coordinando le risultanze dell'art. 10, lett. b) e dell'art. 57, emerge che la fattispecie prevista dall'art. 58, per ciò che attiene alla surrogazione nelle ragioni dell'amministrazione finanziaria, quando riguarda il notaio, ha come fatti costitutivi: a) l'avere il notaio redatto, ricevuto o autenticato l'atto in relazione al quale si è verificato il presupposto di imposta; b) il pagamento da parte sua (o spontaneamente o per accertamento dell'amministrazione) dell'imposta dovuta o pretesa in relazione al detto atto a seguito della liquidazione.


La fonte del comportamento del notaio è direttamente la previsione della legge e non l'atto redatto, ricevuto o autenticato. Questo assume solo il valore di fatto storico determinativo del presupposto di imposta e giustificativo del pagamento, a seguito della liquidazione, da parte del notaio, quale obbligato ai sensi del citato art. 57.


Ancora più sullo sfondo resta il contratto di prestazione d'opera professionale in esecuzione del quale il notaio ha redatto, ricevuto o autenticato l'atto. Se, dunque, in relazione ad esso una parte rivesta la qualità di consumatore, la controversia che ai sensi dell'art. 58 il notaio introduce nei confronti di tale parte per far valere la pretesa in cui è dalla legge surrogato non è in alcun modo una controversia che riguarda una vicenda della vita del contratto di prestazione d'opera. Quest'ultima si è concretata nella prestazione d'opera spiegata dal notaio, nel suo risultato, cioè nell'atto, nell'esecuzione delle prestazioni delle parti di adempimento del corrispettivo dell'attività del notaio.


Si tratta, dunque, di controversia completamente estranea all'ambito di quelle per cui opera il foro del consumatore. Il contratto di prestazione d'opera intervenuto fra la parte consumatrice ed il notaio assume, in definitiva, solo la funzione di occasione che, in concorso con altri fatti, determina la controversia di cui all'art. 58.


[...]


Su queste domande riconvenzionali sussiste certamente l'applicabilità del foro del consumatore, in quanto esse traggono origine dal rapporto di prestazione d'opera.


Ora, nella specie sarebbe inimmaginabile uno spostamento della competenza su di esse in ragione della esistenza della competenza territoriale inderogabile secondo il foro del consumatore.


Ciò, per la ragione che è giurisprudenza consolidata di questa Corte che la domanda riconvenzionale soggetta a competenza territoriale inderogabile possa essere proposta davanti al giudice della causa principale, pur se non competente allo stesso modo (si vedano: Cass. n. 6103 del 1994; n. 7572 del 2000). Poichè nella specie gli intimati non si sono costituiti in questa sede e non hanno almeno invocato la conferma della declinatoria della competenza sulle riconvenzionali, trattandosi di foro del consumatore e, quindi, derogabile quando l'azione venga proposta dal consumatore, il Collegio - pur essendo discutibile il riferito orientamento - non ritiene che nella specie occorra procedere alla discussione."

Cass. civ. Sez. VI, Ord., 19-04-2012, n. 6116

Giustizia Amministrativa



Difetto di giurisdizione: il ricorrente appelli subito o taccia per sempre!

L'eccezione con cui l'appellante vuol far valere il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo può ritenersi ammissibile qualora non sia proposta mediante appello ritualmente notificato, ma venga sollevata solo in sede di memoria difensiva?

Consiglio di Stato / Sentenza 23 aprile 2012 da NORMA

Corte Costituzionale



Esiste un obbligo (implicito) di informazione a carico dell'A.G. nei confronti del Parlamento, nel caso di procedimento a carico di un Ministro?

Il Senato solleva conflitto di attribuzioni nei confronti dell'A.G. - in relazione alla vicenda giudiziaria che ha riguardato l'ex ministro della giustizia, on.le Mastella - lamentando la violazione del principio di leale collaborazione (interistituzionale) in ordine ad un asserito obbligo di informazione che graverebbe, in tali ipotesi, sull'Ordine giudiziario nei confronti del Parlamento.

Corte Costituzionale / Sentenza 12 aprile 2012 da NORMA

24 aprile 2012

APPALTO PRIVATO - RESPONSABILITA' CIVILE


"Il minore P.L.A., mentre era seduto su un'altalena di un giardino pubblico di (OMISSIS), fu colpito alla testa da un asse staccatosi dal gioco e subì danni alla persona.


Il Tribunale di Agrigento condannò al risarcimento il Comune di Agrigento; condannò la C. (che s'era aggiudicata l'appalto per la fornitura e la collocazione delle altalene) a rivalere il Comune; condannò la soc. Giochipark Sud, produttrice dei giochi, a rivalere, a sua volta, la C..


Parzialmente riformando la prima sentenza, la Corte d'appello di Palermo ha modificato il criterio di computo degli interessi sulla somma risarcitoria liquidata ed ha respinto la domanda proposta dalla C. contro la Giochipark Sud.


[...]


Inquadrata, invero, la fattispecie (quanto al rapporto tra la C. ed il Comune) in ambito contrattuale e richiamato il contenuto sia del capitolato d'oneri, sia del contratto stesso, il giudice ne ha dedotto che la C. non ha provato che l'accertato inadempimento (ossia l'inidoneità all'uso dell'altalena) sia derivato da causa a lei in-imputabile.


Ha pure rilevato che siffatta responsabilità contrattuale ricorre indipendentemente dal fatto che il Comune si fosse riservato di sottoporre i giochi a verifiche di resistenza e sicurezza da parte di propri tecnici.


Quanto, poi, alla responsabilità della società produttrice dei giochi, la sentenza esclude l'esistenza della prova intorno alla circostanza che il prodotto presentasse difetti strutturali e la ricorrente non deduce nell'apposito motivo di ricorso fatti controversi e decisivi in ordine ai quali il giudice abbia omesso la motivazione."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 13-04-2012, n. 5890

Silenzio rifiuto e le istanze dei privati

"Premesso quanto sopra, rileva il Collegio che il ricorso di cui trattasi è inammissibile, dal momento che il rimedio giurisdizionale previsto dagli artt.. 31 e 117 del D.Lgs. n. 104/2010, può essere attivato avverso il silenzio rifiuto dell’Amministrazione, decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo, per ottenere, da parte di chi vi abbia interesse, “l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere” (comma 1 del suddetto art. 31). Il presupposto dunque per il riconoscimento dell’illegittimità del comportamento inerte della P.A. è l’esistenza di un “obbligo di provvedere”. Ebbene, nella specie, l’istanza prodotta dalla ricorrente all’Amministrazione regionale, tendeva ad ottenere la modifica dei budget di spesa, per gli anni 2008 e successivi, già assegnati con provvedimenti ormai da tempo emessi e consolidati e quindi, nella sostanza, a chiedere la modifica, in autotutela, di tali stessi provvedimenti. Al riguardo, peraltro, non può che richiamarsi il consolidato principio giurisprudenziale per cui le istanze dei privati volte a sollecitare l'esercizio del potere di autotutela da parte della p.a. hanno una funzione di mera denuncia o sollecitazione e non creano in capo alla medesima amministrazione alcun obbligo di provvedere, non dando luogo a formazione di silenzio inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza (cfr. da ultimo CdS, V, 30.12.2011, n. 6995). Pertanto, non sussisteva nel caso in esame, alcun obbligo per l'amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento di modifica delle determinazioni di fissazione dei budget di spesa, non essendo coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di riesame delle relative decisioni già prese, mediante l'istituto del silenzio rifiuto (che pertanto nella fattispecie non si è formato)."

TAR Lazio (Sezione Terza Quater) sent. n. 3664/2012

Responsabilità della P.A.: ingiustizia non è in "re ipsa", ma accertato l'errore niente spazio alla discrezionalità


"Infatti è ormai certo (confronta, ex plurimis, la recente Cass. n. 19458 del 2011) che l'Amministrazione finanziaria non può essere chiamata a rispondere del danno eventualmente causato al contribuente sulla base del solo dato oggettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, essendo necessario che la stessa, nell'adottare l'atto illegittimo, abbia anche violato le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che costituiscono il limite esterno della sua azione.


Pertanto non è sufficiente l'obiettiva illegittimità del comportamento della P.A. (nel caso di specie della pretesa tributaria), ma occorre che tale illegittimità sia connotata da un quid pluris, che viene identificato nella violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Del resto, tutte le volte che l'azione giudiziaria viene basata sull'art. 2043 c.c., occorre necessariamente verificare non solo che la condotta abbia cagionato l'evento e che si sia verificato un danno - conseguenza, ma anche che essa sia qualificata dall'elemento soggettivo del dolo o della colpa.


Questa stessa sezione ha avuto modo di affermare (Cass. n. 22508 del 2011) che, in tema di responsabilità civile della P.A., l'ingiustizia del danno non può considerarsi in "re ipsa" nella sola illegittimità dell'esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo, invece, il giudice procedere, in ordine successivo, anche ad accertare se: a) sussista un evento dannoso; b) l'accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l'ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) l'evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, ad una condotta della P.A.; d) l'evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., sulla base non solo del dato obiettivo dell'illegittimità del provvedimento, ma anche del requisito soggettivo del dolo o della colpa.


La questione che ha originato il ricorso è già stata ripetutamente indagata da questa Corte, il cui orientamento è ormai consolidato nel ritenere (confronta, per tutte, Cass. Sez. 3^, n.5120 del 2011) che l'attività della P.A., anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti della legge e dal principio primario del "neminem laedere", di cui all'art. 2043 c.c.;


è, pertanto, consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato, da parte della stessa P.A., un comportamento doloso o colposo, che, in violazione della norma e del principio indicati abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione di cui all'art. 97 Cost., la P.A. è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall'art. 2043 c.c., ponendosi tali principi come limiti esterni alla sua attività discrezionale.


Orbene, la sentenza impugnata è conforme a tale orientamento, atteso che il Tribunale ha testualmente affermato che "nel semplice fatto di avere richiesto un tributo non dovuto dal contribuente la responsabilità non è in re ipsa, deve accertarsi se l'Agenzia delle entrate non si è attenuta ai criteri di imparzialità, correttezza e buona amministrazione".


Merita, tuttavia, di essere corretta l'affermazione del Tribunale circa il carattere facoltativo dello sgravio in sede di autotutela, poichè essa contrasta con il sopra enunciato (peraltro riconosciuto anche dalla sentenza impugnata) dovere della P.A. di conformarsi alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.


E' evidente che le predette regole impongono alla P.A., una volta informata dell'errore in cui è incorsa, di compiere le necessarie verifiche e poi, accertato l'errore, di annullare il provvedimento riconosciuto illegittimo o, comunque, errato. Non vi è, dunque, spazio alla mera discrezionalità poichè essa verrebbe necessariamente a sconfinare nell'arbitrio, in palese contrasto con l'imparzialità, correttezza e buona amministrazione che sempre debbono informare l'attività dei funzionari pubblici.


Questo principio vale anche allorchè il contribuente - compiendo una scelta di strategia difensiva il cui esito eventualmente negativo non può che imputare a se stesso - abbia lasciato scadere il termine utile per impugnare il provvedimento avanti alla Commissione Tributaria, giudice competente ad accertarne l'illegittimità e, quindi, sia stato costretto ad affidarsi all'autotutela della P.A..


L'errore in cui è incorso il Tribunale non comporta l'annullamento della sentenza, ma soltanto la correzione della sua motivazione, in quanto in concreto l'Agenzia delle Entrate ha emesso il provvedimento di sgravio."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-04-2012, n. 6283

Giustizia amministrativa



Decorrenza del termine per impugnare: il T.A.R. Lazio fa chiarezza

Il T.A.R. Roma chiarisce la rilevanza o meno, ai fini della decorrenza del termine, della comunicazione relativa ai motivi ostativi all'accoglimento di cui all'art. 10 bis, L. n. 241/1990, nonché il momento in cui può dirsi sussistente l'interesse all'impugnazione degli atti generali o regolamentari.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 12 aprile 2012 NORMA

23 aprile 2012

Interessi - calcolo e differenze

"Con la quarta doglianza per violazione dell'art.112 epe in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, e violazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., i ricorrenti lamentano che "tanto la sentenza di 1^ grado quanto quella del gravame, pur richiamando entrambe il dettato giurisprudenziale di cui alla sentenza SS.UU. 1712/95, se ne discostano applicando d'ufficio ed equitativamente gli interessi compensativi nella misura del 5% dalla data del reato alla pubblicazione della sentenza convertendoli successivamente alla pubblicazione in interessi legali moratori. Orbene, se gli interessi compensativi, per definizione, sono l'equivalente del danno subito per la mancata tempestiva corresponsione dell'equivalente pecuniario del bene danneggiato, esso danno deve essere richiesto, provato ed allegato dall'attore e non può essere liquidato ex officio" Inoltre, il tasso di interesse applicato sarebbe eccessivo perchè il tasso degli interessi compensativi non può essere determinato con criteri discrezionali ed equitativi in misura maggiore al tasso legale ed in assenza di prove ed è censurabile la condanna al pagamento del danno morale, non provato e liquidato dal giudice di prime cure con pronuncia equitativa in misura pari alla metà del danno biologico. I primi due profili, relativi alla liquidazione d'ufficio degli interessi compensativi, determinati equitativamente, sono entrambi infondati. Ed invero, come le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato nella sentenza 8520 del 05/04/2007, il risarcimento del danno da fatto illecito costituisce debito di valore e, in caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual'era all'epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. Il giudice del merito può quindi procedere alla liquidazione della somma dovuta a titolo risarcitorio e dell'ulteriore danno da ritardato pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene più appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del creditore (riconoscendo gli interessi nella misura legale o in misura diversa, superiore o inferiore, potendo utilizzare parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria o dalla redditività media del denaro nel periodo considerato. E' appena il caso di osservare inoltre che gli interessi compensativi, a differenza di quelli moratori, non vanno domandati - ed il giudice del merito è tenuto d'ufficio alla loro liquidazione - nascendo dal medesimo fatto generatore dell'obbligazione risarcitoria, che è un tipico debito di valore, ed essendo anch'essi finalizzati a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual'era all'epoca del prodursi del danno."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-04-2012, n. 6070

ASSICURAZIONE (CONTRATTO DI) - VALORI MOBILIARI


"In conclusione i ricorsi della Banca Fideuramr dell'Eurizonvita e del V. vanno respinti in ragione del seguente principio di diritto:


In tema di contratto di assicurazione sulla vita stipulato prima dell'entrata in vigore della legge n. 262 del 2005 e del D.Lgs. n. 303 del 2006, nel caso in cui sia stabilito che le somme corrisposte dall'assicurato a titolo di premio vengano versate in fondi di investimento interni o esterni all'assicuratore e che alla scadenza del contratto o al verificarsi dell'evento in esso dedotto l'assicuratore sarà tenuto a corrispondere all'assicurato una somma pari al valore delle quote del fondo mobiliare al momento stesso (polizze denominate unit linked), il giudice del merito, al fine di stabilire se l'impresa emittente, l'intermediario ed il promotore abbiano violato le regole di leale comportamento previste dalla specifica normativa e dall'art. 1337 c.c., deve interpretare il contratto al fine di stabilire se esso, al di là del nomea iuris attribuitogli, sia da identificare effettivamente come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell'esistenza dell'assicurato è assunto dall'assicuratore), oppure si concreti nell'investimento in uno strumento finanziario (in cui il rischio c.d. di performance sia per intero addossato sull'assicurato). Tale giudizio, in quanto rispettoso delle regole di ermeneutica contrattuale ed espresso con motivazione congrua e logica, non è sottoposto a censura in sede di legittimità. Il ricorso incidentale del G. resta conseguentemente assorbito."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-04-2012, n. 6061

Giustizia Amministrativa



Canoni annui di concessione demaniale: profili di giurisdizione

Sulla competenza esclusiva del Giudice Amministrativo a conoscere le controversie in materia di determinazione dei canoni demaniali in applicazione dell'articolo 1, commi 251 e 252, della legge 27 dicembre 2006 n. 296.

T.A.R. / T.A.R. Puglia - Lecce / Sentenza 13 aprile 2012 da NORMA

Giustizia Amministrativa



Uso di espressioni sconvenienti ed offensive nel giudizio: quando il Giudice può disporne la cancellazione?

Deve ritenersi offensiva o sconveniente l'espressione "ad muzzum" (in italiano "a casaccio") utilizzata per qualificare la quantificazione del danno operata da controparte?

T.A.R. / T.A.R. Sicilia - Catania / Sentenza 6 aprile 2012 da NORMA


Giustizia Amministrativa



Giudice amministrativo: giudice del silenzio della P.A.?

Il rito del silenzio costituisce un rimedio generale esperibile in ogni caso di inerzia della p.A., a prescindere dalla posizione sostanziale dedotta in giudizio? Ovvero è onere del Giudice amministrativo verificare la sussistenza della propria giurisdizione e se del caso dichiarare il proprio difetto di giurisdizione?

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Latina / Sentenza 11 aprile 2012 da NORMA

20 aprile 2012

Contro la cartella di pagamento per il C.U. si deve andare alla Commissione Tributaria


"Instaurando contraddittorio sia nei confronti del concessionario per la riscossione, sia nei confronti del Ministero della Giustizia, O.G. propose opposizione, ai sensi dell'art. 615 nonchè dell'art. 617 c.p.c., dinanzi al Tribunale di Roma, avverso cartella di pagamento, notificatagli il 6 maggio 2010, con la quale Equitalia Gerit (poi Equitalia Sud) s.p.a. gli aveva intimato il pagamento di Euro 40,35, per contributi unificati ed oneri accessori relativi all'instaurazione di un giudizio davanti al Giudice di Pace.


A fondamento della opposizione, l' O. eccepì l'inesistenza del credito e vizi di forma della cartella di pagamento (in particolare, la violazione dell'obbligo dell'indicazione degli estremi dell'atto presupposto).


Costituitosi il Ministero della Giustizia, che deduceva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in considerazione della natura tributaria del credito controverso e, comunque, l'infondatezza delle domande avversarie, e restata contumace Equitalia, il Tribunale adito, con la sentenza qui impugnata, ha rilevato il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario in favore del Giudice tributario, con riguardo all'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c., e, affermata, al riguardo, la propria giurisdizione, ha accolto l'opposizione promossa ai sensi dell'art. 617 c.p.c., dichiarando la nullità della cartella esattoriale opposta.


Avverso la sentenza del Tribunale, Equitalia ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi, deducendo, con il primo, il difetto di giurisdizione dell'a.g.o. (anche sull'opposizione ex art. 617 c.p.c.) e censurando, con gli altri, il merito della decisione impugnata.


[...]


Il ricorso di Equitalia è, peraltro, fondato.


Invero, così come dedotto da Equitalia sin dal giudizio di merito, l'opposizione ex art. 617 c.p.c., con la quale si fanno valere asseriti vizi della cartella di pagamento emessa in esito ad iscrizione a ruolo del contributo unificato previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 9, rientra nella competenza giurisdizionale del giudice tributario, atteso che il contributo unificato in oggetto ha natura di entrata tributaria (cfr. Corte cost. 73/2005 e Cass., ss.uu., 3007/08 e 3008/08) e che il controllo della legittimità delle cartelle esattoriali, configurane queste atti di riscossione e non di esecuzione forzata, spetta, quando le cartelle riguardino tributi, al giudice tributario in base alla previsione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1, e art. 19, lett. d), (cfr. Cass. SS.UU. 9840/11).


Alla stregua delle considerazioni che precedono e risultando assorbita ogni altra questione, va dichiarata, in accoglimento del ricorso, la giurisdizione del giudice tributario.


La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con rimessione delle parti davanti alla commissione tributaria provinciale competente per territorio, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 17-04-2012, n. 5994

Giustizia Amministrativa



Riconoscimento della personalità giuridica alle Fondazioni di diritto privato: questioni di giurisdizione

A quale giudice spetta la cognizione sulle controversie attinenti alla procedura di conferimento della personalità giuridica alle Fondazioni di diritto privato?

Consiglio di Stato / Sentenza 18 aprile 2012 da NORMA

Giustizia Amministrativa



"Categorie" di destinazione d'uso e contributo di urbanizzazione

Le Amministrazioni comunali, nell'esercizio della loro potestà di pianificazione del territorio, possono individuare categorie di destinazione d'uso ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dalla legislazione statale e regionale?

T.A.R. / T.A.R. Emilia Romagna - Bologna / Sentenza 5 aprile 2012 da NORMA

19 aprile 2012

COMPETENZA E GIURISDIZIONE CIVILE - Consumatore - Valori mobiliari

"Lamentano che "la disciplina in materia di servizi di investimento di cui all'art. 23 t.u.f.... esclude espressamente ogni rinvio alla diversa normativa in materia bancaria e, in particolare, alle disposizioni del titolo VI, capo I del t.u.b. che regolano, appunto, le condizioni contrattuali e i rapporti con i clienti"; e che, "stante il carattere imperativo inderogabile della citata disposizione, nel caso di specie non può trovare applicazione - anche in via analogica - la diversa disciplina in materia di bancaria (D.Lgs. 1 settembre 1998, n. 395...), relativamente alle condizioni contrattuali e ai rapporti con i clienti previste nei contratti di conto corrente, stante il maggior rigore e i più penetranti vincoli e garanzie richieste in materia di intermediazione finanziaria".


[...]


Si dolgono che il giudice abbia erroneamente ritenuto nel caso applicabile il D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 63, laddove l'art. 46 ne esclude espressamente l'applicabilità ai "contratti relativi a strumenti finanziari", sicchè "la questione sulla derogabilità del foro del consumatore deve ritenersi superata, giacchè il presente giudizio ha incontrovertibilmente ad oggetto, per l'appunto, strumenti finanziari, ed in particolare... le obbligazioni emesse dalla Viatel Inc.".


[...]


Deve altresì sottolinearsi la necessità del contemperamento della disciplina posta dal T.U.B. (D.Lgs. n. 385 del 1993, in cui è confluita quella originariamente posta da L. n. 154 del 1992, come modificato dal D.Lgs. n. 141 del 2010) con quella di tutela già dettata all'art. 1469 bis c.c. e ss., ed ora riversata nel c.d. Codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005) allorquando colui che accede al servizio bancario sia come nella specie un consumatore, con conseguente applicabilità della regola in tema di competenza territoriale quivi stabilita, esclusiva ma derogabile, del giudice del luogo in cui il medesimo ha la residenza o il domicilio elettivo - c.d. foro del consumatore - (cfr., in relazione a controversia in materia di servizi finanziari - relativi al prestito al consumo -, Cass., 6/9/2007, n. 18743).


[...]


Posto anzitutto in rilievo che ai fini della deroga del foro del consumatore la specifica approvazione per iscritto ex art. 1341 c.p.c., comma 2, è di per sè non esaustiva (v. Cass., 20/3/2010, n. 6802; Cass., 26/9/2008, n. 24262), stante la diversità degli ambiti soggettivi ed oggettivi di applicazione di tale disciplina rispetto a quella dettata all'art. 1469 bis c.c. e ss., e poi riversata nel c.d. Codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005); e osservato d'altro canto che, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, ad escludere la vessatorietà della clausola di deroga del foro del consumatore non è invero sufficiente la previsione di un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c., (v. Cass., 26/4/2010, n. 9922; Cass., 26/9/2008, n. 24262; Cass., 22/3/2007r n. 4208; Cass. 8/3/2005, n. 5007), va sottolineato che il suindicato argomento posto a sostegno della ravvisata inderogabilità assoluta del foro del consumatore contrasta in realtà con la disciplina evincentesi alla stregua dell'interpretazione sistematica e funzionale del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 63, e più in generale di tutela del consumatore in argomento.
Il D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 63, applicantesi sia ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali (così come ai contratti negoziati a distanza) che ai contratti relativi a strumenti finanziari in quanto l'art. 46 esclude invero l'applicabilità ai medesimi delle (sole) norme di cui alla sezione I e non anche quelle di cui alla sezione III cui esso accede, stabilisce che per le relative controversie civili "la competenza territoriale inderogabile è del giudice del luogo di residenza o di domicilio del consumatore, se ubicati nel territorio dello Stato".
A tale stregua, risulta ivi posta un'eccezione alla disciplina dettata, nell'ambito dello speciale sistema di tutela del consumatore, nella parte "generale" di cui al Titolo I (D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 33 - 38), e in particolare all'art. 33, comma 1, lett. u).
Eccezione che si sostanza nell'inderogabilità unilaterale da parte del "professionista" del foro del consumatore, che ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, è viceversa possibile laddove, assolvendo all'onere della prova a suo carico, il medesimo vinca la presunzione di relativa vessatorieta, dimostrando che la deroga al foro del consumatore nello specifico caso concreto non determina un abusivo squilibrio D.Lgs. n. 206 del 2005, ex art. 33, comma 1, a danno del consumatore (v. Cass., 20/8/2010, n. 18785; Cass., 20/3/2010, n. 6802; Cass., 26/9/2008, n. 24262).
Non risulta peraltro prevista alcuna specifica conseguenza o sanzione in ordine alla violazione del disposto del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 63.
Come si evince dal tenore del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 38, deve allora ritenersi trovare in tale ipotesi applicazione non già la disciplina generale di diritto comune del codice civile ex artt. 1419 e 1421 c.c. bensì la regola posta nell'ambito della disciplina "generale" del sottosistema settoriale o parziale in argomento al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36, prevedente la nullità delle (sole) clausole vessatorie o abusive (il contratto rimanendo valido per il resto).
Trattasi di nullità di protezione (D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36, comma 3, regola sintomaticamente accolta - per le ipotesi ivi specificamente previste - anche al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 127, come novellato dal D.Lgs. n. 141 del 2010, art. 4, comma 3), operante solamente a vantaggio del consumatore (v. Cass., 26/9/2008, n. 24262).
A tale stregua essa, pur essendo rilevabile anche d'ufficio dal giudice, non può in ogni caso ridondare a scapito del consumatore medesimo.
Ne consegue che ove ravvisi maggiormente rispondente al proprio interesse non avvalersi del foro del consumatore (nel caso che ne occupa, per avere i consumatori odierni ricorrenti, con domicili in molteplici diverse città, considerato "più vantaggioso concentrare in un unico foro - ovvero innanzi al tribunale di Milano dove la stessa banca convenuta ha, tra l'altro, la propria sede legale - in luogo da quelli, tutti diversi, nei quali ogni singolo soggetto avrebbe dovuto incardinare la sua causa,... così da garantire non solo l'uniformità del giudicato, ma anche consentire un sensibile contenimento dei costi ed una maggiore celerità ed economia processuale"), deve ritenersi al medesimo senz' altro consentito derogarvi, anche unilateralmente, con l'adire un giudice territorialmente competente in base ad uno dei criteri posti agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., ovvero quello indicato nel contratto, rimanendo da siffatta sua scelta comunque non scalfita l'esigenza di tutela contro l'unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto contrattuale da parte del "professionista" che la disciplina in argomento è funzionalmente volta a garantire (v. Cass., 26/9/2008, n. 24262), anche relativamente alle esigenze del mercato, non prospettandosi in tale ipotesi il giudizio di dannosità sociale sotteso alla sanzione di nullità prevista al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36, comma 1, (in ordine alla modifica introdotta nel Codice del consumo rispetto alla soluzione dell'inefficacia delle clausole vessatorie ex art. 1469 quinquies c.c., v. la citata Cass., 26/9/2008, n. 24262). 


[...]


In accoglimento del ricorso deve pertanto dichiararsi la competenza per territorio nel caso del Tribunale di Milano, con enunciazione dei seguenti principi di diritto:


- per le controversie concernenti contratti negoziati fuori dei locali commerciali relativi a strumenti finanziari la competenza territoriale è determinata ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 63, giacchè l'art. 46 esclude, l'applicabilità ai medesimi delle (sole) norme di cui alla sezione I del Capo I del Titolo III della Parte III del Codice del consumo, e non anche di quelle di cui alla sezione III, cui esso accede;


- per le controversie concernenti contratti negoziati fuori dei locali commerciali relativi a strumenti finanziari il consumatore può adire un giudice diverso da quello del foro del consumatore D.Lgs. n. 206 del 2005, ex art. 63, competente per territorio giusta uno dei criteri posti agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., senza che, in accoglimento della relativa eccezione sollevata dal professionista ovvero d'ufficio, tale giudice possa dichiarare la propria incompetenza anche a svantaggio, e cioè in pregiudizio dell'interesse, del consumatore."

Cass. civ. Sez. VI, 16-04-2012, n. 5974

OBBLIGAZIONI E CONTRATTI, Errore

Nel giudizio in merito alla sussistenza del requisito di volontà, e dunque di libertà nella formazione di un negozio giuridico o della buona fede di un comportamento, assume rilievo, tra gli altri, anche l'errore di diritto, in quanto, dovendosi valutare un atto di un soggetto responsabile, si ha riguardo al fatto in sé dell'ignoranza o della deviata conoscenza, indipendentemente dalla ragione dell'errore.

"Nè potrebbe invocarsi il principio per il quale l'ambito di rilevanza della regola posta dall'art. 1337 c.c., va oltre l'ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale che implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto (Cass. 29/9/2005 n. 19024).
E' pur corretto affermare che il contraente non ha diritto di occultare i fatti. la cui conoscenza è indispensabile alla controparte per una corretta formazione della propria volontà contrattuale (Cass. 5/2/2007 n. 2479), ma l'obbligo informativo non può essere esteso fino al punto di imporre al contraente di manifestare i motivi (nella specie il trasferimento dell'edificabilità) per i quali stipula il contratto, così da consentire all'altra parte di trarre vantaggio non dall'oggetto della trattativa, ma dalle altrui motivazioni e dalle altrui risorse."

Cass. civ. Sez. II, 16-04-2012, n. 5965

COMUNIONE E CONDOMINIO, Amministrazione del condominio, (obblighi e poteri dell'amministratore)

L'iniziativa dell'amministratore condominiale in ipotesi di lavori di straordinaria amministrazione è consentita solo laddove i medesimi presentino il carattere dell'urgenza, con la conseguenza che in difetto di tale presupposto le iniziative a tal riguardo assunte dall'amministratore non possono intendersi idonee a creare obbligazioni di qualsivoglia natura in capo ai condomini.

"L'amministratore di condominio non ha - salvo quanto previsto dagli artt. 1130 e 1135 c.c. in tema di lavori urgenti - un generale potere di spesa, in quanto spetta all'assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l'opportunità delle spese sostenute dall'amministratore; ne consegue che, in assenza di una deliberazione dell'assemblea, l'amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute, perchè, pur essendo il rapporto tra l'amministratore ed i condomini inquadrabile nella figura del mandato, il principio dell'art. 1720 c.c. - secondo cui il mandante è tenuto a rimborsare le spese anticipate dal mandatario - deve essere coordinato con quelli in materia di condominio, secondo i quali il credito dell'amministratore non può considerarsi liquido nè esigibile senza un preventivo controllo da parte dell'assemblea (Cass., Sez. 2, 27 giugno 2011, n. 14197)."

Cass. civ. Sez. VI, 16-04-2012, n. 5984

Giustizia Amministrativa


Con buona pace di Adam Smith e della "sua" mano invisibile!

Il T.A.R. Roma scandisce i concetti chiave della responsabilità antritrust, fornendo un'ampia panoramica della giurisprudenza comunitaria e nazionale in una materia che si divide tra diritto ed economia, tra ordinamento nazionale ed europeo.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 29 marzo 2012 da NORMA

18 aprile 2012

Sopravvenuta carenza di interesse o cessazione della materia del contendere?


Improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse e cessazione della materia del contendere: differenze

"Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto da una società attiva nel settore del recupero delle reti idriche avverso la sentenza del T.A.R. della Puglia con cui è stato dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso originariamente proposto avverso il provvedimento con cui la società Acquedotto Pugliese s.p.a. aveva disposto la sua esclusione da una gara di appalto per l’affidamento dei lavori di recupero delle reti idriche nella provincia di Lecce.
2. Il ricorso è meritevole di accoglimento, nei termini di seguito indicati.
2.1. In particolare, è condivisibile l’argomento secondo cui, dal momento che il ricorso al T.A.R. era stato proposto avverso l’atto di esclusione dalla gara, la circostanza per cui l’amministrazione avesse poi disposto la riammissione dell’appellante senza subordinarne gli effetti all’esito del giudizio, aveva determinato una situazione in fatto interamente satisfattiva per l’interesse sotteso alla proposizione del giudizio.
In tal modo operando, l’amministrazione aveva sancito la definitiva rimozione del provvedimento lesivo oggetto di impugnativa, così da concretare i presupposti per una pronuncia di cessazione della materia del contendere.
L’interesse immediato e diretto sotteso alla domanda di giustizia proposta dalla società appellante era, infatti, quello di ottenere la riammissione alla gara e tale interesse è stato interamente soddisfatto con l’atto in data 20 giugno 2007, richiamato in narrativa.
Al contrario, non può essere condivisa la tesi esposta dai primi Giudici, secondo cui la permanenza dell’interesse alla coltivazione del ricorso si traslerebbe necessariamente sugli ulteriori e successivi arresti del procedimento di gara, trattandosi di atti in relazione ai quali l’interesse del ricorrente assume un carattere soltanto indiretto e mediato, e in quanto tale insuscettibile di giustificare (in assenza di una loro impugnativa) una pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse, quale quella odiernamente impugnata.
Impostati in tal modo i termini concettuali della questione, il ricorso in epigrafe risulta fondato laddove lamenta che il Tribunale abbia reso una pronuncia di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, in luogo di una pronuncia di cessazione della materia del contendere, che sarebbe stata più corretta in relazione all’esito della vicenda.
Al riguardo deve essere richiamato il (condiviso) orientamento giurisprudenziale secondo cui ai sensi dell'art. 35 comma 1 lett. c), c.p.a. la sopravvenuta carenza d'interesse e la cessazione della materia del contendere si differenziano tra loro nettamente per la diversa soddisfazione dell'interesse leso; la sopravvenuta carenza di interesse può essere conseguenza anche di una valutazione esclusiva dello stesso soggetto, in relazione a sopravvenienze anche indipendenti dal comportamento della controparte e qualora sia determinata dal sopravvenire di un nuovo provvedimento, questo non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell'assetto del rapporto tra la p.a. e l'amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l'operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell'interesse azionato (Cons.Stato, Sez. IV, 4 marzo 2011, n. 1413).
3. In base a tali considerazioni, il ricorso in epigrafe deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere nel primo ricorso, con integrale compensazione delle spese del doppio grado."

Consiglio di Stato, sez. VI sent. n. 2135/2012

Quando si dice "sparare sulla croce rossa"

Richiamo in servizio di  unità di personale non dipendente.


"Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dalla Croce Rossa Italiana (d’ora innanzi: ‘la CRI’) avverso la sentenza del T.A.R. del Lazio con cui sono stati accolti due ricorsi proposti da un Ufficiale Commissario in congedo dei ruoli della CRI e, per l’effetto, sono stati annullati i provvedimenti con cui il Comitato centrale aveva prorogato (fino al 31 dicembre 2010) il richiamo in servizio di alcune unità di personale non dipendente a tempo indeterminato ai sensi dell’articolo 29 del R.D. 10 febbraio 1936, n. 484.
2. Il ricorso è infondato.
2.1. In via di principio, è innegabile che la previsione di cui all’articolo 29 del R.D. 484 del 1936, richiamata in premessa, debba essere intesa nel senso di riconoscere alla Croce Rossa Italiana, in sede di esercizio del potere di richiamo in servizio, di una latissima discrezionalità amministrativa.
L’esercizio di tale discrezionalità tuttavia, sulla base di consolidati princìpi, non può essere ritenuto del tutto esente da qualunque forma di controllo, dovendosi comunque ammettere la sindacabilità in sede giurisdizionale in caso di attività connotata da palesi profili di irragionevolezza o abnormità.
Sotto tale aspetto, la sentenza in epigrafe è meritevole di conferma laddove afferma che la previsione di cui al secondo comma dell’articolo 29, R.D. 484, cit. (la quale richiama un potere esercitabile “con facoltà insindacabile”), in tanto può essere ritenuta compatibile con l’ordito costituzionale (e, in particolare, con l’articolo 113 della Carta fondamentale), in quanto si ritenga che essa faccia riferimento ad ipotesi di discrezionalità – per così dire – ‘rafforzata’ nelle modalità di esplicazione, ma non certo esente in radice dal generale carattere della giustiziabilità.
2.2. Impostati in tal modo i termini concettuali della questione, la sentenza in epigrafe è certamente meritevole di conferma laddove ha affermato che emergono effettivi profili di incongruità ed irragionevolezza i quali minano in radice la legittimità delle ordinanze commissariali con cui l’odierna appellante aveva dapprima disposto e successivamente prorogato numerosissimi richiami in servizio in distonia con i princìpi regolatori della materia.
In particolare, la sentenza in questione ha condivisibilmente rilevato:
- che gli atti in questione (il cui effetto era stato nel senso di consentire la stabilizzazione di fatto di circa 370 unità di personale per un periodo ultraquinquennale) si pongono in contrasto con il tendenziale principio della concorsualità dell’accesso agli impieghi e del carattere paradigmatico delle assunzioni a tempo indeterminato per far fronte ad esigenze di servizio di carattere non temporaneo della CRI;
- che ulteriori profili di incongruità e contraddittorietà sono ravvisabili in capo all’operato dell’amministrazione la quale, nel dichiarato intento di superare un assetto palesemente contra legem (rilevato dagli Ispettori del Ministero dell’Economia e delle finanze), aveva – per un verso – apposto un termine (a sanatoria ed ex post) ai numerosissimi richiami a suo tempo disposti; ma aveva – per altro verso – contestualmente disposto l’ulteriore proroga di tali richiami per altri due anni, in tal modo palesando un comportamento di fatto elusivo dei medesimi princìpi cui – pure – affermava di volersi conformare;
- che l’operato dell’amministrazione era, altresì, caratterizzato da palesi profili di contraddittorietà in relazione alle numerose istanze di richiamo in servizio avanzate dall’odierno appellante. Ed infatti, per un verso l’amministrazione aveva più volte affermato l’inesistenza di esigenze operative le quali giustificassero un richiamo (in particolare, per la sede del Comitato territoriale di Bari, cui era riferita l’istanza dell’odierno appellato), mentre – per altro verso – risulta che l’Ente avesse disposto richiami in servizio - per altro prorogati nel corso degli anni – relativi alla medesima sede e al medesimo periodo cui si riferiva l’istanza del Capitano Martinez;
- che, più in generale, le modalità con cui la CRI aveva nel corso degli anni disposto i richiami in servizio e le successive proroghe, risultavano illegittime per la mancata, previa, fissazione di criteri univoci volti ad orientare ex ante il potere di richiamo.
Le ragioni dinanzi richiamate palesano il carattere complessivamente illegittimo delle determinazioni assunte dalla CRI nel periodo 2005-2010 in tema di richiami in servizio, né può ritenersi che tali illegittimità restino sanate dal solo fatto (in se, plausibile) dell’effettiva esistenza di situazioni di emergenza cui fare fronte attraverso l’istituto del richiamo (circostanza – quest’ultima – che l’appellante enfatizza fortemente in sede di appello).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la Croce Rossa Italiana alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 2.000 (duemila), oltre gli accessori di legge."


Consiglio di Stato Sez VI Sent. n. 2141/2012